CAPITOLO II

1996 Palabras
CAPITOLO II Il padre di Carlo Deslauriers, ex capitano dell'esercito dimissionario nel 1818, era tornato a Nogent per sposarsi; coi soldi della dote, s'era comprato un posto di cancelliere che gli dava appena da vivere. Inasprito da lunghe ingiustizie, sofferente per le vecchie ferite e pieno di rimpianto, ancora, per l'imperatore, era costretto per non soffocare a sfogarsi con i familiari. Pochi bambini ne han prese tante come suo figlio. Ma il ragazzo, a dispetto dei colpi, teneva duro. Sua madre, ogni volta che cercava di mettersi in mezzo, non era trattata meno rudemente. Alla fine, il capitano lo piazzò nel suo studio, dove lo costringeva a copiare atti tutto il santo giorno; a furia di star curvo sullo scrittoio, la spalla destra gli si sviluppò visibilmente più dell'altra. Nel 1833, per invito del presidente, il capitano dovette cedere l'incarico, la moglie morì di cancro. Lui andò a vivere a Digione, poi a Troyes, dove si mise ad assoldare sostituti per la leva; riuscì a ottenere per Carlo una mezza borsa di studio e lo mise al collegio di Sens, dove Federico lo conobbe. Ma uno aveva dodici anni, l'altro quindici; in più, li separavano mille differenze d'origine e di carattere. Federico aveva nei cassetti ogni sorta di provviste e di oggetti raffinati, un servizio da toletta, per esempio. Gli piaceva alzarsi tardi, guardare le rondini, leggere drammi; abituato alle dolcezze casalinghe, le rimpiangeva, e trovava rude la vita di collegio. La stessa vita riusciva gradevole al figlio del cancelliere. Si dava tanto da fare che alla fine del second'anno fu regolarmente promosso in terza. Eppure, per colpa della povertà o del carattere litigioso, era circondato da una sorda antipatia. Una volta che un domestico, in mezzo al cortile della media, l'aveva chiamato figlio di straccioni, lui gli saltò alla gola e l'avrebbe ammazzato se non fossero accorsi tre istitutori. Federico, preso d'ammirazione, corse ad abbracciarlo. Da quel giorno la loro amicizia non ebbe limiti. La confidenza d'un “grande” lusingava, si capisce, la vanità del più giovane; l'altro accettò con gioia la devozione tributatagli. Il padre di Carlo, durante le vacanze lo lasciava in collegio. Una traduzione di Platone, aperta per caso, lo riempì d'entusiasmo. Si dedicò con ardore allo studio della metafisica, nel quale progredì rapidamente dato che l'affrontava col vigore della giovinezza e con la forza orgogliosa di un'intelligenza che riscatta se stessa. Jouffroy, Cousin, Laromiguière, Malebranche, gli Scozzesi, tutto ciò che offriva la biblioteca fu messo a profitto. Per procurarsi i libri, aveva dovuto rubarne la chiave. I passatempi di Federico erano meno severi. In rue des Trois-Rois fece uno schizzo della genealogia di Cristo scolpita su una colonna di legno, poi della grande porta della cattedrale. Dai drammi medievali passò ai memorialisti: Froissart, Comines, Pierre de l'Estoile, Brantôme. Le immagini accese nella sua fantasia da quelle letture l'ossessionavano al punto che sentiva il bisogno di riprodurle. Sognava d'essere, un giorno, il Walter Scott francese. Deslauriers meditava un gran sistema filosofico, capace delle più svariate applicazioni. I due amici conversavano di tutte queste cose nei minuti di ricreazione, in cortile, di fronte alle parole di virtù dipinte sotto l'orologio; ne bisbigliavano nella cappella, a dispetto di San Luigi; ne sognavano nel dormitorio le cui finestre davano su un cimitero. Durante le passeggiate stavano insieme in fondo alla fila e parlavano interminabilmente. Parlavano di quello che li aspettava in futuro, appena usciti dal collegio. Prima di tutto, avrebbero fatto un lungo viaggio col denaro che. Federico, una volta maggiorenne, avrebbe potuto attingere dal suo patrimonio. Poi sarebbero andati a Parigi a lavorare insieme, senza lasciarsi mai, e a godere, nelle ore di svago, di amori principeschi dentro boudoirs tappezzati di seta, o di orge abbaglianti con le cortigiane più famose. A questi trasporti di speranza succedevano i dubbi. Da certi eccessi d'allegria verbosa i due cadevano in profondi silenzi. Nei crepuscoli d'estate, dopo le lunghe camminate per i sentieri sassosi che dividono i vigneti, o in aperta campagna lungo lo stradone, a un tratto, mentre i campi di grano ondeggiavano al sole e effluvi d'erba angelica passavan per l'aria, li prendeva come un soffocamento e storditi, inebriati, s'abbandonavano a terra allungandosi sul dorso. I compagni in maniche di camicia, giocavano a rincorrersi o lanciavano aquiloni. Poi, il prefetto chiamava. Si rientrava attraverso i giardini, costeggiando ruscelli, poi percorrendo i viali ombreggiati dai vecchi muri; le strade deserte risuonavano dei loro passi; il cancello s'apriva, s'andava su per le scale; e i due si sentivano tristi come dopo uno stravizio. L'assistente era convinto che s'esaltassero l'un l'altro. Eppure, se negli ultimi anni Federico si mise a studiare seriamente, fu per gli incitamenti dell'amico. Nelle vacanze del 1837 lo portò a casa sua, ospite della madre. Il giovane non riuscì simpatico alla signora Moreau. Si dimostrò un mangiatore eccezionale, rifiutò d'andare a messa alla domenica, esponeva teorie repubblicane; in più, le sembrò di capire che aveva portato suo figlio in luoghi di perdizione. I loro rapporti vennero sorvegliati. Questo non servì che a render più viva la loro amicizia; e quando, l'anno dopo, Deslauriers lasciò il collegio per andare a studiar legge a Parigi, gli addii furono strazianti. Federico era più che mai deciso a raggiungerlo. Erano due anni che non si vedevano; finiti gli abbracci, andarono ai due ponti per discorrere in pace. Il capitano, che adesso gestiva una sala da biliardo a Villenauxe, aveva visto rosso quando il figlio aveva preteso il rendiconto di tutela, e gli aveva addirittura tagliato i viveri da un giorno all'altro. Dato che aveva in animo di concorrere, più avanti, a una cattedra, e non aveva di che mantenersi, Deslauriers aveva accettato di lavorare come capo-scrivano in uno studio legale. A furia di privazioni, sarebbe riuscito a metter via un quattromila franchi; e se anche non avesse potuto metter le mani sul resto dell'eredità materna, avrebbe avuto comunque la possibilità di lavorare liberamente per tre anni, in attesa d'una sistemazione. Insomma, era necessario abbandonare il vecchio progetto di vivere insieme nella capitale, almeno per il momento. Federico abbassò la testa. Il primo dei suoi sogni andava in frantumi. «Non prendertela,» disse il figlio del capitano, «la vita è lunga, siamo giovani. Sta' tranquillo! Non ti lascerò solo.» Gli batteva sulle spalle e, per distrarlo, gli domandò qualcosa del suo viaggio. Federico non aveva molto da raccontare. Ma gli tornò alla mente Madame Arnoux, e la tristezza scomparve. Una sorta di pudore lo trattenne dal parlarne all'amico; in compenso si dilungò sul conto di Arnoux descrivendo la sua conversazione, il suo modo di fare, magnificando le sue relazioni. Deslauriers gli raccomandò vivamente di coltivare una simile conoscenza. Negli ultimi tempi, Federico non aveva scritto niente. I suoi gusti letterari eran cambiati: apprezzava, più d'ogni altra cosa, la passione; Werther, René, Frank, Lara, Lélia e altri eroi minori suscitavano in lui un entusiasmo pressoché indiscriminato. A volte gli sembrava che solo la musica fosse in grado d'esprimere i profondi turbamenti del suo animo, e vagheggiava delle sinfonie; altre volte, era l'apparenza delle cose a colpirlo, e avrebbe voluto dipingere. Ciò nonostante, aveva composto dei versi; Deslauriers trovò ch'erano belli, ma non gliene chiese altri. Quanto a lui, la metafisica non lo attirava più; adesso erano l'economia politica e la Rivoluzione francese a occuparlo. Era diventato, nel frattempo, a ventidue anni, un giovanotto alto alto e magro, con la bocca larga e un'aria decisa. Quella sera aveva addosso un soprabito frusto e leggero; e le scarpe eran bianche di polvere perché se l'era fatta tutta a piedi, da Villenauxe, apposta per vedere Federico. S'avvicinò Isidoro. La signora pregava il signore di rientrare e, nel timore che avesse freddo, gli mandava il mantello. «Fa' il piacere, resta!» Esclamò Deslauriers. E continuarono a passeggiare da un capo all'altro dei due ponti che uniscono alla terraferma la stretta isola formata dal canale e dal fiume. Camminando in direzione di Nogent, avevano di fronte un ammasso di case un po' sbilenche; a destra, dietro i mulini di legno immobili, a chiuse alzate, s'affacciava la chiesa; a sinistra le siepi d'arbusti, lungo la riva, delimitavano giardini quasi invisibili. Ma verso Parigi, la strada maestra scendeva dritta, lontano fra praterie che si stendevano a perdita d'occhio nei vapori biancastri di una notte chiara e silenziosa. Odori di foglie fradice salivano fino a loro; il salto d'acqua, cento passi più in là, mormorava con il brusio largo e dolce che fanno le onde nel buio. Deslauriers si fermò netto e disse: «E questa brava gente si fa i suoi sonni tranquilli: è incredibile! Pazienza, un altro Ottantanove è alle porte. Non se ne può più di costituzioni, carte, sottigliezze, menzogne! Ah, se avessi un giornale o una tribuna saprei ben io come fare per dare una buona scrollata a tutto quel vecchiume! Ma ci vogliono i soldi, per ogni cosa ci vogliono i soldi. Che maledizione essere il figlio di un bettoliere, e sprecar la giovinezza a mendicarsi il pane!» Chinò la testa, si morse le labbra; nei suoi panni lisi, stava tremando di freddo. Federico gli buttò sulle spalle un lembo del suo mantello. Se lo strinsero addosso insieme e camminavano fianco a fianco, sotto, tenendosi per la vita. «Come vuoi che faccia a vivere là da solo?» Diceva Federico. (L'amarezza dell'amico l'aveva fatto ridiventar triste.) «Forse, con una donna che m'amasse, qualcosa avrei realizzato... Ridi? L'amore è la pastura del genio, è, come dire, la sua atmosfera. Sono le emozioni straordinarie che producono le opere sublimi. Ma, quanto a andare a cercare quella che mi ci vuole, ci rinuncio! E poi anche se la trovassi, lei non mi vorrebbe. Appartengo alla razza dei diseredati, e morirò senza sapere se il mio tesoro fosse di vetro o di diamanti.» Sul selciato s'allungò l'ombra di qualcuno, e insieme si sentì dire: «Servo loro, signori.» Chi aveva parlato così era un ometto rivestito d'una larga redingote marrone e con in testa un berretto a visiera sotto il quale si profilava un naso a punta. «Il signor Roque?» Disse Federico. «In persona,» ribatté la voce. L'uomo di Nogent giustificò la sua comparsa raccontando che veniva dal suo giardino in riva al fiume, dove aveva ispezionato le trappole per i lupi. «Di ritorno al paese, eh? Bene, bene! L'ho saputo dalla mia bambina. La salute sempre buona, no? Non doveva ripartire?» E se ne andò, seccato, evidentemente, per l'accoglienza di Federico. La signora Moreau, in effetti, non lo frequentava; il vecchio Roque viveva in concubinaggio con la sua governante, ed era assai poco stimato, pur essendo una specie di grande elettore, e uomo di fiducia, di Dambreuse. «Chi, il banchiere che sta in rue d'Anjou?» S'informò Deslauriers. «Lo sai cosa dovresti fare, vecchio mio?» Isidoro li interruppe un'altra volta. Gli era stato ordinato di ricondurre Federico, senz'altro. La signora era inquieta per la sua assenza. «D'accordo, d'accordo, si va,» disse Deslauriers; «non sta mica fuori a dormire.» E, congedatosi il domestico: «Dovresti pregare quel vecchietto di presentarti ai Dambreuse; non c'è niente di più utile che frequentare dei ricchi! Dal momento che possiedi un abito nero e dei guanti bianchi, approfittane. Bisogna che tu ci entri, in quel mondo! Più avanti, ci porterai anche me. Un milionario, ci pensi? Fa' di tutto per piacergli, e anche a sua moglie. Diventa il suo amante!» Federico protestava. «Ma io ti sto dicendo delle cose classiche, no? Pensa a Rastignac, nella Comédie humaine! Ci riuscirai anche tu, ne sono convinto!» Federico aveva una fiducia tale in Deslauriers, che si sentì colpito, e dimenticando Madame Arnoux, o forse confondendola con l'altra nella predizione dell'amico, non riuscì a trattenere un sorriso. Lo scrivano aggiunse: «Ancora un consiglio, fatti promuovere agli esami! Un titolo serve sempre; e lascia perdere tranquillamente i tuoi poeti cattolico-satanici, gente che ne sa di filosofia quanto se ne sapeva nell'alto medioevo. Sei sciocco a disperarti. Grandi uomini hanno avuto degli inizi anche più difficili, primo fra tutti Mirabeau. E poi, la nostra separazione non sarà mica eterna. Voglio far vomitare anche l'anima a quel ladro di mio padre. Bisogna che me ne vada, addio! Hai cento soldi per pagarmi la cena?» Federico gli diede dieci franchi, quanto avanzava dal prestito avuto il mattino da Isidoro. Intanto sulla riva sinistra, a quaranta metri circa dai ponti, una luce s'era accesa sotto il tetto d'una casupola. Deslauriers la vide e, togliendosi il cappello, disse con enfasi: «Servo tuo, o mia Venere, regina celeste! Ma Penuria è madre di Saggezza. Ce ne han dette dietro abbastanza, a causa tua, misericordia!» L'allusione a un'avventura comune gli mise addosso l'allegria. Ridevano forte, per la strada. Poi, saldato il conto in albergo, Deslauriers riaccompagnò Federico sino all'incrocio dell'ospedale; e dopo un lungo abbraccio i due si separarono.
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