Chapter 3

1359 Parole
I - Fëdor Pavloviè Karamazov Aleksej Fëdoroviè Karamazov era il terzo figlio di un proprietario terriero del nostro distretto, Fëdor Pavloviè Karamazov, assai noto ai suoi tempi (e del resto ancor oggi ricordato fra noi) per la sua tragica e oscura fine, avvenuta esattamente tredici anni fa e della quale parlerò a tempo debito. Adesso, invece, di questo “proprietario terriero” (come lo si chiamava da noi, anche se in tutta la sua vita non aveva abitato quasi mai nella sua proprietà), dirò solo che era un tipo strano, di quelli che tuttavia si incontrano abbastanza spesso, il tipo di persona non soltanto abietta e depravata, ma anche balorda, di quei balordi, però, che sanno gestire egregiamente i propri affarucci e, a quanto pare, solo quelli. Fëdor Pavloviè, ad esempio, aveva cominciato quasi dal nulla; la sua proprietà era modestissima, correva di qua e di là per pranzare alla tavola altrui, si ingegnava a fare il parassita, eppure al momento del trapasso gli trovarono ben centomila rubli in contanti, anche se nel contempo aveva continuato ad essere per tutta la vita uno dei più dissennati scavezzacolli di tutto il nostro distretto. Lo ripeto ancora: qui non si tratta di stupidità – la maggior parte di questi scavezzacolli è abbastanza intelligente e scaltra – si tratta proprio di dissennatezza, e per giunta di un tipo particolare, nazionale. Si era sposato due volte e aveva avuto tre figli: il maggiore, Dmitrij Fëdoroviè, dalla prima moglie, gli altri due, Ivan e Aleksej, dalla seconda. La prima moglie di Fëdor Pavloviè apparteneva a una nobile stirpe, abbastanza ricca e famosa, anch’essi proprietari terrieri del nostro distretto, i Miusov. Non mi dilungherò troppo a spiegare come accadde esattamente che una ragazza con tanto di dote, anche bella e oltre tutto una di quelle intelligenze vivaci non così rare nella nostra generazione, ma che già si trovavano anche nella precedente, abbia potuto sposare una tale nullità, uno “scorfano”, come allora lo chiamavano tutti. Ho conosciuto infatti una fanciulla appartenente alla penultima generazione “romantica”, che dopo alcuni anni di misterioso amore per un certo signore, che del resto avrebbe potuto tranquillissimamente sposare in qualunque momento, finì tuttavia per inventarsi da sola ostacoli insormontabili, si gettò in un fiume abbastanza profondo e rapido da una ripa alta e scoscesa, quasi un precipizio, e vi perì decisamente a causa delle proprie fisime, per poter assomigliare all’Ofelia di Shakespeare; anzi, se quel precipizio, che ella aveva notato e vagheggiato da tanto tempo, non fosse stato così pittoresco, se al suo posto ci fosse stata soltanto una prosaica riva pianeggiante, forse quel suicidio non sarebbe mai avvenuto. Questo è un fatto vero, e c’è da credere che nella nostra vita russa, durante le ultime due o tre generazioni, si siano verificati non pochi episodi come questo, o simili a questo. Analogamente, anche l’azione di Adelaida Ivanovna Miusova era senza dubbio un’eco di suggestioni altrui e anche dell’esasperazione di una mente prigioniera. Forse aveva voluto affermare l’indipendenza femminile, andar contro le convenzioni sociali, contro il dispotismo dei parenti e della famiglia, mentre una compiacente fantasia l’aveva convinta, poniamo, per un solo istante, che Fëdor Pavloviè, malgrado la sua fama di parassita, fosse tuttavia uno degli uomini più coraggiosi e ironici di quell’era di transizione verso tempi migliori, mentre non era altro che un tristo buffone e nulla più. Un altro lato piccante della storia era che il matrimonio fu preceduto da un rapimento, il che lusingò molto Adelaida Ivanovna. Dal canto suo, Fëdor Pavloviè era oltremodo predisposto ad azioni del genere anche per la propria posizione sociale, in quanto ardeva dal desiderio di far carriera a qualunque costo, e l’idea di legarsi a una buona famiglia e di mettere le mani su una dote era molto allettante per lui. Quanto all’amore reciproco, pare che non ce ne fosse affatto, né da parte della fidanzata, né da parte di lui, nonostante la bellezza di Adelaida Ivanovna, tanto che questo caso fu forse l’unico del genere nella vita di Fëdor Pavloviè, uomo sensualissimo per tutto il corso della propria esistenza, pronto a correre dietro istantaneamente a ogni gonnella, al minimo segno di incoraggiamento. E invece, quella donna fu dunque l’unica a non fare nessun effetto sulla sua sensualità. Subito dopo il rapimento, Adelaida Ivanovna s’avvide immediatamente di provare disprezzo e nient’altro nei confronti del marito, cosicché le conseguenze di quel matrimonio si delinearono con straordinaria rapidità. Nonostante la famiglia avesse accettato anche abbastanza in fretta il fatto compiuto, e avesse assegnato la dote alla fuggitiva, fra i coniugi ebbe inizio una vita di estremo disordine e eterne scenate. Si raccontava che la giovane sposa avesse tuttavia dimostrato un animo incomparabilmente più nobile ed elevato di Fëdor Pavloviè, il quale, come adesso è noto, le arraffò d’un sol colpo tutti i soldi, ben venticinquemila rubli, subito dopo che quella li ebbe ricevuti, cosicché per lei fu come se si fossero letteralmente volatilizzati. Quanto a un piccolo villaggio e a una casa di città abbastanza bella, che costituivano anch’essi parte della dote, egli cercò per lungo tempo e con tutti i mezzi di farli intestare a suo nome, con qualche atto opportuno, e probabilmente ci sarebbe riuscito, non foss’altro, diciamo così, per il disprezzo e la ripugnanza che ispirava continuamente alla propria consorte con quelle sue vergognose suppliche e estorsioni, nonché per la stanchezza emotiva di lei e per il desiderio di levarselo di torno. Per fortuna, però, la famiglia di Adelaida Ivanovna si mise di mezzo e pose freno a quella piovra. Si sa per certo che fra gli sposi erano frequenti i litigi, ma, a quanto si dice, non era Fëdor Pavloviè a picchiare, bensì Adelaida Ivanovna, donna focosa, audace, di carnagione olivastra, insofferente e dotata di una notevole forza fisica. Finì che lei abbandonò Fëdor Pavloviè scappando di casa con un seminarista, un morto di fame che faceva l’istitutore, e lasciando alle cure del marito il figlioletto Mitja di tre anni. In un batter d’occhio Fëdor Pavloviè si installò in casa un intero harem e si abbandonò a continue bisbocce e gozzoviglie, mentre negli intervalli se ne andava in giro per tutto il governatorato a piangere e lamentarsi con tutti quelli che incontrava perché era stato abbandonato da Adelaida Ivanovna; inoltre, della sua vita coniugale raccontava particolari tali che un coniuge si sarebbe vergognato di menzionare. La cosa notevole è che sembrava che lo gratificasse e persino lo lusingasse recitare davanti a tutti la ridicola parte del marito oltraggiato, e arrivava a dipingere a forti tinte i particolari della sua sventura. «Verrebbe da credere che abbiate avuto una promozione, Fëdor Pavloviè, tanto apparite soddisfatto, nonostante tutto il vostro dolore», gli dicevano quelli che lo prendevano in giro. Molti addirittura aggiungevano che egli era contento di mostrarsi in quella rinnovata veste di buffone, e che apposta, per far ridere di più, fingeva di non notare la comicità della propria situazione. Del resto, chi lo sa, forse lo faceva anche ingenuamente. Finalmente gli riuscì di scoprire le tracce della fuggitiva. La poveretta risultò trovarsi a Pietroburgo, dov’era approdata con il suo seminarista e si era data a una vita di completa emancipazione. Fëdor Pavloviè si dette immediatamente da fare per raggiungere Pietroburgo, anche se, naturalmente, nemmeno lui sapeva bene perché. A dire il vero, forse quella volta sarebbe anche partito, ma subito dopo aver preso tale decisione ritenne di avere pieno diritto, tanto per farsi un po’ di coraggio prima del viaggio, di ubriacarsi senza ritegno. Fu proprio a quel punto che la famiglia della moglie ricevette notizia della morte di quest’ultima a Pietroburgo. Era morta, a quanto pare, in una soffitta, all’improvviso, secondo alcune voci di tifo, secondo altre di fame. Quando apprese la notizia della morte della moglie, Fëdor Pavloviè era ubriaco. Si dice che si fosse messo a correre per la strada e, levando le mani al cielo per la gioia, gridasse: «Ora, Signore, lascia che il tuo servo se ne vada in pace!». Secondo altri, invece, singhiozzava come un bambino, e così forte, che faceva persino pena a guardarlo, nonostante tutta l’avversione che suscitava. Può darsi benissimo che fossero vere tutte e due le versioni, cioè, che si rallegrasse per la propria liberazione e insieme piangesse per la propria liberatrice. In generale gli uomini, anche i farabutti, sono per la maggior parte assai più ingenui e sempliciotti di quanto generalmente si creda. E noi pure, del resto.
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