CAPITOLO IIGenova in quei giorni era la solita perché non ci sono giorni che non sia la solita. Che, altrimenti, i genovesi se ne andrebbero via. Uguale a se stessa nei secoli. Il mare, la città, la collina che per i genovesi è una montagna. E i torrenti emersi e sommersi dal cemento che per i genovesi sono i fiumi. A maggio comincia a essere un po’ africana e un po’ termale. Umida e appiccicaticcia. Dove l’odore di rinfrescume dell’acqua si mescola con il primo profumo dei pitosfori di corso Italia.
Il commissario Falsopepe in questo bagno turco urbano ci era finito dentro fino al collo. Da subito. Da quando a Genova ci aveva messo piede nelle giornatacce del G8, dei no global in versione famiglia, in corteo con i bambini e dei black bloc che avevano fatto in questo bagno turco la loro prova di guerriglia. E di una parte dei colleghi del commissario che sulle teste dei manifestanti ci aveva giocato alla guerra.
Ma Genova era riuscita e penetrare nei pori del commissario pugliese. Buona o cattiva che fosse. Umida o fredda. Con i colori scolorati e il mugugno costante della gente. Gli piaceva raccontarla agli amici. Come se fosse un genovese e non un terrone. Un gabibbo, come si dice qui.
Raccontava che Nietzsche scriveva all’amico Peter Gast che Genova era “un sud che aveva perso i colori.” Bella immagine, un tantino struggente. Ma Genova di colori ne ha sempre avuti pochi e quei pochi sono tutti pastellati e in particolare verniciano le case dei pescatori. Nei borghi di pesca che sono all’interno della città i colori ci sono. Nel centro i colori sono stati usati in abbondanza per dipingere le facciate dei palazzi antichi o in qualche allegra piazzetta. Così per ricambiare queste sensazioni il dottor Falsopepe si era messo a fare il flâneur. Perditempo. Lo rimproverava così il burbero, vecchio, questore Zanfrondo. La flânerie è un’arte, una filosofia della vita. La flânerie per Falsopepe era diventata anche un metodo di indagine.
Si era abituato anche alla macaja una situazione più mentale che meteorologica, che porta vapor acqueo e rende Genova una medievale orzata, una nevicata che biancheggia le colline fin quasi ai casoni dei nuovi quartieri, costruiti con l’idea di realizzare case economiche. Tragicamente, anche quando l’acqua uccide e il Bisagno invade le strade sottomesse, impaludandole.
Aveva inalato anche la legge filosofica del maniman, intraducibile parola, un po’ araba e molto genovese che, come per magia, blocca, paralizza, gela, iberna affari, progetti, idee, novità, cambiamenti. Si potrebbe fare questo? Sì ma, maniman… oppure Lascia perdere che, maniman. Così il maniman era stato il Grande Freno della città, il sigillo della conservazione. Si divertiva, il commissario, e il maniman lo lasciava alle sue ricerche storiche. Non alle sue indagini. Le indagini andavano fatte a trivella.
Finalmente l’indagine arrivò. Ma come succede sovente i guai non arrivano mai da soli. E le indagini, il più delle volte, sono dei guai.
L’urlo partì da un tavolo della veranda che stava a picco sugli scogli del borgo marinaro di Boccadasse. Un urlo impossibile da replicare: di ghiaccio, poi tremante, patetico, poi sopraffatto da un pianto a dirotto, mentre tutti gli avventori del ristorante cercavano con gli sguardi persi nella notte da dove provenisse quel verso, se da un uomo o da una donna o da un animale ferito.
Il cameriere raggiunse il tavolo. Si avvicinò anche il titolare del ristorante e insieme a lui anche i clienti. C’era chi indicava qualche cosa che stava sotto, al di là delle finestre della veranda. Sotto, dove il mare di maggio cominciava a trasformarsi in mare estivo, più schiumoso di notte per fare vedere le trine bianche del suo nuovo vestito.
L’urlo era di una ragazza molto giovane e graziosa, ora accasciata sulla poltroncina e sorretta da un presunto fidanzato, quel che stava al tavolo con lei e che sicuramente le avrebbe offerto la cena.
Dopo alcuni minuti di confusione e l’inutile tentativo del titolare di fare riprendere il servizio come se nulla fosse accaduto, alcuni raggiunsero gli scogli, mentre tutto il borgo scivolava verso la scogliera dove un corpo di uomo nudo e bluastro, con molti segni di tagli e spaccature, di lacerazioni disgustose sulla testa, tra i capelli folti e fradici, sbatteva, provocando un rumore di morte ripetuta a ogni sbattimento.
Andava e veniva il cadavere, tra mare e terra, acqua e pietra, sbatteva la faccia ormai maciullata, si rilacerava ogni volta in qualche parte ancora intatta della pelle, o si feriva ancora più profondamente la carne decotta dall’acqua, laddove era già ferita.
Tre uomini illuminavano gli scogli. Altri due presero sotto le ascelle il poveretto, aiutati da un terzo che lo aveva stretto in vita, e lo sollevarono, gocciolante e molliccio, per adagiarlo su un materassino gonfiabile sistemato sulla spiaggetta tra due gozzi che non avevano preso il mare per la pesca notturna dei totani e dei polpi.
Un medico con ancora in mano un cono di gelato poco leccato, auscultò, pose l’orecchio sul torace, tastò il polso e le carotidi e sentenziò che non c’era assolutamente più niente da fare. Il cadavere era morto o se preferite il corpo apparteneva ormai a un defunto.
“Suicida” sentenziò troppo sbrigativamente il titolare del ristorante che fremeva per le gallinelle appena uscite dal cartoccio e a rischio di diventare fredde, mollicce e cadaveriche come il poveraccio che il parroco di Sant’Antonio, la chiesa che sta sopra Boccadasse, aveva benedetto e pietosamente coperto con un lino dell’altare.
Nella notte si erano accese nel borgo decine di telefonini, come candele a fare luce sulla tragedia di un disgraziato che decide di farla finita. Qualcuno dal ristorante scattava foto che andavano a sistemarsi subito dopo altre istantanee fatte a tavola e spedite ai parenti, il verde del pesto sulle trenette, i gamberi viola di Santa Margherita, la trippa rossiccia alla genovese… e a seguire un informe ammasso di muscoli ormai inutili, bagnati come coperte di lana appena lavate. Boca d’âze.
“U pa’ un purpu quande ti u sbatti in sci bordi du gussu pe ammoscialo…” commentò con realismo e scarsa pietas cristiana un pescatore locale.
Il rumore era proprio quello: splash e poi ancora splash.
“C’è la polizia!” si udì dalla stradina che collega Boccadasse con corso Italia e apparve una volante con due agenti perplessi.
“Non toccate niente” si raccomandarono. “Dove è il cadavere?” chiesero e furono subito accompagnati vicino al gozzo Marialuisa dove giaceva il polpo dalle sembianze umane o il morto dalle sembianze di cefalopode.
Il cellulare del vicequestore vibrò mentre con la signora Anna e l’amico libraio uscivano dalla Commenda di Pré, incantati dalla visita serale al palazzo.
“Genova non si è fatta mancare niente” commentò Falsopepe rivolto a Serravalle. Nemmeno il papato…”.
“Anche se in condizioni di emergenza per quattordici mesi e ventitré giorni…” aggiunse il libraio.
“Già e con un papa sanguinario che fuggiva da un antipapa e si portava prigionieri niente di meno che sei cardinali accusati di averlo tradito”.
“E chi lo aiuta mettendo a disposizione la sua flotta?” chiese Serravalle. Rispose Anna, ironica” Due genovesi con dieci galee”.
“Avevano la loro convenienza, sessantamila fiorini d’oro per salvarlo…”.
“Mi chiedo quando poi Urbano VI andrà via da Genova e ordinerà di uccidere i cardinali, sgozzandoli o buttandoli in mare, chi avrà portato a termine l’operazione. Che conflitto di competenze. Soldataglia genovese, i soldati del doge Antoniotto Adorno o i papalini? O i servizi segreti come oggi che te li trovi da tutte le parti e non sai mai che cazzo ci stanno a fare. Pronti a concludere le operazioni sporche che nessun altro vuole fare. Pensa oggi: la polizia o i carabinieri? La Digos, lo Sco o la solita Finanza che riesce sempre a mettere il becco da tutte le parti?”.
Finalmente rispose al dottor Acquafresca che chiamava da Boccadasse.
“Morto, ma non è un suicidio. C’ha il collo rotto, mollo. Certo potrebbe essere un esito della caduta. Sembra intatto. Però questo collo che gira come una trottola mi convince che glielo ha staccato qualcuno. Probabilmente con una mazzata. E il cadavere non è uno sconosciuto...”.
A Falsopepe gelò il sangue, Serravalle lo capì e salì verso la collina di Sarzano alla ricerca di un bistrò per una grappetta di ristoro.
“Grappa sia, poi andrò a vedere questo rompicazzo di nome e di fatto, col tuffo fatale di mezzanotte”.
Vercelli Vicentino, detto Vic, nato a Genova il 28 dicembre 1947 e ivi residente in Belvedere Montaldo 4 interno 7. Sposato e vedovo di Tentazioni Giulia. Senza figli. Giornalista professionista, pensionato, attualmente collaboratore di Radiostracci.
Acquafresca era stato burocraticamente preciso. Ma dopo le informazioni anagrafiche aveva aggiunto alcune sue osservazioni personali. Il lato più interessante del resoconto, perché il vice di Falsopepe era silenzioso e ombroso, ma molto intelligente e parlava solo se aveva da riferire qualche cosa di importante.
Per esempio disse che il suddetto Vic Vercelli era un giornalista d’attacco, un rompiballe, anzi qualche cosa di più: a volte sfiorava uno stile ricattatorio che, evidentemente, al pubblico affamato di giustizialismo, andava a genio, visti gli ascolti che raccoglieva. Che con la sua rubrica quotidiana delle 7:10, subito dopo il giornale radio, spaccava le palle a tutti i potenti della città, senza guardare in faccia nessuno, a destra, sinistra e centro. Che faceva inchieste forti, rognose, che dava fastidio, ma andava avanti inesorabile tutte le mattine dalle 7:10 alle 8:00 a spaccare le pulci a politici, imprenditori, faccendieri, fannulloni, prepotenti, magari a volte un po’ eccessivo nei toni, ma puntuale. Col suo telefonino riprendeva scene, (che postava sul suo blog), interviste, le chiosava, si collegava telefonicamente con ospiti ingombranti come lui che trasmetteva dagli studi di Radiostracci, chiamata dai genovesi Radiostrasse, dal Righi, dalla torre di una bella villetta Liberty a tre piani, dove aveva gli uffici la società Busterkeaton sas di Geo Frisch, imprenditore quasi ottantenne, anzi possessore di quote cospicue di un fondo che gestiva da Basilea il di lui fratello Herzog e con la mania dell’informazione che lo aveva portato, dalla nascita delle prime radio libere a fondarne una a Milano, poi ceduta, e una a Genova, appunto, affidandone la direzione a ex giornalisti d’assalto e di disturbo istituzionale andati in pensione, radicali doc, poi comunisti senza più casa politica, tutti pronti a fare le pulci alla città. E tutti rigorosamente di età avanzata. Quindi per lo più con ridotti freni inibitori e modeste esigenze economiche. Gente che se la radio fosse stata chiusa sarebbe finita ai bordi dei cantieri a rompere le balle ai geometri del Comune e agli operai al lavoro.
La città brontolava, si scandalizzava di tutto (“Politici ladri”, “mangiano solo loro alle nostre spalle” “Imprenditori che fanno affari con i politici” eccetera), ma alle 7:00 sintonizzava le radio sulla frequenza 96,7 per il radiogiornale (due al giorno realizzati da tre praticanti pagati) e la trasmissione di Vic Vercelli, Matto di mattina, inventata da quando il cronista era stato prepensionato dal quotidiano della città dove aveva imperversato per quasi quarant’anni. Poi nove anni di tormentoni, nove anni di zanzarate prendendo di mira uno e l’altro, piccoli e grossi, rossi e neri e ora i nuovi padroni. Da qualche mese la trasmissione si era fatta più tosta, come se Vercelli avesse molte cose nuove da raccontare che aveva saputo chissà come e da chi.
La voce che si trattava del radiocronista si diffuse nella notte boccadassina e raggiunse anche i tavoli del ristorante dove ormai pochi avventori concludevano una cena che non era stata per niente normale.
Arrivò il medico legale che confermò le supposizioni del dottor Acquafresca: morte per un colpo assestato sul collo da una mazza o da un bastone. C’erano segni di fratture anche al cranio. Difficili da procurarsi con una caduta. Morte non istantanea. Annegamento. Cioè perdita dei sensi, tramortimento e poi annegamento. Questa l’ipotesi più probabile. Presumibilmente due ore prima del ritrovamento del cadavere ancora non in stato di rigidità.
Arrivarono i cronisti di notte a far domande a Acquafresca che non rispondeva mai, rinviando al sostituto che li prendeva per il culo.
Il sostituto di turno, tal dottor Gaspare Spallino, firmò il nulla osta per la rimozione del cadavere, ma in quel momento arrivò il dottor Falsopepe che bloccò tutto per ricostruire le ultime ore della notte nel fastidio dell’anatomopatologo che a un tratto si allontanò. Allora i giornalisti circondarono Falsopepe costretto a rispondere: a un primo esame, ucciso con una botta alla nuca.
I cronisti: “Dava fastidio a mezza città, le inchieste spesso erano pretestuose…”. Giustificazione penosa assai da parte di un operatore dell’informazione. Falsopepe: “Sì, ma a volte ci ha azzeccato, per esempio con la storia dello scandalo Merimbon, il commercialista che soffiò alcuni milioni di euro a un centinaio di affezionati clienti. Ve lo ricordate? Non ne scriveva nessuno di questo Merimbon ragionier Cataldo che aveva fatto favoretti a molti genovesi, trasferendo euro e prima lire in alcune banche di Locarno e Lugano. Vercelli li ha fatti parlare tutti alla radio e ha messo su…”.
“Un gran casino” il sostituto si divertiva a rompere le balle ai cronisti “che ci ha costretti a intervenire di petto, con la Guardia di Finanza.” La stampa notturna e garantista tacque.
“Per me lo potete portare all’obitorio a meno che il vicequestore non voglia passare il resto della notte a tenergli la manina nella sua. Bonne nuit”.
Falsopepe pensò che il sostituto Spallino gli era simpatico, ma non avrebbe mai assicurato un colpevole alla giustizia.