Capitolo 2

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Capitolo 2 11 anni e 3 mesi prima, Mosca Qualcuno bussa, esitante, alla porta della mia camera. "Alina, sei lì? Dai, abbiamo la nostra lezione." Già, 'fanculo. Metto in pausa il videogame a cui sto giocando con la Wii, e alzo il volume dell'iPod finché 'Get Low' di Lil' Jon & The East Side Boyz non mi rimbomba nelle orecchie, soffocando la fastidiosa voce del mio insegnante. Disattivando l'audio della TV, riprendo il gioco e guido Mario lungo la strada, ignorando il continuo bussare. Non so perché debba prendere lezioni di inglese per tutta l'estate, quando ho passato gli ultimi tre anni a studiare in un collegio del New Hampshire. Ormai, il mio livello di inglese è pari a quello dei miei compagni di classe americani, e il mio accento russo non si percepisce. Certo, l'ortografia e la grammatica potrebbero migliorare, ma ormai sto per frequentare le superiori. Imparerò tutte quelle stupide regole, alla fine. I colpetti sulla porta si interrompono, e libero un sospiro di sollievo. Se sarò fortunata, Dan – Dio, quanto odio quel nome – trascorrerà l'ora a noi destinata a cercarmi in ogni angolo del nostro attico di Mosca su due piani., prima di gettare la spugna per la giornata di oggi. Potrebbe anche lamentarsi con mio padre, ma non importa. Preferisco che papà alzi la voce con me, piuttosto che avere a che fare con Dan che mi guarda sempre in quel modo. Rabbrividisco al ricordo di quell'espressione. La vedo dipinta in faccia di continuo a qualsiasi uomo, da quando mi sono spuntate le tette. Non sono grandi, né niente di che – alcune ragazze della mia classe usano già una coppa D o superiore – ma ai ragazzi, evidentemente, non interessa. E nemmeno agli adulti, soprattutto quando la mamma mi esorta a truccarmi. E a proposito... Qualcun altro bussa alla porta, stavolta con più insistenza. Riconosco la cadenza perfino con la musica che mi esplode negli auricolari. A malincuore, metto in pausa il gioco e abbasso il volume dell'iPod. "Sì?" "Alinochka, sono io. Sei già pronta e vestita?" Ah, speravo si dimenticasse di me. Dopo essermi liberata degli auricolari, spengo il televisore e balzo in piedi. "Un secondo, mamma!" Ignorando la risposta, apre la porta con una spinta ed entra nella mia stanza. Immediatamente, sgrana gli occhi. "Che cos'hai addosso?" Beccata. Abbasso lo sguardo sui pantaloni della tuta e sulla T-shirt oversize con la massima noncuranza possibile. "Vestiti." Socchiude gli occhi. "Non fare la furba con me. Sai bene cosa ti sto chiedendo." "Okay." Esalo un sospiro di esasperazione. "Dammi solo un minuto." "Hai trenta secondi" annuncia, mentre mi precipito nella cabina armadio e infilo il primo abito che possa forse andarle a genio: un vestito da sera rosso, tanto scintillante quanto scomodo. Non so perché debba indossare questa robaccia ogni volta in cui papà invita degli ospiti, ma la mamma insiste. Riguarda il fatto di partire con il piede giusto. Ma con questo abito, direi che parto piuttosto con le tette giuste. Sul serio, sono aumentate di volume dalla scorsa settimana? Con una smorfia, cerco di spingere le mie carnose protuberanze nel corpetto, simile a una guaina, ma il reggiseno push-up incorporato svolge il proprio compito fin troppo bene. "Cosa stai facendo? Smettila. È così che deve essere" dice la mamma, entrando nella cabina armadio per scacciare via le mie mani. "Ora mettiti le scarpe, e pensiamo ai capelli e al trucco." Che qualcuno mi spari subito. Calzo un paio di zatteroni con la suola alta, in tinta con il vestito, e lascio che lei mi guidi verso lo specchio, dove comincia a spazzolarmi i lunghi capelli con tutta la rapidità e l'entusiasmo di una persona determinata a sradicarli. "Ahia!" Faccio una smorfia, quando la spazzola intercetta un nodo particolarmente brutale, ma lei mi ignora di nuovo. Immagino sia questo il mio risultato, per aver rimandato tutto fino all'ultimo minuto. Alla fine, i miei capelli sono lisci e dritti. Vorrei poterli raccogliere in una coda, ma alla mamma piace vedermeli lungo la schiena, come un drappo corvino. Non amando questo colore, sogno quel giorno in cui mi sarà concesso di aggiungere dei colpi di sole. L'anno prossimo, spero. Arriviamo alla parte del trucco. Accigliata, osservo il mio volto pallido illuminato dal blush, le mie labbra che si trasformano in un broncio rosso lucido e i miei occhi verdi, allungati come quelli di una gatta, sottolineati da un'abile applicazione di matita e mascara. L'unica imperfezione rimasta riguarda il sorriso, con quella piccola fessura tra gli incisivi che, secondo la mamma, mi 'contraddistingue'. "Ecco, molto meglio" commenta soddisfatta alla fine, e posso solo sforzarmi di non storcere la bocca. La ragazza che contraccambia il mio sguardo nello specchio non è un'estranea, e nemmeno mi piace. Tutta tirata a lucido, finta e adulta. Con la mia altezza superiore alla media e l'abito, che aderisce alle curve appena sbocciate, dimostro almeno diciassette anni, forse anche diciotto. Se Dan mi vedesse così, si strozzerebbe con la sua stessa bava, tanto quanto alcuni ospiti di papà, quei vecchi pieni di complimenti melliflui, davanti ai quali gli piace esibirmi. Lo detesto. Detesto essere questo bell'oggetto lucente che mamma e papà fanno trotterellare, come un pony prezioso. Se potessi fare di testa mia, vivrei con i pantaloni della tuta e le T-shirt, giocherei a Mario e Zelda e ascolterei Kanye tutto il giorno. Ma non è questa la vita di una Molotov. Noi siamo la crème de la crème, o almeno, la pellicola di olio che galleggia in una pentola di zuppa. Alta società, come la mamma ama definirla... o vetta della gerarchia mafiosa, per come la penso io. Vladimir Molotov, mio padre, è ricco sfondato. Quel genere di ricchezza che, in Russia, si ottiene solo con mezzi assai poco gradevoli. La mamma pensa che io non sappia che genere di uomo sia lui – in che tipo di uomini abbia trasformato i miei fratelli maggiori – e invece sì. Origlio le sue discussioni con papà da tutta la vita. Discussioni che sono andate peggiorando negli ultimi anni, anche se cerco di non pensarci. "Dovresti fare la modella" commenta la mamma, arretrando per esaminarmi con approvazione, e stavolta, mi sfugge una smorfia. Mi auguro che siano soltanto parole, ma conoscendo mia mamma, avrà già inviato le mie foto a qualche agenzia. "Chi viene oggi?" chiedo per sicurezza, nel caso in cui non le abbia ancora inviate. Forse, distraendola, si dimenticherà di questa terribile idea. "I soci d'affari di papà?" "Sì, e…" "Vera!" tuona la profonda voce di papà dal piano inferiore. "Dove sei? Sono arrivati." Sentendosi chiamare per nome, la mamma si liscia il vestito con le mani e tocca le elaborate spire dello chignon, per assicurarsi che ogni singola, lucente ciocca castana sia a posto. "Scendo!" grida, prima di fissarmi con gli occhi a mo' di laser. "Scenderai tra mezz'ora per salutare tutti, hai capito? Tieni d'occhio l'orologio e non perderti in quegli stupidi videogame. È importante." Roteo gli occhi. "Sì, sì." "Dico sul serio, Alina. Non avrò tempo di venire qui a tirarti fuori." "Sì, ho capito. Ora va'." Le indico di allontanarsi con un movimento delle mani. "Papà ti sta aspettando." Dopo un ultimo sguardo ad occhi socchiusi, se ne va, mentre mi abbandono sul divano e avvio il mio videogame. * * * Sono così impegnata a sconfiggere il nemico successivo che, quando guardo l'orologio, è quasi passata un'ora. Oops. Corro allo specchio per assicurarmi che il trucco non sia sbavato, poi mi precipito fuori dalla stanza, alla velocità consentita dalle mie stupide scarpe alte. Mentre attraverso il corridoio, percepisco un mormorio di voci ed ebbre risate, che provengono dal piano inferiore. Riesco ad immaginarmi i vecchi e le loro mogli, tutti in ghingheri e profumati, con i loro ipocriti brindisi e le bevute di vodka e cognac, mentre divorano il ricco buffet di antipasti preparato dal nostro chef, Pavel. Niente basica salat oliv'ye qui; ci sono solo costoso caviale e formaggio francese gourmet, ogni piatto è accuratamente studiato per mostrare il nostro potere e la nostra ricchezza. Sto passando davanti allo studio di papà, quando la porta si apre di scatto, e un uomo esce davanti a me. Spaventata, balzo all'indietro, e il tacco sinistro atterra sul tappeto nel modo sbagliato. Grido, dimenando le braccia, mentre la caviglia cede dolorosamente sotto di me. Prima di andare a sbattere per terra con il sedere, salde mani mi afferrano per i gomiti, tenendomi in equilibrio, e mi ritrovo ad alzare lo sguardo verso il paio di occhi più scuri che abbia mai visto. L'uomo che mi stringe è alto e muscoloso. Così alto che, perfino con i tacchi, devo allungare il collo per sostenerne lo sguardo. Ed è giovane. Abbastanza giovane da essere definito un ragazzo. Anche se, sulle prime, l'altezza e la larghezza delle spalle mi hanno ingannata, non può essere molto più vecchio di mio fratello Nikolai, che ha appena compiuto vent'anni. Deglutisco a fatica, mentre quegli occhi scuri socchiusi perlustrano il mio viso, soffermandosi per un attimo sulle mie labbra color rosso acceso. Mi martella il cuore, e provo uno strano calore sulla pelle, soprattutto nel punto in cui le sue dita si chiudono sulle mie braccia scoperte. Non sono mai stata così fisicamente vicina ad un maschio non appartenente alla famiglia, e sebbene quest'uomo-ragazzo non arrivi neanche lontanamente vicino alla bellezza imbarazzante dei miei fratelli, non posso smettere di fissarne il volto, con quegli spigolosi lineamenti fortemente virili. C'è qualcosa di selvaggio in lui, qualcosa di indomito nelle nere ciocche ribelli che gli ricadono sulla fronte e nella linea affilata, quasi crudele, della mandibola. Anche la sua acqua di colonia, con sottili note di pino e cuoio, mi ricorda tenebrose foreste invernali e i pericoli che si annidano al loro interno. "Tutto bene?" chiede piano. Il profondo timbro della sua voce è quello di un uomo, non di un ragazzo. "Ti sei fatta male?" Riesco a scuotere la testa, e lui mi lascia andare. Arretro immediatamente. Mi formicolano le braccia nei punti in cui mi stringeva, e l'aria fredda che mi sfiora la pelle crea un netto contrasto con il calore del suo tocco. Fa vagare lo sguardo su di me con un'espressione tipicamente maschile, da adulto. Cosa strana, non mi dispiace. Per la prima volta sono felice di dimostrare appieno diciassette anni, magari addirittura diciotto. Vorrei poter sembrare una ventenne. Tirando indietro le spalle, drizzo la schiena, nonostante il rivolo di sudore, dettato dal nervosismo, che mi corre lungo la spina dorsale sotto il corpetto stretto del vestito. Gli piace quello che vede? Perché voglio che sia così. Lo voglio terribilmente. Le sue labbra si curvano maliziosamente, mentre i suoi occhi si spostano di nuovo sul mio viso. "Che cosa c'è, bellezza? Hai perso la lingua?" Bellezza? Allora gli piace quello che vede! Poi il significato di quelle parole mi penetra nel cervello, e mi rendo conto di averlo fissato per tutto il tempo, completamente muta, come una groupie intimorita. Un vivo rossore mi arroventa il viso. "Certo che no!" I suoi occhi si socchiudono, e il sogghigno malizioso svanisce sulle sue labbra, al punto che vorrei nascondermi sotto il tappeto. Che risposta stupida e immatura. Peggio ancora, mi è sfuggita con uno strillo che mi ha fatta sembrare una bambina sciocca, invece della giovane adulta vicina alla sua età. Che diventerò molto presto. Più o meno tra quattro o cinque anni. Schiarendomi la voce, la rendo più profonda. "Cosa diavolo stai facendo quassù?" Ecco. Così potevo sembrare una probabile diciottenne. Una grintosa. Penso che ai ragazzi più grandi piaccia. Un luccichio inquisitore gli compare negli occhi, mescolato ad un pizzico di divertimento. "Cosa ci fai tu quassù?" Sbuffo. "Bella mossa. È la mia stanza, quella là in fondo." Indico la mia camera con un pollice, quindi imito il tono più autoritario di papà. "Ora rispondi alla mia domanda. Cosa stai facendo nell'ufficio di mio padre?" La sua voce diventa fredda come il ghiaccio. "Di tuo padre?" Una maschera di severità gli cala sul volto, e ogni segno di fanciullezza scompare dai suoi lineamenti. L'uomo che mi guarda in questo momento è inquietante e pericoloso, come qualsiasi esecutore di mio padre. "Tu sei Alina? La figlia tredicenne di Molotov?" "Ho quasi quattordici anni!" Dannazione, il mio tono sembrava quello di una bambina di dieci anni. Menomale che stavo cercando di convincerlo di essere vicina alla sua età, qualunque essa sia. Chiamando a raccolta generazioni di arroganza dei Molotov, chiedo con la massima altezzosità possibile: "Quanti anni hai tu?" In realtà, non sono più sicura di volerlo sapere. Né di volergli stare vicina in qualsiasi modo. Mentre il ragazzo mi intrigava, l'uomo mi spaventa. C'è derisione nei suoi occhi scuri, quasi neri, mentre mi fissa. Derisione e qualcos'altro… qualcosa di allarmante. La sua voce diventa bassa e letale. "Non sono affari tuoi, bambina. Corri da tuo padre e riferisci che il suo piano non ha funzionato. Non ho intenzione di abboccare, per quanto l'esca sia ben confezionata." Esca? Che cosa...? Poi mi viene un'illuminazione. Si riferisce a me. Sono io l'esca ben confezionata. Il mio viso avvampa di nuovo, ma stavolta di pura rabbia non diluita. "Vaffanculo. Io non sono un'esca." "Ah no?" Mi scruta, con una piega crudele che gli compare sulle labbra. "Altrimenti, perché dovrebbero farti penzolare davanti ai miei occhi vestita così?" "Nessuno mi sta facendo penzolare!" Vorrei dargli uno schiaffo. Cavargli gli occhi. Alla mamma piace che io appaia carina, è vero, ma per lei e papà è questione di status. Come il caviale e il formaggio costoso. Anche i miei fratelli devono vestirsi eleganti, quando abbiamo compagnia; semplicemente, siamo stati educati così. Fumante di rabbia, lo squadro in modo eloquente, dalla sommità dei capelli neri fino alle punte lucenti delle scarpe. "Non stanno facendo penzolare te, piuttosto?" Perché anche lui indossa un abito da sera. Sono talmente abituata a vedere uomini in smoking e completi eleganti che, inizialmente, non avevo notato i suoi vestiti. Ma sono belli, tanto costosi quanto qualsiasi cosa indossata da mio padre e dai miei fratelli. La giacca nera dello smoking gli fascia le spalle ampie, prima di restringersi sulla vita snella, e i pantaloni si adattano perfettamente alle lunghe gambe atletiche. La sua camicia, ben stirata e di un bianco accecante, mette in risalto la carnagione olivastra e il cravattino nerissimo. E sopra di essa... aspetta, è un tatuaggio quello che spunta dal colletto inamidato della camicia? Emette una risatina breve e tagliente, ma non c'è alcun divertimento in quel suono, solo crudele derisione. "Una bimba sveglia, vero? Una Molotov nel vero senso della parola." Digrigno i denti. "Non sono una bimba." Poi elaboro la seconda parte di quell'osservazione, e un sospetto specifico germoglia dentro di me. Socchiudo gli occhi. "Te lo ripeto, chi sei?" Fa un inchino beffardo. "Alexei Leonov, al tuo servizio." E dopo questo fulmine a ciel sereno, alza i tacchi e si dirige verso le scale, come se avesse tutto il diritto di essere qui. * * * Sono ancora in preda allo shock, mentre papà mi presenta agli ospiti seduti al lungo tavolo da pranzo, e la mamma mi scocca un'occhiata che promette ritorsioni per il mio ritardo. Nessuno dei miei fratelli è presente, oggi. Nikolai è in servizio nell'esercito, Konstantin si rifiuta categoricamente di partecipare a questi eventi, e Valery sta frequentando la scuola estiva ad Amsterdam. Buon per loro. Vorrei trovarmi in qualsiasi luogo diverso da questo, dove c'è quel tizio. Alexei Leonov. Neanche lui è arrivato da solo. Suo padre, Boris, è ugualmente ospite dei miei genitori stasera, il che è folle tanto quanto i Montecchi che ospitano i Capuleti. Okay, forse è un'idea troppo drammatica – non siamo attivamente in guerra con i Leonov, e io non sono certo Giulietta – ma le nostre famiglie sono tutt'altro che in rapporti di amicizia. La nostra animosità risale ai tempi in cui il nonno di Alexei accusò il mio di slealtà verso il regime comunista, e lo fece spedire in un campo di lavoro in Siberia. Mio nonno, in qualche modo, dopo due anni riuscì a evadere, e prontamente capovolse la situazione a danno del nemico, spedendo lui al campo di lavoro e architettando un'accusa simile. Già, il buon vecchio divertimento del periodo sovietico. In ogni caso, i Leonov significano brutte notizie, un concetto che mi è stato inculcato sin da quando ero abbastanza grande da muovere i primi passi. Saranno anche ricchi e potenti quasi quanto noi, ma non possiedono la nostra stessa eleganza e raffinatezza. Fondamentalmente, si tratta di criminali estremamente ricchi, una ricchezza acquisita con mezzi ancor più sgradevoli dei nostri. In passato, fu versata una quantità di sangue abbastanza copiosa dai tirapiedi delle nostre famiglie, e da qualche anno a questa parte, papà torna spesso a casa di pessimo umore per qualche malefatta dei Leonov, per esempio per avergli soffiato un accordo commerciale o per aver sabotato una fabbrica. Tutto questo per dire che non ho idea del motivo della presenza dei Leonov e del perché papà mi stia presentando al suo nemico giurato, come se fossero amici per la pelle. "...è la più piccola" sta dicendo con orgoglio a Boris, quando riprendo ad ascoltarlo. "Stupenda, vero?" "Farà la modella" interviene la mamma. "Tutte le agenzie sono interessate a lei." Cazzo. Ha davvero inviato le foto. Beh, non importa. Non ho proprio intenzione di fare la modella. Da grande, voglio sviluppare videogiochi. Konstantin mi sta già insegnando alcune tecniche di codifica di base. "Sì, bellissima" concorda Boris con voce rauca, studiandomi spassionatamente con occhi inquietanti tanto quanto quelli del figlio. Un fremito involontario mi corre lungo la schiena. Se Alexei mi aveva un po' spaventata alla fine, quest'uomo mi terrorizza letteralmente. Adesso so che cosa ho visto negli occhi di Alexei, oltre alla derisione. Lo so, perché la emana anche suo padre. Crudeltà. Oscurità. La sento ad un livello viscerale, come la fredda carezza di una lama. Ora che lo incontro di persona, credo a tutte le voci spaventose che circolano su quest'uomo... e sui suoi figli. Soprattutto Alexei, il maggiore. Ho tentato di non guardarlo, ma c'è qualcosa che continua a indirizzare il mio sguardo verso la sua faccia... Una faccia dura e impassibile come quella del padre. Non c'è traccia di riconoscimento nei suoi freddi occhi scuri, nessun indizio sul nostro precedente incontro, e sul fatto che mi abbia impedito di cadere con il sedere per terra e chiamata 'bellezza'. Al solo pensiero, provo un pizzicore nei punti in cui mi aveva sorretta. A tutti gli effetti, dovrei dire a papà di aver visto Alexei di sopra, nel suo ufficio, ma per qualche motivo non ci riesco. Ogni momento di quell'incontro mi ha destabilizzata, al punto tale che vorrei solo sopravvivere a queste presentazioni e rintanarmi nella mia stanza. Ahimè, non succederà. Al termine delle presentazioni, la mamma mi fa sedere accanto a lei a tavola, mentre papà si lancia in un lungo brindisi a proposito della partnership, delle amicizie e di ogni genere di cazzata. Peggio ancora, per tutto il tempo devo soffocare la tentazione di fissare Alexei, che si comporta come se io non esistessi. Ignorandomi completamente, conversa con un uomo di mezza età, seduto alla sua destra. Ivan qualcosa... un politico, credo. Mi ero distratta durante la maggior parte delle presentazioni. La mamma mi serve un po' di cibo, prima di versarmi un bicchiere di vino per poter brindare assieme agli adulti. Lo sorseggio, diligente, mentre papà conclude finalmente il brindisi, poi pilucco il cibo nella mezz'ora successiva, ben lungi dall'essere affamata. "Alinochka, perché non mangi?" chiede la mamma, accigliata, quando se ne accorge. Mi stringo nelle spalle. "Vuoi che faccia la modella, no? Le modelle non mangiano." Mi scocca un'occhiata tetra, e so che, se non fosse per tutte le persone sedute intorno a noi, si scatenerebbe di nuovo contro di me. Mi rivolge invece un sorriso tirato, come se avessi appena scherzato, e passa all'argomento della nostra imminente vacanza a Cipro. Mangiucchio ancora un momento, soprattutto per Pavel, che si è impegnato a fondo per preparare questi piatti, poi mi congedo con la scusa di andare in bagno. Spero che nessuno si accorga del mio mancato ritorno. Ormai, con tutti questi brindisi ininterrotti, la maggior parte dei presenti è ubriaca fradicia. La maggior parte, ma non tutti. Mentre me ne vado, intercetto gli occhi di Alexei puntati su di me, scuri e gelidi, privi di qualsiasi ebbrezza. Lui sa che esisto, immagino. Con una stretta al petto, corro su per le scale e mi affretto a raggiungere la mia camera. Solo quando richiudo la porta alle mie spalle, riesco a respirare a pieni polmoni. Abbandonandomi sul divano, indosso gli auricolari e avvio il mio videogame, ma non mi è d'aiuto. Quando mi addormento, due ore più tardi, sto ancora pensando al nostro incontro, sentendomi sempre destabilizzata e stranamente in pericolo.
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