Chapter 2

1993 Parole
«Siamo sempre donne sole» L’ultimo romanzo di Grazia Deledda di Cristina Tagliaferri Anche Grazia Deledda (Nuoro, 1871-Roma, 1936), celeberrima autrice di molti romanzi fra cui Elias Portolu (1903), Cenere (1904) e Canne al vento (1913), come la protagonista de La chiesa della solitudine (Milano, Treves, 1936), si ammalò di cancro al seno, causa della sua morte. Nel 1959, le spoglie della scrittrice furono traslate dal cimitero romano del Verano alla chiesa seicentesca della Madonna della Solitudine, nei dintorni nuoresi, che certamente aveva ispirato l’ambientazione del suo ultimo romanzo. La solitudine, intrecciata al tema della malattia e del silenzio su di essa, è anche condizione caratteristica del temperamento e della vita dell’autrice, che nonostante gli onori del Nobel, conferitole nel 1926, visse sempre lontano dai clamori (in una pagina del «Corriere della sera», a seguito dell’assegnazione del premio, fu definita «la taciturna»), anche per non essere stata adeguatamente apprezzata e riconosciuta dalla critica del tempo. A rivelare qualcosa sulla protagonista del libro, come molti fra i personaggi della Deledda, è l’antroponimo che ella porta per antifrasi, e l’incipit ne sottende chiaramente il senso: «Maria Concezione uscì dal piccolo ospedale del suo paese il sette dicembre, vigilia del suo onomastico. Aveva subito una grave operazione: le era stata asportata completamente la mammella sinistra». Il destino della donna (il cui nome deriva dal latino conceptio -onis, da concipĕre, ‘concepire’), sarà infatti quello di non generare, e di privarsi di quella pienezza e gioia di vivere che pure interpreta come la causa della sua malattia, mai nominata nel romanzo. “Io non devo avere dei bambini: non devo averne” pensava, attraverso le parole della sua preghiera: “ed è giusto, è giusto. Tutto è giusto, nella tua volontà, o Signore. Ho peccato contro l’amore, ho seminato il dolore e distrutto la vita di un uomo; e nella mia vita tu, Signore, spargi adesso il sale della sterilità. Sia fatto il tuo volere. E tu, Vergine Madre, aiutami adesso ad attraversare questa mia vita desolata; guardami dall’alto della tua misericordia”. Dal momento che il non detto ne La chiesa della solitudine acquista un fortissimo valore semantico, sul meccanismo del ‘silenzio’ è doveroso un rimando al libro di Susan Sontag{1}: «Io intendo descrivere non la realtà dell’emigrare nel regno della malattia e del viverci, ma le fantasie punitive o sentimentali costruite intorno a questa situazione». Secondo l’autrice il silenzio è la più frequente ‘metafora’ del cancro nella letteratura moderna occidentale, come ben rappresentato, ad esempio, ne La morte di Ivan Il’ich di Tolstòj, in cui quello stesso morbo è manifestazione delle sconfitte, dei segreti e dei silenzi. In modo simile all’eroe tolstojano, Maria Concezione è rassegnata, ombrosa, silenziosa e solitaria: infatti la Deledda proietta su di lei una lettura mitologica del cancro al seno che secondo la Sontag risale a Galeno, collegandolo alla sterilità e alla melanconia femminile. Sulla vita della protagonista pesano anche la presenza e i condizionamenti della madre, Maria Giustina («piccola figura dura e tutta grigia, come partecipe del colore e della natura delle pietre intorno»); tanto che le due donne costituiscono una diade indissolubile, custode dello stesso ‘segreto’ familiare: Di questa malattia parlavano il meno che fosse possibile, come di una cosa misteriosa; e il suo nome terribile, che del resto, neppure i dottori avevano pronunziato chiaro, rimaneva in fondo al loro cuore, una segreta intesa di non rivelarlo neppure a se stesse […] A latere del dramma privato, la Deledda lascia intendere ellitticamente al lettore – ricavandone oggi considerazioni ancora attuali – quale fosse la sua visione rispetto alla medicina ufficiale del tempo. Le parole pronunciate dal primario «con olimpica e cristallina crudeltà», prima che la donna lasciasse la clinica, sono infatti rappresentative della categoria medica nel suo insieme, destinata a generare sofferenze e forse morte. Alla donna viene raccomandato di farsi rivedere per dei controlli, ma lei non lo farà mai. Ella lo guardò, coi grandi occhi neri nel viso scarno e verdastro d’angelo decaduto: avrebbe voluto fargli le corna o qualche altro segno di scongiuro, ma in fondo non credeva a queste cose e da molto tempo era rassegnata al suo destino. Si contentò di non tornare mai più all’ospedale. Figura alternativa alla realtà della medicina ufficiale, incarnazione dell’intuizione opposta alla ragione, è il personaggio del vecchio flebotomo, che sul modello del ‘fanciullino’ pascoliano ha la prerogativa di provare «la stessa meraviglia del bambino che osserva per la prima volta le cose ma non sa spiegarsele»; per questo lo avevano «cacciato via dalla comunità degli uomini di vera scienza, per i quali non esistono misteri». Di contro ai suoi ammonimenti, che per la donna esemplificano la potenziale via di guarigione, il vuoto lasciatole fisicamente dall’operazione, avvalora in lei la convinzione della fine di ciò che la possa riguardare come femmina e potenziale amante: dopo tutto, che le importava se Aroldo era andato via, forse per non più ritornare? Ormai tutto è finito, con lui e col resto del mondo. Sei sola col tuo destino, Maria Concezione, e basta che la tua mano sfiori il tuo seno per ricordarti che la tua sorte è chiusa. Alla fine del romanzo, quando la donna discute con Aroldo della sua malattia, ancora innominata, ella rinnova il suo dolore per l’impossibilità a vivere una vita normale: Ti dissi che ero malata, ma non di che male. È un male che, come la lebbra, come la tisi, è finora inguaribile; e, dicono, si trasmette ai figli. Peggio di ogni altro ostacolo, dunque, per chi ha coscienza, separa quelli che si amano. In realtà si dibattono in lei due forze antitetiche, perché alla rassegnazione e all’auto-punizione, indotta dal peso delle ‘colpe’ dei propri antenati e dalle credenze religiose, si contrappone il desiderio di vivere in pienezza. Il primo momento rivelatore è un’esperienza onirica, quando nel corso della prima notte che segue al suo ritorno a casa Concezione sogna di fuggire dall’ospedale e, su una strada illuminata dalla luna perde la coperta in cui si è avvolta ritrovandosi nuda davanti ai due uomini amati: il giovane suicida e Aroldo. Il secondo momento, vera e propria metafora della ‘guarigione’, è un passo fra i più intensi e riusciti della scrittrice sarda: Mentre l’acqua si scalda, Concezione davanti alla finestruola della camera, si scioglie i capelli, li divide, li manda tutti giù sul viso e sul petto come una tenda nera: col pettine grosso, col pettine fitto, con un’antica spazzola da panni, ne fa cadere una nevicata di forfora; poi li ricacciò indietro e ripeté la faccenda, fino ad arrossare la cute, che infine strofinò con un fazzoletto bagnato e insaponato: mezzi primitivi, che tuttavia le lasciarono i capelli freschi e gonfi come acconciati da un abile parrucchiere. E portato in camera il paiolino chiuse a chiave l’uscio: adesso si trattava di fare le abluzioni, e cinque litri d’acqua le sembravano anche troppi. Lentamente, con ordine, le sue vesti furono stese sulla sponda del letto: il corpetto di lana, la camicetta di cotone a quadretti bianchi e blu; e poi un altro corpetto di tela con una parvenza di merletto alla scollatura, e il sottanino di lana e maglia, e infine la camicia lunga e larga come la misericordia divina. E apparve tutta nuda, bruna ma lucida, col seno che le mancava; pareva un’amazzone di bronzo dorato. Una scena ‘al rallentatore’, che ha la valenza di un rituale iniziatico, nel senso di una rigenerazione o rinascita interiore simbolicamente sostenuta dal riferimento temporale alla mattina di Pasqua. La coscienza del proprio male le impedisce però di arrendersi pienamente alle gioie della vita, nonostante le lusinghe di una serie di pretendenti che bussano di volta in volta alla porta della sua casa, attirati in parte dalla ricca dote della donna: Maria Concezione respinge sia l’innamorato Aroldo, sia i rozzi fratelli Pietro e Paolo, sia l’affascinante ma stolto Costante, e pure il brigadiere Calogero, che tenta di indagare sulla scomparsa del principale spasimante. Anche gli uomini più attempati sembrano lasciarsi stregare da lei, ciascuno con sfumature comportamentali che vanno dalla lascivia di Pietro Giordano, amico di famiglia intento però ad accasare uno dei due nipoti, al magnetismo del flebotomo, fino addirittura al sacerdote Serafino, il quale sembra malcelare un’infatuazione per la protagonista. Nome ‘parlante’ anche il suo, dal momento che a lui spettano molte ‘serafiche’ parole volte a connotare lo status della donna, impegnata in un percorso di espiazione e di redenzione: «Sai cosa devo dirti, Maria Concezione? Tu sei un po’ come la vita: tu mi capisci: tutti guardano alla vita, con la speranza di riceverne piacere, denari, amore: mentre invece la vita, in fondo, ci sfugge e non ci dà che delusioni e spesso dolore. Mio nonno, i miei fratelli, altri, forse, guardano a te per la tua fortuna, e ti credono una donna che oltre ai denari, può dare anche la felicità. Mentre anche tu sei una povera creatura debole e infelice. Così come in Concezione si dibattono due forze antitetiche (la rassegnazione e il forte desiderio di vivere), al maschilismo degli uomini che giudicandola ripetutamente la considerano al pari di «una mandorla che si secca entro il suo guscio prima di esser venuta a maturazione», oppure «una monaca con occhi da zingara» o «una strega con occhi di fata», si contrappongono la resistenza e la fermezza di lei, comunque superiore rispetto a quel micro-cosmo di personaggi deboli, rozzi o ferini. E lei voleva vivere: per sua madre, diceva, ma in realtà per il solo istinto di vivere. […] Concezione non aveva studiato, non leggeva che il suo libro da messa, ma era intelligente; e la solitudine e l’atavismo sviluppavano in lei, ogni giorno di più, come nei pastori della montagna, un primordiale ma sensato concetto filosofico e quasi stoico della vita. Capiva benissimo che il suo male era, in rapporto all’amore, come un legame, un voto, un ostacolo simile a tanti altri: e che ella aveva da lottare coi sensi, coi sogni, con gli stessi istinti che l’ostacolo stesso destava: ma, come molta gente raffinata, provava, in fondo, la gioia, il gusto del dolore. Sullo sfondo della vicenda, che si snoda con passaggi di straordinaria finezza espressiva, vi è il paesaggio sardo, di volta in volta affiorante con la sua carica simbolica di mistero, fra il rimbombare ossessivo delle mine sui monti: Il sole era tiepido, ma l’aria fredda, d’una rigidità cristallina: i corvi avevano fatto la prima comparsa, annunziando col loro gracchiare non solo la cattiva stagione ma qualche cosa d’indicibilmente triste: pareva venissero dalle terre ove il gelo è perenne, le notti eterne, e portassero con loro, spandendola come un seme di morte, una funebre disperazione. E anche su, in certe forre dei monti, nonostante la giornata chiara, fumava qualche principio di nebbia: anche lassù, gli spiriti della solitudine avevano già acceso i loro fuochi invernali. Alcune pagine sono da apprezzare per il lirismo assoluto che le caratterizza, in virtù della poetica dell’autrice ispirata al sentimento delle «cose» della natura – la notte, la luna, le montagne, il bosco, l’orto ‒ depositarie di memorie ancestrali, in una subliminale ed elegiaca compenetrazione del sentimento, o del tono emozionale dell’anima, con l’ambiente che la trasfigura: Andò a cogliere per l’altare, un mazzo di oleandri rosa, dell’unica pianta che era nata spontanea in fondo all’orto, e s’incantò a berne come un liquore amarognolo il loro profumo. Era un profumo che pareva venisse di lontano, dal fiume, dalla valle, dalla fanciullezza di lei: e i ricordi che ella credeva di aver definitivamente scacciato, e che se ne erano andati via come uccelli da un luogo ove non trovano più acqua né nutrimento, le risalirono quasi rapaci dal cuore. Sì, l’oleandro era lì da molti anni; ella lo aveva conosciuto fin da ragazzina, con tutte quelle foglie che sembravano lancie verdi, che si arrugginivano al sole; e i fiori di un rosa vivo, piegati verso il muricciuolo sopra la valle, come ad ascoltare con nostalgia il rumore dell’acqua lontana dalla cui vicinanza anch’essi erano stati esiliati. E al di sotto delle montagne aride e scagliose, «nella biforcazione dove la strada proseguiva, da una parte inerpicandosi sulla china del monte, e dall’altra scendendo nella valle a sinistra», la chiesa della Madonna della solitudine, comunicante con la casa di Maria Concezione. Un luogo solitario e disadorno in cui campeggia la statuetta lignea della Madonnina, innanzi alla quale alla fine del romanzo si troverà prostrata l’eroina del romanzo, «sola». L’epilogo rimane aperto al lettore; probabilmente l’autrice proiettò a tal punto se stessa sul suo alter ego narrativo da non poterne stabilire il destino, ma rimane il senso della personalità di una donna fra le più affascinanti della creazione letteraria del nostro Novecento.
Lettura gratuita per i nuovi utenti
Scansiona per scaricare l'app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Scrittore
  • chap_listIndice
  • likeAGGIUNGI