«Allusione? Oh, vi credo senza alcun dubbio!»
E il principe rideva senza riuscire a fermarsi.
«È una gran bella cosa che ridiate! Vedo che siete un buonissimo giovane» disse la generalessa.
«A volte sono cattivo» rispose il principe.
«Io, invece, sono buona» affermò la generalessa inaspettatamente, «e, se volete, sono sempre buona. È il mio unico difetto, perché non bisogna essere sempre buoni. Mi arrabbio molto spesso con loro, è vero, soprattutto con Ivan Fëdoroviè, ma il brutto è che quando mi arrabbio è il momento in cui sono più buona. Poco fa, prima del vostro arrivo, mi sono arrabbiata e ho fatto finta di non capire nulla, e di non essere in grado di capire nulla. Mi capita, a volte, sono proprio una bambina. Aglaja mi ha dato una lezione. Ti ringrazio, Aglaja. Del resto, sono tutte assurdità; non sono stupida come sembra, e come le mie figlie vogliono far credere. Ho carattere e non sono tanto timida. Del resto, lo dico senza cattiveria. Vieni qui, Aglaja, dammi un bacio, su... Be', basta con le tenerezze» fece dopo che Aglaja l'ebbe baciata affettuosamente sulle labbra e sulla mano. «Continuate, principe. Forse vi ricorderete qualcosa di più interessante dell'asino.»
«Io continuo a non capire come si possa raccontare direttamente così» osservò di nuovo Adelaida. «Io non ci riuscirei in nessun modo.»
«Il principe invece ci riuscirà, perché il principe è straordinariamente intelligente, più intelligente di te almeno di dieci volte, forse anche di dodici. Spero che capirai, dopo di ciò. Fategliela vedere, principe. Continuate. La faccenda dell'asino, in effetti, si può anche lasciare da parte.»
«Bene. Che cosa avete visto, all'estero, oltre all'asino?»
«Ma anche la storia dell'asino era intelligente» osservò Aleksandra, «il principe ha raccontato in maniera molto interessante il caso della sua malattia, e di come tutto gli abbia cominciato a piacere grazie ad una spinta venuta dall'esterno.
Per me è risultato sempre interessante il modo in cui la gente prima perde la ragione, e poi torna nuovamente in sé. Particolarmente se avviene d'improvviso.»
«È vero? È vero?» sbottò la generalessa. «Vedo che anche tu, a volte sei intelligente. Be', ora basta ridere! Mi pare che vi siate fermato alla natura svizzera. Su, principe.»
«Giungemmo a Lucerna e mi portarono in giro per il lago. Sentivo che era bello, ma intanto provavo un'angoscia terribile» disse il principe.
«Perché?» chiese Aleksandra.
«Non lo capisco. Mi è stato sempre penoso e inquietante guardare per la prima volta una natura come quella. È bello, ma inquietante. E del resto tutto ciò faceva parte della malattia.»
«Be', no, io invece avrei un grande desiderio di vedere» disse Adelaida, «e non capisco perché non andiamo all'estero. Sono già due anni che non riesco a trovare un soggetto per un quadro: L'Oriente e il Sud da un pezzo son descritti... Principe, trovatemi un soggetto per un quadro.»
«Non mi intendo per nulla di questo argomento. Mi pare che basti guardare e dipingere.»
«Non sono capace di guardare.»
«Ma perché parlate per enigmi? Non capisco nulla!» interruppe la generalessa. «Che vuol dire che non sei capace di guardare? Hai gli occhi, guarda. Se non sei capace di guardare qui, non imparerai certo all'estero. È meglio che raccontiate, principe, come guardavate voi.»
«Ecco, sarà meglio» aggiunse Adelaida, «infatti il principe all'estero ha imparato a guardare.»
«Non so; laggiù mi sono soltanto rimesso in salute. Non so se ho imparato a guardare. Del resto, io per quasi tutto il tempo sono stato molto felice.»
«Felice?! Siete capace di essere felice?» esclamò Adelaida. «E allora come fate a dire che non avete imparato a guardare? Insegnate anche a noi.»
«Insegnateci, per favore!» rise Adelaida.
«Non posso insegnare nulla» rise anche il principe, «quasi tutto il tempo che sono stato all'estero l'ho passato in quel villaggio svizzero; mi allontanavo raramente di lì. Che cosa posso insegnarvi? All'inizio, semplicemente non mi annoiavo. Ben presto cominciai a ristabilirmi, e poi ogni giorno mi diventava caro, e quanto più il tempo passava, tanto più mi era caro, e così cominciai ad accorgermene. Andavo a dormire molto contento, e mi alzavo ancora più felice, ma perché tutto questo accadesse, è assai difficile dirlo.»
«Sicché, ormai non avevate più desiderio di andare da nessun'altra parte?» chiese Aleksandra.
«All'inizio, proprio all'inizio, sì, mi attirava, e mi veniva una grande inquietudine. Continuavo a pensare quale sarebbe stata la mia vita, volevo provare il mio destino, e particolarmente in certi momenti ero inquieto. Sapete, capitano quei momenti, specialmente quando si è soli. Là da noi c'era una cascata, abbastanza piccola, che cadeva dall'alto della montagna, come un filo sottile, quasi perpendicolare, candida, rumorosa, spumeggiante; cadeva dall'alto, ma pareva abbastanza in basso, era a una mezza versta e pareva a cinquanta passi. La notte mi piaceva ascoltarne il suono. Ecco, in quei momenti giungevo talvolta a un punto di grande inquietudine. La stessa cosa mi accadeva a volte a mezzogiorno, quando rimanevo solo in mezzo alle montagne, e tutt'intorno c'erano dei pini, vecchi, alti, resinosi. In alto, su una rocca, c'erano le rovine di un vecchio castello medievale. Il nostro villaggetto era laggiù, lontano, si vedeva a malapena; il sole splendente, il cielo azzurro, un silenzio tremendo. Ecco, in quei momenti mi pareva di essere chiamato chissà dove, e che, se fossi andato sempre diritto, se avessi camminato a lungo, a lungo, e avessi oltrepassato quella linea laggiù, proprio là dove il cielo e la terra si incontrano, là ci sarebbe stata la chiave dell'enigma, e immediatamente avrei visto una nuova vita, mille volte più intensa e più rumorosa che da noi. Continuavo a sognare una città grande come Napoli, in cui ci fossero palazzi, rumore, frastuono, vita... Sì, erano tante le cose che sognavo! Ma poi mi parve che si potesse trovare una vita immensa anche in prigione.»
«Quest'ultimo lodevole pensiero l'ho letto nella mia Antologia quando avevo dodici anni» disse Aglaja.
«Questa è tutta filosofia» osservò Adelaida, «voi siete un filosofo, e siete venuto a insegnarci.»
«Forse avete ragione» sorrise il principe, «effettivamente sono un filosofo, e, chi lo sa, forse davvero ho in mente di insegnare... è possibile, davvero, è possibile.»
«E la vostra filosofia è la stessa di Evlampija Nikolaevna» replicò ancora Aglaja, «la vedova di un funzionario, che frequenta la nostra casa, una specie di parassita; per lei tutto il problema della vita risiede nel fatto che sia a buon mercato, purché sia possibile vivere con poca spesa, purché si parli di copeche, e notate che i soldi li ha, è una briccona. Esattamente così è anche la vostra immensa vita in prigione, e forse anche la vostra felicità di quattro anni in un villaggio, per il quale voi avete barattato la vostra Napoli, e a quanto pare anche con profitto, sia pure di copeche.»
«Per quel che riguarda la vita in prigione si può anche non essere d'accordo» disse il principe. «Ho sentito il racconto di un uomo che era rimasto in prigione circa dodici anni, era uno dei malati in cura presso il mio professore, aveva degli attacchi, a volte era inquieto, piangeva, e aveva persino cercato di ammazzarsi. La sua vita in prigione era stata molto triste, ve l'assicuro, però valeva sicuramente più di una copeca. Tutte le sue conoscenze erano un ragno e un alberello che gli cresceva sotto la finestra... Ma è meglio che vi racconti di un altro incontro che ho fatto l'anno scorso, con un tale. Qui c'è una circostanza molto strana, strana perché un fatto simile accade assai di rado. Una volta quest'uomo fu condotto al patibolo insieme ad altri, e gli fu letta la sentenza di condanna a morte mediante fucilazione, per un delitto politico. Di lì a venti minuti gli fu letta anche la grazia, e gli fu commutata la pena. Tuttavia, nell'intervallo di tempo fra le due sentenze, che fu di circa venti minuti, o almeno un quarto d'ora, egli visse con l'assoluta convinzione che di lì a qualche minuto tutt'a un tratto sarebbe morto. Avevo sempre una voglia terribile di ascoltarlo, quando a volte egli ricordava le sue impressioni di allora, e cominciai a più riprese a interrogarlo. Egli ricordava tutto con straordinaria chiarezza, e diceva che di quei minuti non avrebbe dimenticato mai nulla. A venti passi dal patibolo, intorno a cui c'era folla e soldati, erano stati piantati tre pali, poiché c'erano parecchi condannati. I primi tre furono condotti ai pali e legati, fu fatto loro indossare l'abito dell'esecuzione (lunghi camici bianchi) e gli furono calzati sugli occhi dei cappucci bianchi perché non vedessero i fucili. Poi, davanti a ogni palo si schierò un drappello composto di alcuni soldati. Il mio conoscente era l'ottavo della lista, quindi doveva andare al palo col terzo turno. Un prete passò da tutti col crocefisso. Gli restavano da vivere cinque minuti, non di più. Egli diceva che quei cinque minuti gli erano parsi interminabili, una ricchezza enorme. Gli pareva che in quei cinque minuti avrebbe vissuto tante vite, che per il momento non bisognava ancora pensare all'ultimo istante, cosicché prese varie risoluzioni: calcolò il tempo occorrente per dire addio ai suoi compagni, e per quello stabilì due minuti, altri due minuti per pensare un'ultima volta a se stesso, e poi per guardarsi intorno un'ultima volta. Ricordava molto bene che aveva preso proprio queste tre decisioni, e che aveva calcolato esattamente in quel modo. Moriva a ventisette anni, pieno di salute e di forza, e ricordava che, dicendo addio ai suoi compagni, aveva fatto a uno di essi una domanda abbastanza banale, e si era anche molto interessato alla risposta. Poi, quando ebbe dato l'addio ai compagni, giunsero quei due minuti che egli si era assegnato per dire addio a se stesso; sapeva in anticipo a che cosa avrebbe pensato: aveva sempre desiderato immaginare con la maggior rapidità e chiarezza possibili come mai potesse accadere quella cosa, per cui in quel momento egli esisteva e viveva, e di lì a tre minuti sarebbe stato nulla, qualcuno o qualcosa, ma chi? Dove? Tutto ciò egli pensava di risolverlo in quei due minuti! Poco lontano di lì c'era una chiesa, e il suo tetto dorato scintillava sotto il sole fulgido. Ricordava di aver fissato con terribile ostinazione quel tetto e i raggi che di là si irradiavano. Non riusciva a distogliere lo sguardo da quei raggi: gli pareva che essi fossero la sua nuova natura, e che di lì a tre minuti si sarebbe in qualche modo fuso con essi. L'incertezza e la repulsione per quella nuova cosa che sarebbe diventato, e che stava per sopraggiungere, erano orribili, ma egli diceva che in quel momento nulla era stato più penoso del pensiero incessante: “se potessi non morire, se potessi far tornare indietro la vita, quale infinità! E tutto questo sarebbe mio! Io allora trasformerei ogni minuto in un secolo intero, non perderei nulla, terrei conto di ogni minuto, non ne sprecherei nessuno!”. Diceva che alla fine quel pensiero s'era tramutato in una tal rabbia, che ormai desiderava che lo fucilassero al più presto.»
Il principe d'un tratto tacque. Tutti aspettavano che continuasse e traesse una conclusione.
«Avete finito?» chiese Aglaja.
«Che? Ho finito» disse il principe, uscendo dal suo stato pensoso.
«Perché avete raccontato questo?»
«Così... M'è venuto in mente... A proposito del nostro discorso...»
«Siete molto brusco» osservò Aleksandra. «Voi, principe, volevate dedurne, giustamente, che non bisogna valutare a copeche neanche un istante, e a volte cinque minuti sono più preziosi di un tesoro. Tutto ciò è lodevole, ma permettete tuttavia, che fece poi quel compagno che vi ha raccontato simili orrori?... Infatti gli avevano commutato la pena, e quindi alla fine gli regalarono quella “vita infinita”. E allora, che ne fece poi di quella ricchezza? Visse veramente “tenendo conto” di ogni minuto?»
«Oh, no, me lo diceva egli stesso, perché anch'io glielo avevo chiesto. Non visse così, e perdette molti molti minuti.»
«Be', allora eccovi la dimostrazione che evidentemente non si può vivere davvero tenendo conto di ogni minuto. Non si sa perché, ma non si può.»
«Sì, non si sa perché, ma non si può» ripeté il principe. «Anche a me sembrava così... Eppure in qualche modo non ci si può credere...»
«Cioè pensate di poter vivere più saggiamente di tutti?» disse Aglaja.
«Sì, qualche volta m'è venuta in mente anche quest'idea.»
«E vi viene ancora?»
«Sì... mi viene ancora» rispose il principe guardando come prima Aglaja con un sorriso dolce e persino timido, ma subito dopo scoppiò nuovamente a ridere guardandola allegramente.
«Modesto!» disse Aglaja quasi con stizza.
«Però, come siete coraggiose, voi ridete, mentre io fui tanto colpito da quel racconto, che poi l'ho sognato, ho sognato proprio quei cinque minuti...»
Egli volse nuovamente lo sguardo sulle sue ascoltatrici con fare serio e scrutatore.
«Non siete adirate con me?» chiese d'un tratto, quasi imbarazzato, e tuttavia guardandole dritto negli occhi.
«Per quale motivo?» esclamarono meravigliate le ragazze.
«Così, ecco, perché ho sempre l'aria di farvi la lezione...»
Tutte si misero a ridere.
«Se siete adirate, non siatelo più» disse, «infatti io stesso so di aver vissuto meno degli altri, e che comprendo la vita meno di chiunque altro. Forse, a volte, dico cose strane...»