Chapter 17

3449 Parole
VII - Un seminarista arrivista Alëša accompagnò lo starec nella cella dove riposava e lo fece sedere sul letto. Era una stanzetta molto piccola con lo stretto indispensabile di mobilia; c’era un letto angusto, di ferro sul quale, al posto del materasso, era steso un semplice strato di feltro. In un angoletto, presso le icone, c’era un leggio sul quale erano poggiati una croce e il Vangelo. Lo starec si abbandonò sul letto esausto; gli occhi gli brillavano e il respiro era affannoso. Una volta seduto, fissò Alëša, come se stesse riflettendo su qualcosa. «Va’, caro, va’, per me è sufficiente che resti Porfirij, ma tu affrettati. Là è necessaria la tua presenza, va’ dal padre igumeno, e servi a tavola». «Concedetemi di rimanere qui», supplicò Alëša con voce implorante. «Sei più utile là. Là non c’è pace. Servi a tavola e renditi utile. Se si solleveranno i demoni, tu prega. E sappi, figlioletto» (lo starec amava chiamarlo così), «che in avvenire non deve essere questo il tuo posto. Ricordatelo, ragazzo. Non appena il Signore si degnerà di chiamarmi a sé, tu lascia il monastero. Abbandonalo». Alëša trasalì. «Che hai? Non è questo il tuo posto per ora. Ti do la mia benedizione perché tu renda un grande servizio al mondo. Lungo sarà il tuo pellegrinaggio. Dovrai anche prendere moglie, sì, dovrai farlo. Dovrai sopportare tutto, fino al giorno in cui farai nuovamente ritorno qui. E ci sarà molto da fare. Ma non dubito di te ecco perché ti mando io stesso. Cristo è con te. Non lo abbandonare e lui non abbandonerà te. Vedrai un grave dolore e in quel dolore sarai felice. Ecco il mio insegnamento per te: cerca la felicità nel dolore. Lavora, lavora instancabilmente. Ricordati le mie parole d’ora in poi, giacché, anche se avrò ancora occasione di conversare con te, non solo i miei giorni, ma le mie ore sono contate». Sul viso di Alëša si dipinse una forte emozione. Gli angoli delle labbra gli tremavano. «Ma che c’è ancora?», sorrise quieto lo starec. «Lascia che le persone del mondo accompagnino i loro defunti con le lacrime, mentre noi ci rallegriamo di un padre che se ne va. Ci rallegriamo e preghiamo per lui. Lasciami allora. Devo pregare. Va’ e affrettati. Stai accanto ai tuoi fratelli. Non solo a uno di loro, ma accanto a tutti e due». Lo starec alzò la mano per benedirlo. Alëša non poteva replicare, anche se avrebbe desiderato tantissimo rimanere. Avrebbe anche voluto fare una domanda, che era lì lì per sfuggirgli di bocca, e cioè quale significato premonitore avesse quell’inchino fino a terra al fratello Dmitrij. Ma non ebbe il coraggio di domandarglielo. Egli sapeva che lo starec stesso glielo avrebbe chiarito senza tante domande, se lo avesse ritenuto giusto. Ma evidentemente non era quella la sua volontà. Quell’inchino aveva colpito moltissimo Alëša; egli credeva ciecamente che in esso fosse riposto un significato misterioso. Misterioso e, forse, terribile. Quando uscì dal recinto dell’eremo per arrivare al monastero in tempo per l’inizio del pranzo dell’igumeno (naturalmente soltanto per servire a tavola), avvertì all’improvviso una dolorosa stretta al cuore e si fermò di colpo: nella sua mente risuonarono le parole dello starec che prediceva la propria imminente dipartita. Quello che prediceva lo starec, e per di più con una tale precisione, doveva senza dubbio accadere, Alëša ci credeva devotamente. Ma come poteva rimanere senza di lui, come poteva vivere senza vederlo, senza sentire la sua voce? E dove sarebbe andato? Gli aveva ordinato di non piangere e di abbandonare il monastero, oh Signore! Era molto tempo che Alëša non provava una simile angoscia. Attraversava in fretta il bosco che separava l’eremo dal monastero e, incapace di sopportare il peso dei propri pensieri tanto questi lo opprimevano, si mise ad osservare i pini secolari che fiancheggiavano il sentierino del bosco. Il tragitto era breve, circa cinquecento passi, non di più; a quell’ora non si aspettava di incontrare nessuno, ma ad un tratto, alla prima svolta del sentierino, egli notò Rakitin. Stava aspettando qualcuno. «Stai aspettando me?», gli domandò Alëša raggiungendolo. «Proprio te», disse Rakitin ridendo. «Stai correndo dal padre igumeno. Lo so, dà un pranzo. Non ha più dato un pranzo simile dal giorno in cui ricevette il vescovo con il generale Pachatov. Io non vi prenderò parte, ma tu va’ pure a servire le salse. Dimmi solo una cosa, Alëša: che significa quel sogno? Ecco che cosa volevo domandarti». «Quale sogno?» «Quell’inchino fino a terra che ha fatto a tuo fratello Dmitrij Fëdoroviè. Ci ha picchiato forte con la fronte!» «Stai parlando dello starec Zosima?» «Sì, di padre Zosima». «Picchiato con la fronte?» «Ah, non mi sono espresso con il dovuto rispetto! E che sia pure senza il dovuto rispetto. Allora che significa quel sogno?» «Non lo so, Miša, che cosa significa». «Lo sapevo che non te l’avrebbe spiegato. Di tanto complicato, poi, a ben vedere non c’è proprio nulla, sono le solite stupidaggini da bigotti. Ma il trucco è stato fatto con un fine. Ecco che tutti i baciapile della città cominceranno a ricamarci sopra e a domandarsi per tutto il governatorato: “Che cosa significherà mai quel sogno?” Secondo me il vecchio ha davvero il naso fino: ha sentito odore di delitto. Se ne sente il lezzo lì dalle vostre parti». «Di quale delitto parli?» Era evidente che Rakitin volesse dire ancora qualche cosa. «Avverrà nella vostra famigliola, quel delitto. Accadrà tra i tuoi fratelli e il tuo ricco papà. Padre Zosima ha battuto la fronte per ogni evenienza futura. E dopo che sarà accaduto, diranno: “Ah, il santo starec questo lo aveva predetto, lo aveva profetizzato”. Anche se che grande profezia vuoi che ci sia in un colpetto con la fronte? No, si dirà che era un gesto simbolico, un’allegoria e il diavolo sa cos’altro! Si strombazzerà ai quattro venti, si ricorderà in futuro: “Ha previsto un delitto, ha individuato il colpevole”. I fanatici esaltati fanno spesso così: nelle bettole si fanno il segno della croce e poi gettano le pietre contro il tempio. Lo stesso il tuo starec: i giusti li caccia con il bastone e agli assassini si inchina fino ai piedi». «Ma di quale delitto parli? Di quale assassino? Che cosa stai dicendo?» Alëša si fermò impietrito, anche Rakitin si fermò. «Quale assassino? Come se tu non lo sapessi! Scommetto che anche tu ci hai già pensato. A proposito, è curioso: ascolta, Alëša, tu dici sempre la verità, anche se tieni sempre il piede in due staffe: ci hai pensato o no? Rispondi». «Ci ho pensato», rispose Alëša sommessamente. Persino Rakitin rimase sconcertato. «Che cosa? Ci hai pensato davvero anche tu?», gridò. «Non che ci abbia proprio pensato», mormorò Alëša, «ma quando tu hai cominciato a dire quelle strane cose poc’anzi, mi è sembrato di averci già pensato io stesso». «Vedi? E con quanta chiarezza lo hai espresso, vedi? Oggi, guardando il paparino e il fratellino Miten’ka, hai pensato al delitto? Dunque non mi sto sbagliando?» «Ma aspetta, aspetta un attimo», lo interruppe Alëša turbato. «Che cosa ti ha indotto a vedere tutto questo? E, soprattutto, perché ti interessa tanto?» «Due domande separate l’una dall’altra, ma naturali. Risponderò a ciascuna separatamente. Che cosa mi ha indotto a vedere tutto questo? Non avrei visto nulla, se oggi, all’improvviso, non avessi capito Dmitrij Fëdoroviè, tuo fratello, com’è veramente, un volta per tutte, in tutto il suo essere. L’ho colto per intero da un solo tratto. Queste persone onestissime, ma passionali, hanno un limite che non va oltrepassato. Altrimenti, altrimenti è capace di saltare addosso al paparino con un coltello. Ma il paparino, ubriacone e libertino smodato, non ha mai conosciuto la misura, in nessun caso, quindi basta che si lascino andare entrambi e vanno a finire tutti e due dritti dritti in un fosso...» «No, Miša, no, se è solo per questo, mi sento sollevato. Non si arriverà a tal punto». «E allora perché tremi tutto? Lo sai tu come vanno queste cose? Ammettiamo pure che sia una persona onesta, quel Miten’ka (è stupido ma onesto), però è un sensuale. Ecco la sua vera definizione e la sua essenza interiore. È stato il padre a trasmettergli questa bassa sensualità. Sai, mi meraviglio semplicemente di te, Alëša: come hai fatto a conservare la tua castità? Eppure sei un Karamazov anche tu! Nella vostra famiglia la sensualità arriva al parossismo. Ecco, quei tre sensuali si spiano a vicenda... con i coltelli pronti. Hanno sbattuto la fronte in tre e tu, forse, sei il quarto». «Ti sbagli sul conto di quella donna. Dmitrij la... disprezza», disse Alëša sussultando lievemente. «Grušen’ka? No, fratello, non la disprezza. Se ha preferito apertamente lei alla sua fidanzata, vuol dire che non la disprezza. In questo caso... in questo caso, fratello, si tratta di qualcosa che adesso tu non puoi capire. Quando un uomo si innamora di una certa bellezza, di un corpo femminile, oppure soltanto di una parte del corpo femminile (questo un sensuale può capirlo), per essa sarebbe capace di abbandonare i suoi figli, vendere il padre e la madre, la Russia e la patria; se è onesto, andrà a rubare; se è mite, ammazzerà, se è leale, tradirà. Un cantore dei piedini femminili, Puškin, ha decantato in versi quei piedini; altri non li decantano, ma non riescono a guardare quei piedini senza avere i brividi. E non solo per i piedini... In questo caso, fratello, il disprezzo non c’entra, anche se egli davvero disprezzasse Grušen’ka. La disprezza, ma non riesce a staccarsene». «Lo capisco questo», si lasciò sfuggire Alëša d’un tratto. «Davvero? E devi capirlo davvero se così di slancio ti lasci sfuggire che lo capisci», disse Rakitin con gioia maligna. «Ti è sfuggito senza volerlo, ti è scappato. Per questo è un’ammissione tanto più preziosa: dunque l’argomento ti è già noto, alla sensualità ci hai già pensato. Hai capito il verginello! Tu, Alëška, sei un’acqua cheta, sei un santo, ne convengo, ma solo il diavolo sa i pensieri che ti sono già passati per la mente, solo il diavolo sa le cose di cui sei già venuto a conoscenza! Tu sei un puro, eppure sei già arrivato a una notevole profondità nelle tue riflessioni, è da un pezzo che ti tengo d’occhio. Anche tu sei un Karamazov, sei un Karamazov dalla testa ai piedi, la razza, la selezione dovranno pur significare qualcosa. Un sensuale da parte di padre, un puro folle da parte di madre. Perché tremi? Sto cogliendo nel segno? Sai una cosa? Grušen’ka mi ha detto: “Portamelo”, stava parlando di te, “e io gli sfilerò la tonaca di dosso”. E dovevi vedere come mi implorava: portamelo, portamelo! Mi è venuto solo da pensare: perché la incuriosisci tanto? Sai, anche lei è una donna fuori dal comune!» «Salutala da parte mia e dille che non ci verrò», Alëša sorrise forzatamente. «Finisci quello che stavi dicendo, Michail, poi ti dirò il mio pensiero». «Non c’è niente da aggiungere, è tutto chiaro. Tutto questo, fratello, è storia vecchia. Se persino tu nascondi un uomo sensuale dentro di te, allora che dire di Ivan, il tuo fratello uterino? Infatti anche lui è un Karamazov. Tutta l’essenza karamazoviana si riassume così: sensualità, cupidigia e follia! Adesso tuo fratello Ivan pubblica per burla, per qualche suo ignoto e stupidissimo motivo, articoli di teologia, pur essendo ateo; e confessa egli stesso questa sua bassezza – ecco che tipo è tuo fratello Ivan. Inoltre, sta soffiando la fidanzata a suo fratello Mitja e forse riuscirà anche in questo intento. E c’è da vedere come: con il consenso di Miten’ka stesso, perché Miten’ka gli sta cedendo la fidanzata per sbarazzarsi di lei e fuggire al più presto da Grušen’ka. E tutto questo, nota bene, a dispetto della sua grande nobiltà d’animo e del completo disinteresse da parte sua. Questi sono i tipi più fatali che ci possano essere! Solo il diavolo vi capisce: ammette la propria bassezza e ci scivola dentro da solo! Sta a sentire ancora: adesso quel vecchiaccio di vostro padre sta tagliando la strada a Miten’ka. Infatti tutto d’un tratto ha perso la testa per Grušen’ka, gli viene la bava alla bocca solo a guardarla. È stato solo a causa di lei che ha sollevato quel po’ po’ di scandalo nella cella, solo per il fatto che Miusov ha osato chiamarla carogna dissoluta. È peggio di una gatta in amore. Prima lei lavorava a pagamento solo in certi suoi loschi affarucci di bettole, mentre ora all’improvviso egli si è accorto di lei, l’ha guardata meglio e ha perso la testa, la insidia con le sue proposte, disoneste s’intende. E così padre e figlio finiranno con lo scontrarsi su quella stessa strada. E Grušen’ka non si concede né all’uno né all’altro, per il momento tergiversa e li stuzzica entrambi, valuta chi le convenga di più: perché anche se il paparino ha moltissimi quattrini da sgraffignare, quello non è tipo che si sposa e alla fine è capace di fare l’ebreuccio e stringere i cordoni della borsa. Ed è qui che viene fuori il valore di Miten’ka: lui i soldi non ce li ha, ma è pronto a sposarla. Proprio così, è pronto a sposarla! Lasciare la fidanzata, una bellezza incomparabile come Katerina Ivanovna, ricca, nobile, figlia di un colonnello, per sposare Grušen’ka, l’ex mantenuta del vecchio mercantuccio Samsonov, volgare zoticone e capomastro. Da tutto questo può davvero derivare un delittuoso conflitto. E tuo fratello Ivan non aspetta altro, sarebbe una vera pacchia per lui: conquisterebbe Katerina Ivanovna, per la quale si strugge, e intascherebbe pure i sessantamila rubli della sua dote. Per un uomo senza una posizione, per uno spiantato come lui, la cosa è estremamente allettante tanto per cominciare. E nota bene: non solo non offenderà Mitja, me se ne conquisterà la gratitudine sino alla tomba. Infatti so per certo che Miten’ka stesso, solo la settimana scorsa, mentre si trovava in una bettola con delle zigane, ubriaco, ha gridato a squarciagola di non essere degno della sua fidanzata Katen’ka, mentre il fratello Ivan, quello sì che ne è degno. E Katerina Ivanovna stessa ovviamente alla fine non respingerebbe un uomo affascinante come Ivan Fëdoroviè; già adesso tentenna fra i due. Ma come avrà fatto quell’Ivan a incantare tutti voi che lo venerate tanto? E invece lui ride di voi e dice: io me la spasso e mi ingozzo a vostre spese». «Come fai a sapere tutto questo? Come fai a parlare con tanta sicurezza?», gli domandò bruscamente Alëša, accigliato. «E tu perché me lo domandi e hai paura della mia risposta? Vuol dire che anche tu riconosci che ho detto la verità». «Tu non ami Ivan. Ivan non si fa irretire dai soldi». «Davvero? E la bellezza di Katerina Ivanovna dove la metti? Non contano solo i soldi in questo caso, sebbene sessantamila rubli facciano pur sempre gola». «Ivan è superiore a queste cose. Ivan non si lascia irretire nemmeno da migliaia di rubli. Non è il denaro, non è il quieto vivere che Ivan cerca. Egli, forse, cerca il tormento». «Che altro sogno è mai questo? Ah, voi... nobili!» «Eh, Miša, egli ha un’anima burrascosa. La sua mente è in catene. Dentro di lui c’è un grande pensiero irrisolto. È uno di quelli che non vuole denaro, ma solo dare una risposta al proprio pensiero». «Plagio letterario, Alëška. Stai citando il tuo starec. Ma guarda un po’, il vostro Ivan vi ha posto un bell’enigma!», gridò Rakitin con palese astio. Aveva persino cambiato faccia e le labbra gli si erano contratte. «Eppure è un enigma stupido, questo, non c’è nulla da indovinare. Basta far funzionare il cervello e si capisce tutto. Il suo articolo è ridicolo e assurdo. Ho sentito la sua stupida teoria poco fa: “Se non c’è immortalità dell’anima, non c’è nemmeno virtù, quindi tutto è permesso”. (E tuo fratello Miten’ka, a proposito – ricordi? – ha gridato: “Lo terrò a mente!”). Una teoria seducente per i mascalzoni... Ma sto offendendo... è sciocco... non per i mascalzoni, ma per gli studenti spacconi dall’“irrisolta profondità di pensiero”. Un vanitosello, il succo è tutto qui: “Da un canto, non si può non ammettere, dall’altro, non si può non riconoscere!” Tutta la sua teoria non è che una vigliaccata! L’umanità troverà in se stessa la forza di vivere per la virtù anche senza credere nell’immortalità dell’anima! La troverà nell’amore per la libertà, per l’uguaglianza, per la fratellanza...» Rakitin si era infervorato, non riusciva quasi a contenersi. Ma si bloccò all’improvviso come se si fosse ricordato di qualcosa. «Be’, ora basta», disse con un sorriso ancora più forzato di prima. «Perché ridi? Pensi che io sia un volgare?» «No, non mi ha neanche sfiorato l’idea che tu possa essere una persona volgare. Tu sei intelligente, ma... lascia stare, è stato sciocco da parte mia sorridere. Capisco che tu possa infervorarti tanto, Miša. Dal tuo trasporto, ho intuito che tu stesso non sei insensibile al fascino di Katerina Ivanovna; io, fratello, lo sospettavo da tempo, ecco perché non hai simpatia per mio fratello Ivan. Sei geloso di lui?» «E sarei geloso anche dei soldini di lei? Non vuoi aggiungere pure questo?» «No, non aggiungerò nulla in merito ai soldi, non ho nessuna intenzione di offenderti». «Se lo hai detto, ci credo, ma che il diavolo vi pigli una volta per tutte, tu e tuo fratello Ivan! Nessuno di voi capisce che si può non avere affatto simpatia per lui anche a prescindere da Katerina Ivanovna. E per che diavolo dovrei volergli bene? Lui stesso si degna di ingiuriarmi. Perché mai non dovrei avere il diritto di ingiuriarlo io?» «Non ho mai sentito che abbia detto qualcosa su di te, né in bene né in male; non parla mai di te». «Invece io ho sentito che due giorni fa, a casa di Katerina Ivanovna, mi ha proprio conciato per le feste con i suoi improperi, ecco fino a che punto si è interessato del vostro umile servo. Dopo di che, fratello, chi è il geloso fra noi, questo non lo so proprio! Si è degnato di esprimere la sua idea secondo la quale se non mi dedicherò alla carriera di archimandrita in un futuro molto prossimo e non mi deciderò a prendere i voti, allora andrò di sicuro a Pietroburgo ed entrerò in qualche grossa rivista, sicuramente nel settore della critica, scriverò per una decina d’annetti, e alla fine diventerò proprietario della rivista stessa. Dopo di che, riprenderò la pubblicazione della rivista sotto rinnovata veste, imprimendole sicuramente un indirizzo liberale e ateo, persino con una sfumatura socialisteggiante, anzi, addirittura con una leggera vernice di socialismo, ma sempre con le orecchie all’erta, cioè, in sostanza, dando un colpo al cerchio e uno alla botte e gettando polvere negli occhi agli imbecilli. La fine della mia carriera, secondo l’interpretazione di tuo fratello, sarebbe la seguente: la sfumatura di socialismo non mi impedirà di depositare sul mio conto corrente i soldi degli abbonamenti e, all’occasione, di investirli sotto la guida di qualche ebreuccio, fino al giorno in cui costruirò un grosso stabile a Pietroburgo, vi trasferirò la redazione e darò in affitto i rimanenti piani. Ha persino scelto il luogo della costruzione: presso il ponte Novyj Kamennyj sulla Neva in progettazione a Pietroburgo, quello che unirà la Litejnaja alla Vyborskaja...» «Eppure, Miša, vedrai che tutto questo si avvererà, dalla prima all’ultima parola!», esclamò ad un tratto Alëša senza riuscire a trattenersi dal ridere allegramente. «Anche voi vi lasciate andare al sarcasmo, Aleksej Fëdoroviè». «No, no, sto scherzando, perdonami. Ho tutt’altro per la mente. Permettimi di domandarti una cosa sola: chi avrebbe potuto riferirti questi dettagli e da chi avresti potuto sentirli? Non potevi essere lì anche tu quando lui parlava di te?» «Io non ero presente, in compenso c’era Dmitrij Fëdoroviè e io l’ho sentito con le mie orecchie dallo stesso Dmitrij Fëdoroviè: cioè, non che lo stesse dicendo a me, ho sentito, senza volerlo s’intende, perché mi trovavo nella camera da letto di Grušen’ka e non sono potuto uscire per tutto il tempo che Dmitrij Fëdoroviè è rimasto nella camera accanto». «Ah, già, dimenticavo, lei è tua parente...» «Parente? Quella Grušen’ka mia parente?», gridò all’improvviso Rakitin avvampando tutto. «Ma ti sei bevuto il cervello? Hai qualche rotella fuori posto?» «Perché? Non siete forse parenti? L’ho sentito dire». «Dove puoi averlo sentito? No, voi, signori Karamazov, vi date arie da nobili illustri e di antico lignaggio, quando invece tuo padre faceva il buffone alle tavole altrui ed era ammesso in cucina solo per concessione. Io posso essere soltanto il figlio di un pope e un pidocchio in confronto a voi nobili, ma non crediate di potermi offendere con tanta spudorata leggerezza. Anch’io ho la mia dignità, Aleksej Fëdoroviè. Non potrei essere imparentato con Grušen’ka, una donna pubblica, vi prego di comprendere!» Rakitin era molto irritato. «Perdonami, per l’amor del cielo, non avevo idea e poi perché la chiami donna pubblica? Lei per caso... è una di quelle?», Alëša arrossì all’improvviso. «Ti ripeto: ho sentito dire che è tua parente. Ti rechi spesso da lei, me lo hai detto tu stesso che non hai una relazione amorosa con lei... Non avrei mai pensato che proprio tu la disprezzassi tanto! Ma lei se lo merita davvero?» «Potrei avere le mie buone ragioni per farle visita, non sono fatti tuoi. Quanto alla parentela, in men che non si dica il tuo fratellino, o addirittura il tuo paparino, la renderanno parente a te e non a me. Ma ecco che siamo arrivati. Sarà meglio che entri dalla cucina. Ah! Ma che succede qui, che è stato? Ma abbiamo fatto così tardi? Non possono aver finito di pranzare così presto. Oppure i Karamazov ne hanno combinata un’altra delle loro? Sarà andata così. Ecco tuo padre e Ivan Fëdoroviè dietro di lui. Sono scappati via dall’igumeno. Padre Isidor è lì sul terrazzino che gli grida dietro. E anche tuo padre urla e agita le mani, probabilmente impreca. Ecco lì Miusov che se ne va in carrozza, vedi, si sta allontanando. Anche il proprietario Maksimov corre, ma questo è uno scandalo in piena regola; quindi il pranzo non c’è stato! Non avranno mica picchiato l’igumeno? O forse sono stati loro ad essere picchiati? Questa sarebbe bella!...» Rakitin aveva ragione di lasciarsi andare a simili esclamazioni. Lo scandalo c’era stato per davvero, inaudito e inatteso. Tutto era avvenuto “per un’improvvisa ispirazione”.
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