discorso:
– Sì – diceva la voce profonda. – Adone deve fare il pai-
san. Perchè dovrebbe studiare? per diventare impiegato o
prete? Gl’impiegati si rovinano lo stomaco: i preti vanno
incontro a brutti tempi. Adone deve badare alla sua roba.
Io l’ho preso con me per questo. Non ho fratelli nè sorelle:
gli altri non fanno che desiderare la mia morte. La mia
Tognina sarà la mamma di Adone. Tu sei ricco e non hai
figli. Mia moglie è debole e di poca vita. Io avevo bisogno
d’un figlio: il Signore non me ne ha mandato; ed io me ne
sono preso uno a prestito! «Tu hai un sacco di figliuoli, –
ho detto a nostra cugina Martina – dammene uno». Ho
preso Adone fra le braccia e me lo son portato via. E tu
ora dici che bisognerebbe mandarlo a studiare? Neanche
per idea, Carlin!
– È tanto intelligente! – disse l’impiegato.
– E tanto meglio, allora! Custodirà meglio la sua roba!
Non è vero, puttino? Sarai un bravo paesano?
Adone, così direttamente interpellato, si mise a correre e
non rispose. Ma il signor Carlino lo rincorse, lo afferrò e
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gli disse:
– Guardami! Ah, non sono occhi da contadino, questi! Sa-
rai un dottore, di’?
– No, meglio maestro!
– Perchè? – disse l’impiegato, ridendo.
– Perchè il maestro sa tutto!
– Santa innocenza! – gridò l’altro, aprendo le braccia. Poi
prese per mano il ragazzetto e si mise a chiacchierare se-
riamente con lui. Adone rispondeva pronto: trovava spie-
gazione a tutto.
Dopo il viottolo attraversarono un sentieruolo, fino all’ar-
gine che con la sua linea verde tagliava lo sfondo lumino-
so del cielo. Nei campi dietro il cimitero le distese di gra-
no già dorato parevano splendere di luce propria tra il
verde un po’ triste della meliga e del trifoglio.
I due uomini e il ragazzetto salirono sull’argine, ridiscese-
ro verso la riva del Po. In quel punto e in quei tempi il
fiume, allargato dallo sbocco della Parma, sembrava un
lago, tutto azzurro e oro fra le rive coperte di boschi.
La barca era pronta. Il vecchio Pigoss, il portinè r 3, aspettava col remo in mano. Col suo piccolo viso nero, i capelli
argentei, gli occhietti d’un azzurro cangiante come quello
del fiume, il vecchietto aveva un’aria beffarda e dolce nel
medesimo tempo. Pareva un essere superiore; ricordava
certi marinai, certi pescatori, figli delle acque, che sentono
pietà e disprezzo per i contadini figli della terra.
3 Barcajuolo che tiene il porto.
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Adone gli sorrise, come ad un amico della sua età, e appe-
na tutti furono in barca, e i due barcajuoli cominciarono a
puntare i remi sulla sabbia, spingendo il piccolo legno
verso la corrente, egli supplicò:
– Pigoss, raccontami la storia del paese che è sotto il fiu-
me.
– Va là, bello, un’altra volta! – disse il vecchietto, che a
sua volta desiderava sapere dal sor Carlino una storia me-
ravigliosa.
– Com’è grande, Roma? È circondata dal mare? La va per
mare, lei?
– Ce ne vuole! Il mare è lontano. C’è però il fiume, il Te-
vere.
– È navigabile?
– Altro!
– C’è un paese anche sotto quel fiume? – domandò Adone.
– Io guardo sempre, qui, ma non vedo mai nulla.
E si curvava sulla sponda della barca, tanto che lo zio La
Pioppa lo sgridò, tirandolo per i calzoncini.
– Ti dò uno scapaccione, sgambirlo!
Adone lo guardò e gli rise in faccia.
L’omone lo baciò, lo attirò a sè: e lo zio Carlino, che la
domenica andava sempre a visitare i musei, ammirò quel
gruppo veramente artistico, quel monumentale lavoratore
dalle scarpe e il vestito color bronzo e quel fanciulletto
scalzo dagli occhioni socchiusi e la bocca maliziosa: sem-
bravano la forza e l’astuzia.
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La barca scendeva verso Brescello: e il buon funzionario,
dopo aver ammirato l’uomo e il fanciullo, ammirò ancora
una volta il grande paesaggio fluviale che a lui pareva il
più bello del mondo. Questa sua convinzione era forse un
po’ esagerata: certo, però, il Po quella mattina era bellis-
simo, sempre più largo, d’un azzurro latteo iridescente.
Verso le rive l’acqua rifletteva i boschi capovolti; sopra le
muraglie di sabbia delle isole, i pioppi tremolavano come
alberi d’argento, e i canti degli usignoli e i richiami insi-
stenti dei cuculi parevano uscir dall’acqua, da boschi se-
polti nel fiume.
Tranne questi gridi non si udiva altro rumore. Solo qual-
che volta, alle domande di Adone, rispondeva l’eco beffar-
da che pareva anch’essa la voce di un essere nascosto
sott’acqua.
– Come si fa a far su la roba?
– Roba, 4 – rispondeva il grido beffardo.
E anche un campanile bianco, all’orizzonte, pareva sorgere
dall’acqua, come una vela. La barca sfiorò una lunga isola
che terminava con un triangolo di sabbia a fior d’acqua.
– Di chi è quest’isola? – domandò l’impiegato. – C’è una
bandiera su un palo. Perchè?
– L’isola è dei Galvanin: forse la bandiera c’è perchè oggi
è festa, – disse Pigoss: ma Adone protestò.
– È anche mia, però! C’è in mezzo un laghetto: e tante le-
pri, e biscie, e uccellini piccoli piccoli. Non dirlo a nessu-
no, – aggiunse all’orecchio dello zio. – C’è anche un pesce
4 Ruba.
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grosso: forse è uno storione. Taci, però, eh?
– Ci sei stato? Come? Come l’hai veduto?
– Lo so io! – egli rispose con aria di mistero.
L’isola, coi suoi pioppi e i salici curvati sulla sabbia, s’al-
lontanò: la barca s’avvicinò di nuovo alla riva.
– Arrivederci. E sii bravo, – disse l’impiegato al ragazzet-
to. – Vedrai cosa ti manderò, se sarai buono. Me lo pro-
metti? Non sarai cattivo?
Adone guardò il gigante, come per prenderlo a testimonio
che gli si domandava una cosa impossibile: poi i due cu-
gini si abbracciarono e Giovanni, commosso come una
donna, raccomandò vivamente il cestino ai barcajuoli.
L’omone e il ragazzetto saltarono a terra; la barca, come
alleggerita dal peso del gigante, si allontanò rapida e nera
sul fiume azzurro. Adone la seguì con gli occhi, finchè
potè vederla. Egli sapeva che prima di arrivare al suo
mondo ignoto lo zio Carlino doveva scendere a Brescello
e di là prendere una lunga strada attraverso campi e cam-
pi, paesi e paesi, fiumi larghi e stretti, montagne assai più
alte dell’argine: tuttavia, in quel momento, seguendo con
gli occhi affascinati la barca silenziosa, gli pareva che
questa dovesse fermarsi soltanto in una riva molto lonta-
na, al di là dell’orizzonte, dove sorgeva un paese incantato,
quasi simile a quello sepolto nel fiume, del quale sapeva
notizie solo il vecchio Pigoss che ne parlava come d’un
suo paese d’origine.
La voce dello zio lo trasse dal suo sogno.
– Andom, sgambirlo! Forse arriveremo in tempo per la
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processione.
*
* *
L’uomo e il fanciullo ritornarono verso il paese, percor-
rendo l’argine.
Di tanto in tanto lo zio fingeva di coprire e nascondere
Adone con un mantello immaginario, come usava d’inver-
no quando conduceva con sè il ragazzetto, e gli domanda-
va:
– Dove siamo ora?
Ma il fanciullo era pensieroso e non rispondeva a tono. A
un tratto esclamò:
– Vorrei sapere una cosa solamente, per piacere: com’è il
mare!
Sebbene chiesta per piacere, la risposta non venne. Adone
sollevò gli occhi e vide una cosa strana. Lo zio era diven-
tato pallidissimo e tremava: pareva avesse freddo. E que-
sto freddo improvviso si comunicò al fanciullo.
– Che hai? Che hai? – egli domandò spaventato, abbrac-
ciando le gambe al gigante. – Zio mio, ma che hai? Dim-
melo, zio mio, che hai? Zio mio…
L’uomo s’era fermato e si passava una mano sulla fronte.
E continuava a tremare, e pareva dovesse cadere; ma resi-
steva all’urto improvviso del male, come un vecchio tron-
co all’urto del vento.
Adone sentiva un’angoscia paurosa; afferrato alle gambe
tremanti dello zio, gli pareva di sostenerlo, mentre si ap-
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poggiava per non cadere egli stesso, vinto dalla paura mi-
steriosa che lo agitava.
Parole strazianti gli uscivano dalla piccola bocca fattasi
triste: ma l’uomo non lo udiva, intento a combattere il ne-
mico invisibile che lo aveva assalito a tradimento. Pochi
istanti: e il male fu vinto.
– Niente, niente, – disse la voce profonda, alquanto tremu-
la. – Un capogiro. Mi viene sempre, dopo che sono stato
in barca. Ti sei spaventato caro? Non dir niente alla zia.
Lo prese per mano, s’avviò: era ancora pallido, ma sorri-
deva, e pareva contento della sua vittoria. Ma Adone, che
lo guardava fisso con gli occhi ancora pieni di terrore,
sentiva tremare la grossa mano che raccoglieva la sua, e
quel tremito pareva gli salisse per il piccolo braccio e gli
si comunicasse al piccolo cuore sensibile.
– Com’era questo capogiro, zio? Ti è passato, ora? Non di-
re le bugie, zio! – diceva con voce seria.
– Ma cosa ti passa in mente, sgambirlo? È passato, mille
volte passato!
Sentendosi chiamare ancora sgambirlo, Adone si calmò.
Proseguirono lungo l’argine solitario, bianco di polvere e
di sole. Il ragazzetto non cessava di spiare sul caro volto i
segni del male che lentamente sparivano, e diceva a sè
stesso, con orgoglio:
– Se non c’ero io egli cadeva di certo di certo: l’ho tenuto
su io, però!
E l’omone respirava forte e finalmente sospirò: la mano
cessò di tremare, gli occhi s’illuminarono. Parve ricordarsi
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di qualche cosa.
– Ah, il mare? Com’è fatto? Come il Po, ma largo, in mo-
do che non si vede l’altra riva. E ha le onde, come quando
spira il vento di sotto5 , ma molto più grosse.
Rassicurato, Adone riprese le sue domande. Egli aveva già
passato il periodo dei perchè, si spiegava da sè molte cose,
meglio del come gliele spiegavano gli altri. Ma le cose
lontane, le cose che egli non aveva mai veduto e delle
quali conosceva solo il nome, lo inquietavano, lo tenevano
desto la notte e pensieroso il giorno.
– E le montagne, come sono? Come l’argine?
– Molto più alte.
– Mandano l’ombra sulla città?
– No, no; sono lontane, dalla città.
– La città è bella, non è vero?
– È bella, sì; ma si vive meglio in campagna. Io ho prova-
to a vivere in città, ma poi sono scappato. Vi è tutto catti-
vo, tutto guasto o falsificato. Ho letto che ora falsificano
persino le uova: le fanno a macchina.
Adone si fermò, spalancò gli occhi.
– Le uova? – gridò. – Come? Come? Dimmi come si fan-
no!
– Io non lo so davvero! Forse prenderanno i gusci vuoti e
li riempiranno con qualche porcheria.
– Dio mio! – esclamò Adone; sospirò e rise, tanto l’idea
5 Levante.
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delle uova false lo divertiva e lo interessava.
*
* *
Quando zio e nipote rientrarono nell’aja, la processione
era già passata; le donne ritiravano le lenzuola dalle corde,
e Adone profittò del momento per correre in cucina a
guardare dentro la pentola che gorgogliava e fumava sul
fuoco semispento.
– La ghè, la ghè – mormorò, toccando col ditino la zampa
giallognola della gallina che bolliva dentro la pentola. Egli
era un golosone, e per di più aveva fame; il sentimento del
dovere e neppure la paura di scottarsi gli avrebbero impe-
dito di sgraffignare la zampa della gallina, se in quel mo-
mento la zia non si fosse precipitata dentro la cucina, gri-
dando disperata:
– Le undici! Son le undici, e nessuno lo diceva! Povera
me!
Adone non si commosse: finse di cercare un tappo sotto la
tavola, poi, rassicurato, si avvicinò alla zia che in fretta e
furia s’era messa ad impastare le tagliatelle.
– Zia, dammi i gusci, – pregò. – Zio Giuan dice che ora si
fanno anche le uova false. Voglio provare a farle.
– Caro il mio omin, – disse la donnina – una sola persona
può fare le uova.
– Chi?
– La gallina.
– La gallina non è una persona, va là! – osservò giudizio-