Capitolo 4

2696 Worte
CAPITOLO 4 Taino, St. Marcos, Isole Vergini americane 20 aprile 2013 Posai il telefono, respirando con affanno e chiedendomi se non stessi sviluppando un’asma dell’età adulta. Perché era così difficile respirare? Guardai l’orologio digitale sul cruscotto, contando i minuti. Il tempo passava. Respirare non diventava più facile. Rimasi lì seduta al buio. Tap tap tap. Un rumore nel mio orecchio sinistro, proveniente dal finestrino. Ovvio. Me l’aspettavo. Ma quando sbirciai verso l’esterno ebbi una grossa sorpresa. Un volto nero e gonfio mi stava fissando da dieci centimetri di distanza. Un largo viso maschile poco attraente che conoscevo bene. Era l’agente Darren Jacoby, un ammiratore di lunga data di Ava e mio non-ammiratore da non molto tempo, con una versione caraibica di Ichabod Crane che incombeva alle sue spalle. Jacoby fece un movimento rotatorio col pugno chiuso mimando la manovella che azionava i finestrini nelle macchine di un tempo, e invitandomi così ad abbassare il mio. Girai la chiave dell’accensione a metà e usai il pulsante per fare ciò che mi chiedeva. “Sto cercando Bart,” disse Jacoby. “Non è qui.” “Puoi avvertirlo?” Ichabod si tirò un po’su i pantaloni e si lisciò la camicia sullo stomaco. “Sì, se lo vedrò.” “Non gli fai più compagnia?” “Non proprio.” Jacoby annuì, come se avessi detto qualcosa di intelligente. Poi si allontanò. Ichabod si girò e lo seguì. Chiusi il finestrino. L’intera faccenda era strana, al limite del terrificante. Non mi aveva certo aiutato con il mio problema di respirazione. Mi misi la testa tra le mani. Tap tap tap. Non di nuovo, per favore. Alzai lo sguardo per rivolgere a Jacoby un cenno interrogativo e mi trovai davanti agli occhi la faccia che mi ero aspettata di vedere la prima volta. “Mi fai entrare?” chiese Nick. La sua domanda mi fece rapidamente passare da distrutta a infuriata. Accesi il motore del furgone e azionai nuovamente il pulsante del finestrino, che cominciò ad abbassarsi. Urlai attraverso l’apertura che si allargava lentamente. “Pensi di poter salire sulla mia macchina come se niente fosse, quando per mesi mi hai trattato come se non esistessi? Ora ti presenti nel luogo in cui abito, in cui lavoro, in cui ho una vita come se dovessi stenderti un tappeto di benvenuto. Ti ho già dato la mia amicizia e la mia dignità. Cos’altro vuoi, Nick?” Sbattei la testa sul volante una, due volte, poi mi girai di nuovo verso di lui. “Chi voglio prendere in giro? Ti ho dato il mio cuore, stronzo. Adesso vuoi il portafoglio? O preferisci che mi tagli un braccio?” Non stavo tanto urlando, quanto piuttosto perforando l’aria densa della notte con una serie di acuti che non mi permisero di riprendere fiato. Ci provai, ansimai e buttai fuori ossigeno per fare spazio, ma non entrava più aria. Nick parlava, ma le orecchie mi ronzavano e io non riuscivo a sentirlo. Accesi il condizionatore al massimo e mi orientai il getto d’aria sul viso, sentendo raffreddarsi il sudore. Dopo qualche istante riuscii a prendere un profondo respiro tremante. Appena l’aria mi entrò nei polmoni la ributtai fuori singhiozzando. Andai avanti così per un po’. Agitai una mano verso Nick, che stava ancora parlando. “Vai via. Torna in Texas. Non voglio avere più niente a che fare con te. Non voglio esserti amica o fingere di essere gentile. Vattene e basta.” Nick afferrò la mano con cui facevo il gesto di scacciarlo, con una presa callosa allo stesso tempo forte e gentile. Le mani di un vero uomo, avrebbe detto mio padre. Avvicinò la testa al finestrino. “Katie, ascoltami. Mi dispiace,” ricominciò, ma io lo interruppi. “Di cosa? Di aver buttato via i tuoi soldi per venire fin qui?” “Dio, no. Ma ho solo quarantotto ore prima di dover ripartire. Hai intenzione di farmi restare qui fuori tutto il tempo o potresti considerare l’idea di lasciarmi entrare e di urlarmi contro da vicino?” Quarantotto ore? Merda. Io volevo davvero parlare con lui. Prima gli avrei staccato la testa volentieri, ma poi volevo sentire cosa avesse da dire. I singhiozzi si placarono e mi limitai a tirare su con il naso. Un’auto ci passò accanto lentamente nel parcheggio. Fantastico. Probabilmente sembravo una reginetta del ballo ubriaca che litigava con il suo accompagnatore. “Posso salire in macchina con te, per favore?” insisté, mentre un Pathfinder nero si fermava con un sobbalzo accanto a me, slittando nell’ultimo paio di metri. Oh, sì, conoscevo quel veicolo. Ed era guidato da qualcuno che a breve sarebbe stato molto arrabbiato con me. Una portiera sbatté. Un paio di piedi fece scricchiolare la ghiaia a ogni passo. Ma non fu Bart ad avvicinarsi al mio finestrino. Accanto a Nick apparve Ava, inconfondibile in un abito rosso elasticizzato con le maniche che lasciavano scoperte le spalle e i voluminosi capelli neri che le ondeggiavano sulla schiena nella brezza della notte. Ava, la donna che si supponeva avessi chiamato dal mio furgone non molto tempo prima. Ops. “Ragazza, in quella macchina c’è un uomo arrabbiato che è venuto a prendermi per portarmi qui.” Puntò l’indice verso Nick. “Questo è il tizio per cui non dovresti struggerti?” Mi pentii immediatamente di aver vomitato l’intera storia di Nick sulla mia nuova amica. Non era esattamente ciò che volevo lui sentisse, ma pazienza. “Esatto,” dissi. “Lo immaginavo,” confermò lei. “Penso che quello in macchina si aspetti che tu scelga uno dei due, e molto velocemente.” Pronunciava alcune parole con un suono più duro del normale, e altre con un accento più strascicato. “Ti ha mandato qui a dirmelo invece di venire di persona?” Una vampata di calore mi salì al viso e si fermò sugli zigomi. Ava scrollò le spalle ed ebbe la cortesia di mostrarsi dispiaciuta. Ma non era con lei che ero arrabbiata. Mi tornò in mente il sentore alcolico che avevo percepito nell’alito di Bart mentre tornavamo al parcheggio, e aggiunsi a quello sgradevole ricordo la vigliaccheria di quegli ultimi istanti. Afferrai la leva del cambio e inserii la marcia, ma tenni il piede sul freno. “Comunicagli che ha appena reso la scelta piuttosto facile,” le dissi. Sbloccai le portiere. “Sali,” dissi a Nick. Lasciarlo entrare non significava automaticamente dargliela vinta. Ava tornò al Pathfinder di Bart. Nick fece il giro e venne a sedersi al posto del passeggero. Io premetti il piede sull’acceleratore godendomi la sensazione delle grosse ruote del mio furgone che lanciavano sassi in aria a una distanza di tre metri. Speravo che qualcuno di essi entrasse in collisione con un grosso oggetto a quattro ruote lucido e nero. “Non farti idee sbagliate,” dissi a Nick. “Sono solo arrabbiata con lui.” Non rispose, ma si allacciò la cintura di sicurezza. Girai con forza il volante a sinistra, rallentando appena nella svolta di uscita dal parcheggio. Schiacciai a fondo il pedale e un enorme peso, che non sapevo di aver sopportato, si sollevò da me e fluttuò nell’aria sopra la mia testa, per poi sparire. Accidenti. Cos’era? “Dove stiamo andando?” chiese Nick. Era leggermente girato con tutto il corpo verso di me e mi fissava con i suoi penetranti occhi scuri. “Hai paura?” chiesi. “No, sono curioso.” Appoggiai sul volante entrambe le mani, a ore dieci e a ore due, e cominciai a tamburellarci sopra le dita della mano destra. Da qualche parte, in profondità dentro di me, qualcosa aveva iniziato a formicolare. Eccitazione. Una sensazione che non provavo dall’ultima volta in cui mi ero trovata nello spazio personale di Nick. Sapevo che avrei fatto meglio a sbrigarmi se volevo sperare di prenderlo a calci in culo ancora un po’. Continuai a guidare. Arrivammo in cima a Mabry Hill, il punto più alto al centro dell’isola, e non toccai nemmeno il freno mentre cambiavamo direzione per tuffarci di nuovo a valle. Mi sentivo follemente viva. Quando ci avvicinammo alla prima curva, rallentai il furgone fino a una velocità quasi ragionevole e lanciai un’occhiata a Nick. Mi stava ancora fissando. “Cosa c’è?” chiesi. “Sto solo aspettando che tu risponda alla mia domanda.” Passata la curva, il Mar dei Caraibi si estese davanti a noi sotto la luna piena. La luce schiariva il nero del cielo notturno in un blu vellutato e conferiva un aspetto spettrale agli alberi sui lati della strada, sebbene li riconoscessi dalle sagome. Un maestoso capoc. Un gruppo di mogani giganti. I rami filiformi di un flamboyant, l’albero preferito dai turisti, con la sua corteccia ingannevolmente liscia che di giorno si sfaldava come la pelle scottata dal sole. “Stiamo andando a casa mia,” dissi. “Quella in cui vivi o quella che hai comprato?” “Emily non si è persa un dettaglio, vero? No, non andiamo da Ava.” Era lì che vivevo, finché il mio costruttore non avesse finito i lavori ad Annalise. Grove il Matto aveva promesso di farmi entrare prima dell’estate, e sembrava che ce l’avrebbe fatta. “Em mi ha parlato del tuo fidanzato,” disse Nick, pungolandomi. Il mio ex fidanzato, ormai, per quanto mi riguardava. Ma non erano affari suoi, quindi non replicai. “Sei innamorata di lui?” “Che ne dici di giocare al gioco del silenzio? Il primo che parla perde,” risposi. Nick sembrò alzare gli occhi al cielo, ma dato che lo vedevo solo con la coda dell’occhio non potevo esserne certa. Proseguii, svoltando di nuovo a sinistra su Centerline Road. Per divertimento diedi un altro po’ di gas al furgone e mi deliziai con la vista di Nick che rimbalzava su e giù. Quindici minuti sadicamente perfetti più tardi, entrammo lentamente nel vialetto buio di Annalise, con la luce della luna che indicava la strada per il posto più bello del mondo. “Gesù, questa è casa tua? È fantastica,” disse Nick. “Hai perso,” osservai. Cinque dei miei cani ci raggiunsero nel giardino laterale, abbaiando gioiosamente. Il sesto, il mio pastore tedesco e guardia personale, Poco Oso, era rimasto a casa di Ava. Nick abbassò il finestrino e rivolse loro qualche parola, mettendoli in estrema agitazione. Sembravano gridarsi l’un l’altro ‘nuova persona altamente sospetta’. Parcheggiai il furgone sotto l’immenso albero di mango sul lato del vialetto più vicino alla casa. E ora? Il mio volo era sembrato un ottimo piano fino a un attimo prima, ma eravamo atterrati a destinazione. Sentivo un po’ di mal d’aria. Nick stava benissimo, invece. “Ecco,” disse, porgendomi un fazzoletto di carta. Mortificata dal fatto che mi era colato il mascara, feci per passarmelo sul viso. “Non farlo!” gridò Nick. Sobbalzai sul sedile. “Cosa? Cosa ho fatto?” “Non te l’ho dato per pulirti la faccia. Lo devi leggere.” La mia fronte si aggrottò nel familiare intrico di miliardi di rughe sottili, che cercai consapevolmente di spianare prima che diventassero permanenti. “Che cos’è?” Nick cercò con le dita l’interruttore e accese la luce dell’abitacolo. “Leggilo, Katie.” Non era un fazzoletto di carta. Era un tovagliolo da cocktail stropicciato che riportava alcune righe scritte a mano. Ah. Il tovagliolo. Non potevo credere che avesse conservato quel dannato pezzo di carta. Restai a bocca aperta. Pronta per catturare al volo una mosca, pensai. La chiusi. Nick si passò una mano tra i capelli. Ah, non aveva perso quel tic. Era nervoso. Lessi le parole scritte con una penna a sfera blu sopra, sotto e intorno al logo dell’Eldorado Hotel & Casino. ‘Non può accadere ora / mi fermi il cuore Voglio fare le cose nel modo giusto Aspettami’ Lisciai la carta e cercai di elaborare il tutto. Quando avevamo parlato, l’estate precedente a Shreveport, era riuscito a dire solo ‘non può accadere’ prima che io partissi in quarta a difendermi in modalità arma-di-distruzione-di-massa. Il mio cervello faticava a recepire le nuove informazioni. ‘Mi fermi il cuore’… Era una cosa promettente, giusto? Il mio sembrava essersi appena fermato, in effetti. Cercai conferme sul suo volto. “Posso dirti ora quello che avrei dovuto dire a Shreveport, Katie? Quello che intendevo veramente…” Annuii, perché comunque non pensavo di riuscire a parlare. Le forti dita delle emozioni mi avevano afferrato la gola e stringevano. Per esperienza, sapevo che probabilmente era meglio così. Si schiarì la voce. “Erano tre, le cose che avevo intenzione di dirti,” iniziò, indicando con un gesto il tovagliolo consumato. “Quello che non sono riuscito ad aggiungere dopo ‘non può accadere’, almeno prima che tu ti arrabbiassi, era ‘non ANCORA’, e…” Fece una pausa mormorando tra sé e sé. “Puoi farcela, Kovacs.” Lo disse a voce talmente bassa che non sapevo se l’avessi sentito davvero o se fosse stata solo la brezza dal finestrino. Due parole sfuggirono alla morsa che mi serrava la gola. “E cosa?” Si mise a ridere brevemente, spezzando la tensione. “Calma, è una cosa importante.” Chiuse gli occhi per un momento, poi li riaprì e fissò lo sguardo nei miei. “Il mio cuore si ferma ogni volta che ti vedo entrare nella mia stessa stanza.” Attese. Quello era il momento in cui avrei dovuto dire qualcosa. Rimasi immobile come il granito. Non volevo rovinare tutto con le parole sbagliate, e non riuscivo a trovare quelle giuste. Ma nella mia confusione su cosa dire, lasciai calare un silenzio che non volevo nemmeno io. Nick si accigliò leggermente, ma proseguì. “La seconda cosa era che volevo fare le cose nel modo giusto. Volevo una vera relazione con te, non solo un fine settimana selvaggio.” Attese nuovamente una mia risposta, e di nuovo rimasi sbalordita e muta. Si passò un’altra volta la mano tra i capelli. “Ma il terzo punto era che dovevo chiederti di aspettare, perché le cose erano troppo folli nella mia vita, in quel momento. Avevo bisogno di tempo perché non volevo rischiare di rovinare subito il nostro inizio.” Finalmente riuscii a parlare. “Oddio,” dissi in un sussurro stridulo. Tutto lì. Ma cosa provavo? Mesi prima avrei strisciato a pancia in giù su vetri rotti e roventi per sentire quelle parole da lui. Una vocina nella mia testa si intromise. Ma ti ha ferito. È stato freddo e crudele. Avrebbe potuto dirti queste parole mille volte prima di adesso. Piantala, risposi a me stessa. Era arrivato qualcosa di bello. Dov’era la vocina che avrebbe dovuto incitarmi e augurarmi felicità?” Nick continuò. “Ma quella sera è andato al diavolo tutto. Ero talmente arrabbiato con te che…” Ritrovai il respiro. Dovevo vuotare il sacco prima di fare qualcosa di stupido, come ascoltare la vocina che voleva sabotare quel momento. “Nick, fermati. Devo parlare prima che tu dica una sola altra parola: mi dispiace tanto. Ti ho mentito. Avevi ragione, avevo davvero detto a Emily che ero innamorata di te e sapevo che ci avevi sentito al telefono. Ma quando hai esordito con ‘non può accadere’ mi sono sentita mortificata. Mi sono messa sulla difensiva e sono… sono stata… beh, sono stata orribile. E ho sbagliato.” Nick liberò l’enorme respiro che aveva trattenuto. “Va tutto bene. So di aver reagito a quello che hai detto in modo sproporzionato. Ero arrabbiato più con me stesso che con te per aver incasinato tutto, tanto la mia vita quanto quella conversazione, ma ho dato la colpa a te. Ho avuto un comportamento di merda con te, e so di averti ferito. Quello che è successo è colpa mia. Il fatto che tu sia venuta a St. Marcos è colpa mia. Quel dannato fiasco del processo McMillan è colpa mia. Mi ci sono voluti mesi per trovare il coraggio di venire qui. Ma dovevo dirti tutto almeno una volta. Dovevo provarci.” Quelle. Quelle erano le parole che avevo bisogno di sentire.
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