Chapter 10

3612 Parole
II - Un vecchio buffone Entrarono nella stanza quasi ad un tempo con lo starec che, al loro arrivo, si era subito affacciato dalla sua cameretta. Nella cella c’erano due ieromonaci dell’eremo che aspettavano lo starec da prima di loro, uno era il padre bibliotecario, l’altro era padre Paisij, uomo delicato di salute, sebbene non vecchio, e, come si diceva, molto colto. Inoltre, in piedi, in un angoletto (e così rimase per tutto il tempo della visita), era in attesa un giovanotto sui ventidue anni, in abiti borghesi, seminarista e futuro teologo, che viveva per qualche ragione sotto la protezione del monastero e della confraternita. Era piuttosto alto, con un viso fresco, zigomi larghi, con due stretti occhi castani, intelligenti e vigili. Il suo viso esprimeva una deferenza perfetta, ma dignitosa, priva di visibile adulazione. Egli non si inchinò nemmeno a salutare gli ospiti che entravano, come se non fosse un loro pari, ma, al contrario, si trovasse in una posizione subalterna e dipendente. Lo starec Zosima entrò nella stanza accompagnato da un novizio e da Alëša. Gli ieromonaci si alzarono e lo salutarono con un inchino molto profondo, sino a sfiorare il pavimento con le dita, poi, ricevuta la benedizione, gli baciarono la mano. Dopo averli benedetti, lo starec rispose con un inchino altrettanto profondo, sfiorando anche lui il pavimento con le dita, e chiese a ciascuno di loro di essere benedetto a sua volta. L’intera cerimonia fu eseguita nella massima serietà, nient’affatto come un rito quotidiano, ma con intensa partecipazione. Tuttavia, Miusov ebbe l’impressione che tutto fosse fatto con l’intenzione di suggestionare. Egli stava alla testa della compagnia con la quale era entrato. Avrebbe dovuto – ci aveva pensato addirittura dalla sera prima – indipendentemente da qualunque idea, ma per semplice cortesia (poiché lì si usava fare in quel modo), avvicinarsi per ricevere la benedizione dello starec, almeno quello, se non proprio baciargli la mano. Ma, vedendo tutte quelle riverenze e quei baciamano degli ieromonaci, cambiò idea in un batter d’occhio: con aria seria e grave fece un inchino abbastanza profondo, da un uomo di mondo, e si allontanò verso una sedia. Nello stesso modo si comportò Fëdor Pavloviè, questa volta imitando Miusov punto per punto. Ivan Fëdoroviè si inchinò con gravità e cortesia, ma tenendo anche lui le mani ai lati del corpo, mentre Kalganov si confuse a tal punto che non si inchinò affatto. Lo starec abbassò la mano che stava alzando per impartire la benedizione e, inchinandosi verso di loro un’altra volta, invitò tutti ad accomodarsi. Ad Alëša affluì il sangue alle guance: provava vergogna. I suoi cattivi presentimenti si stavano avverando. Lo starec si sedette su un divanetto di mogano, ricoperto di cuoio, di foggia molto antica, e fece accomodare gli ospiti, eccetto i due ieromonaci, lungo la parete opposta, tutti e quattro uno accanto all’altro, su quattro sedie di mogano rivestite di cuoio nero molto consunto. Gli ieromonaci si sedettero ai lati, uno presso la porta, l’altro vicino alla finestra. Il seminarista, Alëša e il novizio rimasero in piedi. La cella era molto angusta e aveva un’aria alquanto sbiadita. Gli oggetti e i mobili, lo stretto indispensabile, erano rozzi e miseri. Due vasi di fiori alla finestra, molte icone in un angolo – una di esse, di enormi dimensioni, rappresentava la Madonna e risaliva presumibilmente a un’epoca di molto anteriore allo scisma. Dinanzi ad essa ardeva una piccola lampada. Vicino a quella c’erano altre due icone in rivestimenti sfavillanti, e poi piccoli cherubini scolpiti, uova di porcellana, una croce cattolica di avorio con una Mater dolorosa che l’abbracciava, alcune incisioni straniere di grandi pittori italiani dei secoli passati. Accanto a quelle incisioni, raffinate e di valore, facevano bella mostra di sé alcune fra le più dozzinali litografie russe di santi, martiri, prelati e così via, di quelle che si comprano a poche copeche in qualsiasi fiera. C’erano anche, ma sulle altre pareti, alcuni ritratti in litografia di vescovi russi del presente e del passato. Miusov lanciò una rapida occhiata a tutta quellla “paccottiglia” e poi fissò lo sguardo dritto sullo starec. Egli teneva in gran conto le proprie opinioni, aveva questa debolezza, in ogni caso perdonabile se si tiene conto che aveva già cinquant’anni – età nella quale un uomo di mondo, intelligente e agiato, comincia sempre, a volte persino involontariamente, a nutrire un po’ più di rispetto nei confronti di se stesso. Lo starec non gli piacque sin dal primo istante. Infatti, c’era qualcosa nel viso dello starec che a molti, oltre che a Miusov, poteva riuscire sgradita. Era di bassa statura, curvo, con le gambe molto deboli; aveva solo sessantacinque anni ma, a causa della malattia, sembrava molto più anziano, almeno di una decina d’anni. Il suo viso rinsecchito era tutto solcato da rughette minute, particolarmente fitte intorno agli occhi. Gli occhi erano piccoli, chiari, mobili, scintillanti, come due punti luminosi. Gli erano rimasti solo alcuni ciuffetti di capelli canuti sulle tempie, la barbetta era rada e minuscola, a punta, e le labbra, che sorridevano spesso, erano sottili come due cordicelle. Il naso non era tanto lungo quanto affilato, come il becco di un uccellino. “Secondo tutte le apparenze, un’animuccia perfida e piena di bieca alterigia”, venne in mente a Miusov. In generale era molto insoddisfatto della situazione in cui si trovava. I rintocchi dell’orologio aiutarono a cominciare la conversazione. Il piccolo e modesto orologio a pendolo batté rapido le dodici. «È l’ora dell’appuntamento, esatta esatta», gridò Fëdor Pavloviè, «e mio figlio Dmitrij Fëdoroviè non si è ancora visto. Chiedo scusa per lui, santo starec!» Alëša trasalì tutto nel sentire “santo starec”. «Io invece sono sempre puntuale, spacco il minuto e tengo a mente che la puntualità è la cortesia dei re...» «Eppure voi non siete un re, se non mi sbaglio», borbottò Miusov, perdendo subito la pazienza. «Sì, questo è vero, non sono un re. Pensate, Pëtr Aleksandroviè, che questo lo sapevo da me, quant’è vero Iddio! Ma ecco che dico sempre la cosa sbagliata! Reverendo!», esclamò con repentino fervore. «Dinanzi a voi vedete un autentico buffone! Mi presento così. È una vecchia abitudine, ahimè! E se alle volte parlo a sproposito, lo faccio con uno scopo, lo scopo di divertire ed essere piacevole. Bisogna pur riuscire piacevoli, non è vero? Un sette anni fa arrivo in una cittaduzza, avevo dei piccoli affari da sbrigare, avevo formato una piccola società con certi mercantucci. Andiamo dall’ispravnik, perché dovevamo chiedergli una cosa e invitarlo a pranzare con noi. Esce l’ispravnik, un uomo alto, grasso, biondo e tetro – i soggetti più pericolosi in simili casi: è per il fegato che sono così, sì, per il fegato. Io gli dico direttamente e, sapete, con la disinvoltura dell’uomo di mondo: “Signor ispravnik, siate il nostro, per così dire, Napravnik!” “Ma quale Napravnik?”, replica lui. E io mi rendo conto, dal primo mezzo secondo, di aver fatto cilecca. Lui se ne sta lì serio serio, tutto d’un pezzo e io gli dico: “L’ho detto per scherzare un po’, per stare tutti allegri, siccome il signor Napravnik è il nostro famoso direttore d’orchestra russo, e noi abbiamo appunto bisogno, per l’armonia della nostra impresa, di qualcosa di simile a un direttore d’orchestra...” Diedi una spiegazione molto ragionevole del mio paragone, non vi pare? “Scusate, io sono un ispravnik e non permetto che si facciano giochi di parole sul mio titolo”, dice lui, poi si gira e va via. Io lo seguo e gli urlo dietro: “Sì, è vero, siete un ispravnik, non un Napravnik!” “No, una volta che l’avete detto, ormai sono un Napravnik!”, dice lui. E figuratevi che quel nostro affare andò in fumo proprio per questo! E sono proprio così, sono sempre così. Puntualmente danneggio me stesso con la mia stessa affabilità! Una volta, molti anni fa, dissi a un personaggio influente: “La vostra consorte è una donna molto sensibile”: mi riferivo all’onestà, sapete, alle qualità morali, e lui, a bruciapelo, mi fa: “Perché, le avete fatto il solletico?” Non riuscii a trattenermi e così all’improvviso pensai di dire qualcosa di carino: “Sì, le ho fatto il solletico”, ma a quel punto fu lui a farmi il solletico... Solo che è successo tanto tempo fa, e non ho più vergogna a raccontarlo: io danneggio costantemente me stesso in questo modo!» «Lo state facendo anche in questo momento», borbottò Miusov con disgusto. Lo starec guardava in silenzio ora l’uno ora l’altro. «Davvero? Pensate, sapevo anche questo, Pëtr Aleksandroviè, e addirittura, sapete, ho avuto il presentimento che l’avrei fatto non appena avessi cominciato a parlare e, sapete, ho avuto addirittura il presentimento che sareste stato voi il primo a farmelo notare. Il momento in cui mi rendo conto che lo scherzo non mi riesce, reverendo, tutt’e due le guance cominciano ad attaccarsi alle gengive inferiori, come se avessi un crampo; questo mi accade sin dalla giovinezza, quando facevo il parassita presso i nobili e mi procuravo il pane a ufo. Io sono un buffone incallito, dalla nascita, reverendo, praticamente un puro folle; non discuto che in me possa annidarsi, reverendo, uno spirito impuro, non di grande calibro però, un spirito più importante avrebbe scelto un altro alloggio, certo nemmeno il vostro, Pëtr Aleksandroviè, visto che neanche il vostro alloggio è un gran che. In compenso credo, credo fermamente in Dio. Soltanto di recente sono stato assalito dai dubbi, ma in compenso adesso sono in attesa di sublimi parole. Io, reverendo, sono come il filosofo Diderot. Avete mai sentito, santissimo padre, di quella volta che il filosofo Diderot si presentò al metropolita Platon all’epoca dell’imperatrice Caterina? Entra e dice su due piedi: “Dio non esiste”. Al che il grande prelato alza il dito e risponde: “Dice lo stolto in cuor suo: Dio non esiste!” Quello allora, in un batter d’occhio, scatta in piedi e grida: “Credo e accolgo il battesimo”. E così lo battezzarono lì per lì. La principessa Daškova fece da madrina e Potëmkin da padrino...» «Fëdor Pavloviè, è una cosa inammissibile! Eppure sapete benissimo che state mentendo e che questo stupido aneddoto non corrisponde al vero; perché fate il pagliaccio?», gridò Miusov con voce tremante, perdendo completamente il controllo. «Per tutta la vita ho avuto il presentimento che non fosse vero!», esclamò con trasporto Fëdor Pavloviè. «A voi, signori, però, dirò tutta la verità – grande starec! – perdonatemi, l’ultima parte dell’aneddoto, quella sul battesimo di Diderot, l’ho inventata lì per lì, nel momento stesso in cui la raccontavo, prima non mi era mai venuta in mente. L’ho inventata per rendere l’aneddoto più piccante. Pëtr Aleksandroviè, io mento per riuscire più simpatico. Ma del resto non so neanch’io a volte perché lo faccio. Quanto a Diderot, ho sentito quel “dice lo stolto” una ventina di volte dai proprietari locali quand’ero giovane e vivevo a loro spese; l’ho sentito dire, fra l’altro, anche dalla vostra zietta, Pëtr Aleksandroviè, da Mavra Fominišna. Essi sono a tutt’oggi convinti che il miscredente Diderot sia andato dal metropolita Platon a disputare su Dio...» Miusov si alzò adirato, addirittura come fuori di sé. Era furioso e conscio di rendersi ridicolo per questo. In realtà quello che stava avvenendo nella cella era assolutamente inaudito. Per quaranta o cinquanta anni, dai tempi dei primi starcy, nessun visitatore era mai entrato in quella cella senza provare un sentimento di profondissima venerazione. Nel momento stesso in cui entravano nella cella, quasi tutti gli ammessi si rendevano conto che veniva loro concesso un grande favore. Molti si gettavano in ginocchio e non si alzavano sino alla fine della visita. Molti fra i visitatori più altolocati, e anche fra i più colti, addirittura alcuni liberi pensatori, spinti dalla curiosità o da altri motivi, quando entravano in quella cella, insieme a tutti gli altri o in udienza particolare, ritenevano loro dovere primario, tutti, nessuno escluso, manifestare il più profondo rispetto e la massima delicatezza per tutto il tempo della visita, tanto più che in quel luogo il denaro non contava, ma c’erano solo da una parte amore e pietà, dall’altra pentimento e brama di risolvere qualche difficile questione dell’anima o qualche difficile momento nella vita del proprio cuore. Quindi la buffoneria che Fëdor Pavloviè aveva tirato fuori, così irriverente nei confronti del luogo nel quale ci si trovava, produsse negli astanti, se non altro in alcuni di loro, sconcerto e stupore. Gli ieromonaci, la cui fisionomia era rimasta inalterata, aspettavano, seri e vigili, quello che avrebbe detto lo starec, ma sembravano pronti ad alzarsi come Miusov. Alëša era sul punto di piangere e stava in piedi a testa bassa. La cosa più strana di tutte per lui era che suo fratello, Ivan Fëdoroviè, l’unico sul quale egli avesse riposto le sue speranze e l’unico che avesse una tale influenza sul padre da essere in grado di fermarlo, se ne stava seduto immobile al suo posto, con gli occhi bassi e sembrava addirittura che aspettasse, molto incuriosito, come sarebbe andata a finire la faccenda, quasi fosse uno spettatore completamente estraneo ad essa. Alëša non riusciva a guardare in faccia neanche Rakitin (il seminarista), che pure egli conosceva molto bene e del quale era quasi intimo: conosceva le sue idee (sebbene in tutto il monastero fosse l’unico a conoscerle). «Perdonatemi...», prese a dire Miusov rivolto allo starec, «forse anche io vi sembrerò complice di questo ignobile scherzo. Il mio errore è stato quello di credere che persino un tipo come Fëdor Pavloviè, in occasione della visita a un persona così venerabile, si rendesse conto dei propri doveri... Non immaginavo che avrei dovuto scusarmi per il fatto di essere venuto in sua compagnia...» Pëtr Aleksandroviè non finì di parlare e, tutto confuso, fece per uscire dalla stanza. «Non inquietatevi, vi prego», lo starec si alzò all’improvviso dal suo posto sulle gambe malferme e, prendendo Pëtr Aleksandroviè per entrambe le mani, lo fece risedere al suo posto. «State tranquillo, vi prego. Chiedo a voi, in modo particolare, di rimanere mio ospite». Fece un inchino, si girò e si sedette di nuovo sul suo divanetto. «Grande starec, ditemi: vi sto forse offendendo con la mia vivacità?», gridò ad un tratto Fëdor Pavloviè afferrando con entrambe le mani i braccioli della sedia come sul punto di fare un balzo a seconda della risposta. «Prego caldamente anche voi di non inquietarvi e di non sentirvi in imbarazzo», gli disse lo starec con tono suadente. «Non sentitevi in imbarazzo, ma fate come se foste a casa vostra. E, soprattutto, non vergognatevi tanto di voi stesso, giacché è da questo che deriva tutto». «Come se fossi a casa mia? Cioè nel mio aspetto naturale? Oh, questo è molto, davvero troppo, ma l’accetto commosso! Sapete, padre benedetto, non dovreste invitarmi ad assumere il mio aspetto naturale, vi consiglio di non rischiare... non ci arrivo nemmeno io al mio aspetto naturale. Vi avviso per il vostro stesso bene. Be’, il resto è ancora avvolto nelle tenebre dell’ignoto, anche se ci sono persone a cui farebbe piacere farvi una mia descrizione. Sto parlando di voi, Pëtr Aleksandroviè; quanto a voi, santissima creatura, ecco quello che vi dico: sto traboccando dall’estasi!» Si alzò e alzando le braccia in alto, recitò: «Beato il ventre che ti ha portato e le mammelle che ti hanno allattato, le mammelle soprattutto! Ora voi, con la vostra osservazione: “Non vergognatevi tanto di voi stesso perché è da questo che deriva tutto” – voi, ora, con questa osservazione mi avete trafitto da parte a parte e mi avete letto dentro. Io ho proprio l’impressione, quando sono in mezzo alla gente, di essere il più meschino di tutti e che tutti mi prendano per buffone, e così mi dico “allora lo faccio per davvero il buffone, non temo la vostra opinione perché siete tutti, dal primo all’ultimo, più meschini di me!” Ecco perché sono un buffone, per la vergogna, grande starec, per la vergogna. È solo per diffidenza che attacco briga. Infatti, se nel presentarmi alla gente mi convincessi di essere accolto da tutti come il più bravo e il più simpatico degli uomini – Signore! – che brava persona sarei! Maestro!», cadde di colpo in ginocchio. «Che cosa devo fare per conquistare la vita eterna?» Anche adesso era difficile stabilire se stesse scherzando o fosse davvero commosso. Lo starec alzò gli occhi verso di lui e disse con un sorriso: «Voi stesso da molto tempo sapete quello che dovete fare, di intelligenza ne avete a sufficienza: non abbandonatevi all’ubriachezza e al turpiloquio, non abbandonatevi alla lussuria, e soprattutto all’idolatria del denaro, chiudete le vostre bettole; se non potete chiuderle tutte, almeno due o tre. E soprattutto, sopra ogni altra cosa: non mentite». «Vi riferite al fatto di Diderot, vero?» «No, non al fatto di Diderot. La cosa più importante è che non mentiate a voi stesso. Colui che mente a se stesso e dà ascolto alla propria menzogna arriva al punto di non saper distinguere la verità né dentro se stesso, né intorno a sé e, quindi, perde il rispetto per se stesso e per gli altri. Costui, non avendo rispetto per nessuno, cessa di amare e, incapace di amare, per distrarsi e divertirsi si abbandona alle passioni e ai piaceri volgari e nei suoi vizi tocca il fondo della bestialità, e tutto questo a causa dell’incessante menzogna nei confronti degli altri e di se stesso. Colui che mente a se stesso è più suscettibile degli altri all’offesa. Offendersi a volte è molto piacevole, non è vero? Eppure egli sa che nessuno gli ha arrecato offesa, ma che egli stesso si è inventato l’offesa e ha mentito per mettersi in mostra, ha esagerato egli stesso per creare un quadretto pittoresco, ha tratto spunto da una parola e ha fatto di un sassolino una montagna: egli sa benissimo tutto questo, tuttavia è il primo a offendersi, a offendersi per provare piacere, per assaporare una grande soddisfazione, e così finisce per nutrire autentico rancore... Ma alzatevi di lì e mettetevi seduto, ve ne prego caldamente, giacché anche questi sono gesti pieni di menzogna...» «Uomo beato! Datemi la manina da baciare», saltò su Fëdor Pavloviè e baciò al volo la mano scarna dello starec. «È proprio piacevole offendersi, proprio così. L’avete detto così bene come non l’ho mai sentito. Proprio così, per tutta la vita non ho fatto che offendermi proprio per provare piacere, mi sono offeso per godimento estetico, perché essere offeso a volte non solo è piacevole, ma persino raffinato – ecco che cosa avete dimenticato, grande starec: raffinato! Ne prenderò nota in un quadernetto! Ho mentito, mentito spudoratamente per tutta la mia vita, ogni giorno, ogni ora. In verità sono la menzogna e il padre della menzogna! Del resto pare che non esista il padre della menzogna, mi confondo sempre con i testi, ma mi sta bene anche essere solo il figlio della menzogna. Solo che... angelo mio... su Diderot si può mentire di tanto in tanto! Diderot non fa male a nessuno, mentre altre paroline possono fare male. Grande starec, a proposito, stavo per dimenticarmene, eppure erano tre anni che mi riproponevo di venire qui a chiedere informazioni, al preciso scopo di ottenere una risposta a una certa domanda, però non permettete a Pëtr Aleksandroviè di interrompermi. La domanda è questa: è vero, grande padre, che nei Èet’i–Minei si racconta, in un punto, di un santo taumaturgo che fu torturato per la fede, e, quando alla fine gli fu tagliata la testa, quello si alzò, si prese la sua testa e “baciandola amorevolmente” se ne andò, portandosela in mano e camminò a lungo, “baciandola amorevolmente”. È vero o no, venerandi padri?» «No, non è vero», rispose lo starec. «Non esiste niente di simile in tutti i Èet’i–Minei. Di quale santo, secondo voi, si scrive questo?», domandò uno dei due ieromonaci, il padre bibliotecario. «Non so neanch’io di quale santo. Non ne ho la minima idea. Mi hanno tratto in inganno, me l’hanno raccontato. L’ho sentito dire e sapete chi me l’ha raccontato? Ecco, Pëtr Aleksandroviè Miusov, quello che or ora si è tanto alterato per Diderot, è stato proprio lui a raccontarmelo». «Non vi ho mai raccontato una cosa simile, anzi, io con voi non parlo mai di niente». «È vero: non lo avete raccontato a me, ma lo avete raccontato a un gruppo di persone fra le quali mi trovavo anche io, tre anni fa. E l’ho ricordato perché con quella ridicola storia voi avete fatto vacillare la mia fede, Pëtr Aleksandroviè. Voi non lo potevate sapere né immaginare, ma io me ne ne tornai a casa sconvolto nella mia fede e da allora sono stato sempre più scosso. Sì, Pëtr Aleksandroviè, voi siete stato la causa di una grande caduta! Altro che Diderot!» Fëdor Pavloviè si era infervorato in modo patetico, sebbene ormai fosse chiaro a tutti che egli stava di nuovo recitando. Eppure Miusov era offeso a morte da quelle parole. «Che assurdità, sono tutte assurdità», borbottava, «potrei pure averlo detto una volta... ma certo non a voi. Mi è stato raccontato a mia volta. L’ho sentito a Parigi, un francese diceva che, pare, leggano questo da noi nei Èet’i–Minei, durante la messa... Era una persona molto colta, che aveva condotto uno studio specialistico sulle statistiche russe... e aveva vissuto a lungo in Russia... Io non ho letto di persona i Èet’i–Minei... e non li leggerò... Che importanza volete che abbia quello che si dice durante un pranzo?... E noi allora stavamo pranzando...» «Sì, voi pranzavate, mentre io perdevo la fede!», lo stuzzicò Fëdor Pavloviè. «Che cosa volete che me ne importi della vostra fede!», gridò Miusov, ma poi si trattenne e disse con disprezzo: «Voi sporcate letteralmente tutto quello che toccate». Lo starec si alzò all’improvviso dal suo posto: «Perdonatemi, signori, se vi lascio per qualche minuto», disse rivolto a tutti gli ospiti, «ma mi aspettavano ancora prima che voi arrivaste. E voi cercate lo stesso di non mentire», soggiunse rivolgendosi a Fëdor Pavloviè con un’espressione allegra. Egli si mosse per uscire dalla cella, Alëša e il novizio si affrettarono ad aiutarlo a scendere dalle scale. Alëša era senza fiato, era contento di uscire, ma era pure contento che lo starec non si fosse offeso e fosse allegro. Lo starec fece per dirigersi verso il portico per benedire quanti lo stavano aspettando. Ma Fëdor Pavloviè lo fermò sulla soglia della cella. «Uomo santissimo!», esclamò con sentimento. «Permettete che vi baci la mano ancora una volta! No, con voi è ancora possibile parlare, è possibile vivere! Voi pensate che io menta sempre e faccia sempre il buffone in questo modo? Sappiate che l’ho fatto di proposito, per mettervi alla prova, ho fatto finta. Vi ho sottoposto ad esame per tutto il tempo per vedere se si può vivere con voi. Per vedere se, dinanzi alla vostra fierezza, c’era posto per la mia umiliazione. Vi conferisco un attestato di lode: con voi si può vivere! E adesso taccio, starò zitto per tutto il tempo. Starò seduto al mio posto, zitto zitto. Adesso, Pëtr Aleksandroviè, tocca a voi parlare, adesso siete rimasto voi la persona più importante... per una decina di minuti».
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