La vedova Sanna intervenne.
«Eh, ma una poesia difficile! Deve conquistarla questa cioccolata, la bambina!».
«Scegliete voi, allora» la esortò l’altra.
«Elisa, recitami la poesia “Il 5 maggio” del Manzoni» esclamò con sicurezza la vedova Sanna ed Elisa si illuminò.
Si alzò in piedi, unì le mani sul grembo e iniziò a recitarla, senza sbagliare neppure una strofa. Le signore la osservavano rapite e, quando ebbe terminato e si fu inchinata per ringraziarle dell’attenzione, scoppiarono in un applauso allegro e sincero.
«Signora Alba, e io che credevo che non fosse vero!» esclamò la prima donna che aveva parlato, la moglie del notaio Frau.
«Eh, lo sapevo che Elisa non ci avrebbe deluso! – ribatté la vedova Sanna – È proprio brava».
La signora Alba sorrideva di quell’entusiasmo, consapevole che anche la simpatia verso Elisa portava le sue clienti a cercarla così assiduamente. E poi la ragazza sembrava così felice quando poteva esprimere liberamente quella cultura che, nel suo paese, nessuno avrebbe apprezzato. Lei era diversa da tutte le altre apprendiste che aveva mai avuto e riponeva in questa sua diversità grandi speranze.
Passò quell’insolita primavera afosa e giunse un’estate ancora più torrida.
Elisa soffriva il caldo nel piccolo e soffocante laboratorio, ma non si lamentava mai, neppure se la testa girava e le gambe diventavano molli come gelatina.
La signora Alba lavorava più che mai, letteralmente inondata di ordini.
Così, spesso la notte non si fermavano, e solo poche ore prima dell’alba si stendevano nel letto improvvisato del laboratorio per riposare un po’, anziché salire al primo piano dove si trovavano una cucina, la stanza della signora, un bagno e una piccola camera per Elisa.
Si mettevano vicine e i loro corpi si stringevano, nonostante il caldo, come quelli di una madre e di una figlia. Mentre Elisa dormiva, la signora Alba le accarezzava i lunghi capelli ondulati e pensava a che futuro avrebbe potuto darle.
Voleva il meglio per quella bambina.
Gliela leggeva negli occhi, la voglia disperata di non lasciare morire i suoi sogni, la paura di dover tornare a casa. Ma, per fare ciò che aveva in mente, c’era bisogno del permesso dei suoi genitori e sapeva che loro non gliel’avrebbero dato neppure in punto di morte.
Una sera Elisa, anziché darle la schiena si era voltata, affondando il viso nel suo petto scarno. La donna aveva sentito un brivido correrle lungo la schiena, ma era rimasta immobile.
«Signora Alba - aveva sussurrato Elisa – non posso scegliere per il mio futuro, vero?».
La donna le aveva sollevato il viso.
«Perché dici così?».
La bambina aveva scosso le spalle.
«Perché mammai 1 potrebbe decidere un giorno o l’altro di portarmi via da qui… e io non voglio andar via, ma non posso ancora scegliere, vero?».
«Ti hanno detto qualcosa, Elisa?».
«No. Sono io che ho paura. Voi mi difenderete, signora Alba? Gli direte che qui sono felice, che lavoro tanto e non mi comporto mai male?».
La donna aveva sorriso, dandole un buffetto sulla guancia.
«Ma certo, bambina. Ora dormi, dormi».
La pioggia di settembre si riversava sulle stradine della Marina, dritta come un fiume fino al porto. Elisa osservava il cielo plumbeo dalla soglia del laboratorio, mentre Alba canticchiava, seduta sulla sua seggiola. Fuori, improperi per quell’improvviso acquazzone si mischiavano a chiacchiere e risate. Alcune ragazze correvano per la strada, cercando di coprirsi il capo con gli scialli neri, e ridevano come se al posto della pioggia ci fosse stato il sole. Saltellavano sulle pozzanghere, si schizzavano l’acqua addosso.
Elisa pensava che un’unica cosa le mancava, in quel posto che avrebbe voluto restasse suo per tutta la vita: le sue sorelle. Antonia, più piccola di tre anni, e Caterina, la maggiore, ormai sedicenne. Entrambe lavoravano in paese per la famiglia Figus e certo la loro vita non doveva essere felice, accanto a una madre triste e severa, un padre bonario ma poco presente e sotto al giogo di un padrone che le sfruttava.
Elisa amava la signora Alba e il lavoro al laboratorio, ma a volte si sentiva sola.
Sarebbe stato bello se Antonia fosse stata lì con lei. Era la più piccola, la cocca delle altre due sorelle. Non era giusto che solo a lei avessero dato la possibilità di andarsene. Se anche Antonia fosse stata lì, e poi anche Caterina, allora tutto sarebbe stato perfetto.
La pioggia continuava a cadere e le risate delle ragazze si erano spente dietro il ticchettio delle pesanti gocce d’acqua. Elisa si voltò a guardare la cesta pronta per la consegna e sbuffò. Fosse stato per lei, sarebbe uscita anche con la grandine, ma la signora Alba non aveva voluto sentire ragioni e le aveva ordinato di restare buona lì finché non fosse passato il temporale.
All’improvviso la donna sollevò gli occhi dal suo lavoro e la fissò, severa.
«Elisa, anziché star lì a sospirare perché non mi aiuti? L’ozio è un peccato mortale».
La domenica successiva Elisa tornò in paese per la festa di Santa Vitalia.
Come d’accordo, alle sette di sera, nella piazza di fronte alla Stazione Ferroviaria incontrò Tziu 2 Luigi Boi, il cugino della mamma, che la fece salire sul suo carro. Assieme a lei, altre persone facevano ritorno in paese: Tzia Desolina Laccu con i due figli maschi, appena usciti da una visita in ospedale, e Clara, la figlia di Tziu Giovanni Garau, poco più grande di lei e che lavorava come domestica per una famiglia di Cagliari.
Tziu Luigi faceva la spola ogni settimana tra Cagliari e Nuraddei, portando grano e altri materiali, e in quelle occasioni permetteva a chi aveva bisogno di salire sul carro con lui.
Il viaggio durava tutta la notte ma Elisa non si lamentava né della scomodità, poiché dormivano sui sacchi, né delle lunghe ore in marcia. Anzi, viaggiare la notte era come fare un sogno a occhi aperti. Ogni volta si affacciava dal retro del carro, la cui sommità era coperta da un telone, e, con le mani poggiate sul viso, stava lì a osservare il manto nero che la circondava, sul quale immaginava storie sempre diverse.
«Ti piace Casteddu?» le chiese Caterina, mentre Antonia chiudeva la porta della loro stanza. Elisa stava sul letto cigolante con le gambe incrociate e si godeva quell’atmosfera calda che nel laboratorio della signora Alba le era mancata tanto.
Pur essendo molto presto, aveva trovato la casa in pieno fermento, quando era sbucata dal portoncino. E prima che potesse dire qualcosa Antonia e Caterina l’avevano già soffocata in un abbraccio, per poi trascinarla senza possibilità di replica nella loro stanza.
La madre, intenta a mettere a bagno dei ceci, l’aveva salutata con un cenno del capo, il viso adombrato dalla solita espressione dolente e severa, mentre il padre, seduto di fronte al camino spento che rattoppava la sua bisaccia, le aveva lanciato un sorriso bonario.
«Oh, sì. – esclamò – Vado in giro per la città a consegnare i lavori della padrona e le sue clienti vivono in case enormi…».
Antonia la raggiunse sul letto e le poggiò la testa sulla spalla.
«Voglio venirci anch’io. Se mi porti con te, la signora Alba assumerà anche me? Sono brava a fare le ceste».
Caterina scoppiò a ridere.
«Ma dove vuoi andare? Ringrazia che domani il padrone ci lascia andare alla processione. Annamaria non l’ha avuto, il permesso».
Antonia sbuffò.
«Io non devo ringraziare nessuno! E il padrone lo sa con chi può fare il gradasso».
Elisa sorrise. Quanto le erano mancate quelle voci, quella forza.
Antonia aveva nove anni ed era testarda, impertinente, prepotente. Era dolce quando si lasciava andare sulla sua spalla ma terribile con chi la contraddiceva. Era l’unica che non abbassasse gli occhi davanti alla madre, l’unica che non li abbassasse neppure davanti al padrone. Lei, tra tutte loro, la libertà dell’anima l’aveva già conquistata. O forse l’aveva sempre avuta.
«Dai, continua a parlare della città» la esortò Caterina.
Elisa prese ad accarezzare i capelli di Antonia.
«Il laboratorio è vicino al porto e l’aria del mare arriva fino a lì. È strana, umida, forte. Quando il sole tramonta diventa tutto rosso, intorno, e il mare sembra un quadro come quelli che ho visto in certe case in cui ho fatto le mie consegne».
« Tziu Lilliccu racconta che a Casteddu c’è la spiaggia dove la gente va a farsi il bagno».
«Sì! – confermò Elisa, sorridendo. Poi si fece tutta seria – Ma la signora Alba non va mai… dice che non sta bene per una signora. E poi la sabbia si appiccica e, col vento che c’è, come si fa a portare un cappellino?».
«E perché, tu ce l’hai un cappellino? – esclamò Antonia – E sei una signora? Oh, Elisa, guarda che non ti giudica nessuno se ci vai, in spiaggia. Tanto i vestiti nostri non sono fatti di seta».
«Io non posso mica andare in giro come voglio… e neppure mi interessa».
Caterina si lasciò andare sul letto.
«Ti immagini la sabbia bianca, il sole e il mare? Deve essere bellissimo!». Poi si sollevò su un gomito: «Ma anche le donne vanno a farsi il bagno? Come si vestono?».
Elisa rise per la loro ingenuità.
«Mettono il costume da bagno! Molte delle clienti della mia padrona vanno in un posto che si chiama “Il Lido” e, se non vogliono prendere il sole, stanno nelle cabine a chiacchierare». Allargò le braccia, sorridendo: «La signora Alba lo chiama “stabilimento”, ma io non ho capito bene perché. Comunque è enorme e poi ha una rotonda che si affaccia proprio sul mare, dove fanno anche spettacoli di musica. Sapete, è un posto molto elegante».
«Quindi un posto in cui tu non andrai mai» tagliò corto Antonia.
Elisa mise il broncio, e poi tutte e tre scoppiarono a ridere.
«Accompagni la tua padrona da qualche parte? Oltre alla chiesa, dico» riprese la sorella più piccola.
«Antonia, dalle un attimo di respiro!» esclamò Caterina.
L’altra sbuffò: «Ma senti, viene qui due volte all’anno e non posso restare mezza giornata a chiederle tutto? Io voglio sapere ogni cosa».
Elisa le stampò un bacio sulla guancia.
«Ti dirò tutto ciò che vuoi sapere. Sapete, la signora Alba adora la musica. Ma non quella che fanno da noi nelle feste. A lei piacciono gli spettacoli con i costumi, le canzoni eleganti, con parole complicate e antiche. Si chiamano “opere”. E siccome non ci vuole andare da sola, perché dice che non sta bene, paga il biglietto anche per me e mi fa sedere vicino a lei. Siamo già andate due volte quest’anno».
«E dove le fanno queste opere? È un posto bello?» domandò Antonia.
«Oh, bellissimo! Lo chiamano Politeama, è un teatro. È molto vicino al laboratorio, sta in viale Regina Margherita. Dentro è enorme, ci sono le poltroncine rosse e un palco dove potrebbe stare un reggimento! Tutto attorno, in alto, poi, ci sono i palchetti dove si siede la gente veramente importante. Hanno pellicce, gioielli, dovreste vedere le acconciature!».
Caterina la fissò, piena di sorpresa.
«Veramente? Quindi anche tu vai a teatro?».
Elisa sorrise, gonfiando il petto scarno.
«Sì, siamo andate a vedere l’ultima volta uno spettacolo che si chiama… Cavall… Ah, sì, “ Cavalleria Rusticana”. In sostanza è la storia di un ragazzo innamorato di una giovane del suo paese. Lui deve fare il militare ma, quando torna, lei si è sposata con un altro. Allora, per ripicca, anche lui si sposa con un’altra».
«Che brutta storia» commentò Caterina.
«Dai, continua a raccontare. – esclamò Antonia – Finisce che si ammazzano, vero?».
Elisa scoppiò a ridere.
«In effetti, questo ragazzo non ha mai dimenticato il primo amore e va ogni giorno vicino a casa sua per vederla. Ma la nuova moglie si arrabbia, e tra i due scoppia un litigio terribile. Allora lei, per vendicarsi che lui non la ama, va dal marito dell’altra e gli dice che la moglie lo tradisce. E allora quello lo sfida a duello!».
«Lo dicevo io che qualcuno finiva ammazzato» borbottò Antonia, soddisfatta della sua intuizione.
«Infatti. – continuò Elisa – E nel duello muore proprio il ragazzo. E l’opera finisce così. C’erano diverse signore che alla fine piangevano. Io, invece, ero emozionatissima. Lo spettacolo precedente invece aveva un titolo francese, che non mi ricordo, ma anche quello era bellissimo. Resterei per sempre ad ascoltare quelle musiche».
E prese a canticchiare un motivetto senza parole.
Antonia la fissò, sognante, una mano a sorreggere il viso, l’altra a sfiorare una ciocca di capelli sfuggita dalla crocchia.
Caterina, sull’altro letto, non sembrava provare le stesse emozioni.
«Non è buona cosa, Elisa. Che ti porti con te, che ti faccia credere di essere di più di quello che sei. Ti sta illudendo».
La sorella si zittì e la fissò corrucciata.
Accanto a lei, Antonia si scosse. I suoi occhi si incupirono, e rincarò le parole di Caterina.
«È vero. – esclamò, alzandosi in piedi – Adesso non è che credi di non essere più alla nostra altezza? Non è che poi quella decide di tenerti e non ti fa più ritornare qui? Tu appartieni a noi, non a lei. Hai capito?».