1-3

2026 Mots
– Anzitutto i due fratelli non si sono visti più di due volte in trenta anni. In secondo luogo il signor Grandet di Parigi ha grandi pretese per suo figlio: egli è sindaco di un circondario, deputato, colonnello della guardia nazionale, giudice al Tribunale di commercio, e non calcola i Grandet di Saumur ma ambisce a qualche famiglia ducale per grazia di Napoleone. Che cosa mai si diceva di una ereditiera della quale si parlava per venti miglia intorno e anche nelle diligenze da Angers a Blois? Al principio del 1811 i crusciottiani ebbero notevole vantaggio sui grassinisti. La terra di Froidfond ammirevole per il suo parco, per il magnifico castello, per le fattorie, i fiumicelli, gli stagni, le foreste, del valore di tre milioni, fu messa in vendita dal giovane marchese di Froidfond, obbligato a realizzare in fretta le sue sostanze. Mastro Cruchot, il presidente Cruchot, l’abate Cruchot, aiutati dai loro seguaci, seppero impedire la vendita a piccoli lotti, e il notaio concluse con il giovane marchese un affare d’oro convincendolo ch’egli avrebbe avuto un monte di seccature per riscuotere il denaro da tanti compratori, e che era meglio vendere il tutto al signor Grandet, persona solvibile e d’altronde capace di pagare la terra in denaro contante. Il bel marchesato di Froidfond fu dunque venduto all’ex bottaio che, con grande meraviglia dei contadini, appena compiute le formalità di legge, pagò in denaro sonante, con uno sconto adeguato. La cosa fece rumore fino a Nantes ed Orléans. Il compratore approfittò d’una treggia di ritorno per recarsi a vedere il castello e, dopo aver gettato su tutto il colpo d’occhio del padrone, riprese la via della città, sicuro di aver bene impiegato i suoi capitali, assorto nel magnifico pensiero di accrescere il marchesato di Froidfond aggregandovi gli altri beni; indi, per colmare il gran vuoto fatto nello scrigno, risolse di tagliare i boschi e le foreste e di coltivare i pioppi delle sue praterie. È facile comprendere ora quale fosse la casa del signor Grandet, una casa scialba, fredda, silenziosa, posta nella parte alta della città e protetta dai bastioni in rovina. I due pilastri e l’arco, in mezzo a cui s’apriva il vano della porta, erano come il resto del fabbricato, costruiti col tufo, pietra bianca che si trova sulle sponde della Loira ed è così friabile da non superare mai in media i due secoli di durata. I buchi ineguali e numerosi, che le intemperie avevano sparso bizzarramente, davano all’arco e alle colonne del portone l’apparenza delle pietre vermicolate dell’architettura francese e qualche somiglianza anche con l’ingresso di una prigione. Sull’arco dominava un lungo bassorilievo di pietra dura scolpita, rappresentante le quattro stagioni in figure già logore ed annerite, e sopra il bassorilievo sporgeva un plinto tutto coronato di piante spontanee; parietarie gialle, rampicanti, convolvoli, musco ed un piccolo ciliegio già abbastanza alto. La porta di quercia massiccia, bruna, ardita, con larghe fenditure da ogni parte, debole in apparenza, era solidamente munita da un sistema di chiavarde, disposte con simmetria. Un’inferriata quadra, piccola, dai ferri stretti e rossi di ruggine, spiccava nel centro e serviva di motivo a un martello attaccato mediante un anello che poggiava sulla testa di un grosso chiodo. Quel martello di forma oblunga o dello stesso genere di quelli che i nostri antichi chiamavano jaquemart somigliava a un grosso punto esclamativo e, solo esaminandolo con attenzione, un antiquario avrebbe potuto scoprirvi qualche traccia della figura umoristica che un tempo rappresentava e che il lungo uso aveva consumata. Dall’angusto graticcio, attraverso cui si riconoscevano gli amici nei tempi di guerra civile, si offriva allo sguardo dei curiosi, in fondo a una volta scura e verdastra, qualche scalino slabbrato che dava accesso a un giardino chiuso da mura grandi, umide e piene di arbusti malaticci. Eran mura del bastione su cui si aprivano i giardini delle prossime case. Al pianterreno la stanza principale era una specie di sala attigua all’uscio di strada. Pochi conoscevano l’importanza d’una sala nelle cittaduzze dell’Angiò, della Turenna e del Berry, dove la sala fa da anticamera, salotto, studio, spogliatoio e sala da pranzo; il teatro della vita domestica, il focolare comune. Là il barbiere dei dintorni veniva due volte l’anno a tagliare i capelli al signor Grandet, là entravano i fittavoli, il curato, il sottoprefetto e il garzone del mugnaio. Quella camera con due finestre sulla via aveva il pavimento di legno, e tutt’intorno la decoravano dall’alto in basso assiti chiusi in modanature antiche; il soffitto era di travi a tinte grigie, e gli interstizii erano ripieni di borra bianca che sempre più ingialliva. Una vecchia lastra di rame incrostata d’arabeschi, ornava la cappa del caminetto in pietra bianca male scolpita, e, al disopra, in vetro verdastro, con gli angoli smussati per lasciarne scorgere lo spessore, rifletteva un filo di luce lungo uno specchio gotico in acciaio damascato. I due candelieri di rame indorato posti ai due canti del camino servivano a un doppio uso: togliendo le rose portacandele e il cui ramo principale s’incassava in un piedistallo di marmo azzurrastro con ornamenti di rame vecchio, questo poteva adoperarsi come candeliere nei giorni ordinarii. Le seggiole di forma antica avevan tappezzerie con le favole di La Fontaine; ma bisognava conoscerle assai bene per distinguerne i soggetti, tanto era difficile scorgere qualcosa in quei colori scialbi e in quelle figure più volte rattoppate. Agli angoli erano quattro cantoniere, specie di credenze con sudici scaffaletti. Una vecchia tavola da giuoco intarsiata, che serviva da scacchiera, si trovava nel vano tra le due finestre, con sopra un barometro ovale, listato di nero e a strisce di legno dorato, su cui le mosche avevano silenziosamente reso un problema l’esistenza della doratura. Nella parete di fronte al caminetto due ritratti a pastello si diceva che rappresentassero l’avo della signora Grandet, il vecchio signore de La Bertellière, in divisa di luogotenente delle guardie francesi, e la defunta signora Gentillet in costume di pastorella; alle finestre pendevano tende in gros di Tours rosso con cordoni di seta a ghiande di chiesa. Questa ricca decorazione, che stonava con le abitudini di Grandet, era compresa nell’acquisto della casa con lo specchio, la mensola, le tappezzerie e le cantoniere in legno di rosa. Presso la finestra attigua alla porta era una sedia di paglia su di una predella, perché la signora potesse vedere chi passava. Ma un tavolinetto da lavoro in amarasco naturale occupava il vano, e accanto v’era la poltroncina di Eugenia. Da quindici anni madre e figlia consumavano lì la loro vita in un lavoro continuo dall’aprile al novembre; nel primo giorno di questo mese potevano portare il loro quartiere d’inverno presso il caminetto. Quel giorno soltanto Grandet permetteva che si cominciasse ad accendere il fuoco nella stanza, e lo faceva spegnere il trentuno marzo senza tener conto dei primi freddi della primavera, né di quelli dell’autunno; uno scaldapiedi pieno di brace prese in cucina e serbate con destrezza dalla grossa Nannina aiutava le due donne a passare con minor disagio le mattinate e le sere più fresche dell’aprile e dell’ottobre. Esse avevano cura di tutta la biancheria di casa, e compivano con tanta scrupolosità questo lavoro da operaie, che, se Eugenia voleva ricamare qualche collaretto per la madre, bisognava che rubasse un paio d’ore al sonno, ingannando il padre per avere un po’ di luce; da un pezzo l’avaro aveva adottato il sistema di consegnar lui stesso a Eugenia e alla domestica una candela, allo stesso modo come distribuiva la mattina il pane e quanto serviva per il consumo della giornata. Nannina era forse l’unica creatura umana capace di accettare il dispotismo del padrone, e la città intera invidiava quella domestica alla famiglia Grandet. La chiamavano «grossa» per la sua statura di cinque piedi e otto pollici; era al servizio dell’ex-sindaco da trentacinque anni e, benché non avesse che sessanta lire di salario, la si riteneva per una delle più ricche donne di servizio di Saumur. Infatti quelle sessanta lire accumulate in trentacinque anni le avevano permesso di collocare a frutto da mastro Cruchot circa quattromila franchi, e tale risultato di continue economie era parso a tutti enorme; così ogni domestica, vedendo che quella povera vecchia a sessant’anni aveva il pane assicurato, si rodeva di gelosia e non pensava alla dura servitù con cui se l’era guadagnato. A ventidue anni la povera giovane non aveva potuto trovar padrone, tanto il suo aspetto era ripugnante, sebbene a torto. In verità la sua testa sarebbe stata da ammirarsi a un granatiere della guardia. Costretta a lasciare una fattoria incendiata, dov’ella custodiva le vacche, era venuta a Saumur e vi cercò servizio, forte di quel coraggio che non si rifiuta a nulla. Papà Grandet aveva allora intenzione di ammogliarsi, e pensava di metter su casa. Vide quella ragazza che tutti respingevano e, da esperto bottaio, e quindi buon giudice della forza materiale, indovinò subito l’utile che si poteva trarre da una femmina simile a un Ercole, piantata sulle gambe come una quercia sessantenne, con i fianchi robusti e le spalle quadre, con mani da carrettiere e una probità intatta come la virtù di lei. Né i porri che ornavano quel volto marziale, né la tinta color caffé, né le braccia nervose ed i cenci della Nannina spaventarono il bottaio che si trovava tuttavia nell’età in cui palpita il cuore; egli vestì, calzò e nutrì la povera ragazza, assegnandole un salario e del lavoro senza troppo strapazzarla. Nel vedersi accolta a quel modo, la grossa Nannina pianse di gioia in segreto e si affezionò sinceramente al padrone, che usò con lei sempre un sistema feudale. Ella badava a tutto; cucinava, faceva il bucato, andava a sciacquare i panni nella Loira e li riportava sulle spalle; era in piedi di buon mattino, andava tardi a letto, preparava il desinare per gli operai al tempo delle raccolte, sorvegliava la vendita dei generi e difendeva come un cane fedele la fortuna del suo signore; insomma, fidando ciecamente in lui, obbediva a tutte le sue stramberie. Nel famoso anno 1811, in cui il raccolto costò stenti inauditi, dopo vent’anni di servizio, Grandet risolse di regalare il suo vecchio orologio a Nannina, e fu il solo dono che ella ricevesse da lui; poiché, sebbene fosse solito di darle anche le sue scarpe vecchie, che si adattavano benissimo ai piedi di lei, era impossibile addirittura considerarle come un regalo, tanto erano consunte dall’uso. La necessità rendeva così avara quella poveretta, che il bottaio aveva finito per amarla come s’ama un cane, ed essa s’era lasciata mettere al collo un collare guarnito di punte che non la pungevano più... Se Grandet tagliava il pane con troppa parsimonia, ella non si lamentava e prendeva parte allegramente ai profitti igienici che procurava quel sistema severo nella casa, dove mai nessuno era ammalato. E poi la Nannina apparteneva alla famiglia; rideva quando rideva Grandet, era triste, aveva freddo, si scaldava, lavorava con lui. Che dolce compenso in quell’eguaglianza! Mai il padrone l’aveva rimproverata per i frutti che riusciva a mangiare sulla pianta stessa. – Va, prendi pure, Nannina, – le diceva il vecchio negli anni in cui i rami piegavano sotto il peso dei frutti, e i fittavoli eran costretti ad ingrassarne i maiali. A una donna di campagna che in gioventù era stata sempre strapazzata, a una poveretta raccolta per compassione, il riso equivoco di papà Grandet sembrava un vero raggio di sole, tanto più che l’anima semplice e il cervello limitato di Nannina non potevano fermarsi che a un sol sentimento e ad una sola idea. Da trentacinque anni ella si trovava sempre davanti al magazzino di Grandet, con i piedi nudi, tutta cenciosa, e udiva il bottaio ripeterle: – Che vuoi farci, piccina? – Il che bastava per rendere più viva la riconoscenza di lei. Talvolta il padrone, pensando che quella povera creatura non aveva mai udita la minima parola di lusinga, che ignorava tutti i dolci sentimenti che può ispirare una donna, e che avrebbe potuto un giorno comparire innanzi a Dio anche più casta della Vergine Maria, preso da improvvisa compassione, le diceva guardandola: – Questa povera Nannina! ... – Esclamazione cui seguiva sempre uno sguardo indefinibile della vecchia fantesca. La stessa frase, di quando in quando ripetuta, formava da un pezzo una catena non interrotta d’amicizia, ed ogni ripetizione vi aggiungeva un anello. Quella commiserazione che sorgeva dal cuore di Grandet e accolta così volentieri dalla vecchia aveva un non so che di orribile, e pure quell’atroce pietà di avaro, che ridestava mille piaceri nel cuore dell’antico bottaio, era per la donna il colmo della felicità.
Lecture gratuite pour les nouveaux utilisateurs
Scanner pour télécharger l’application
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Écrivain
  • chap_listCatalogue
  • likeAJOUTER