Un tempo quello era stato uno degli alberghi più eleganti di Alassio, la sua architettura ricordava il Des Bains del Lido di Venezia, e sulle sue passatoie rosse s’eran posate le scarpette delle nobildonne di mezza Europa, bisognose d’aria di mare e di riposo, da cosa poi si dovessero riposare resterà un mistero. Poi il mondo era cambiato, da allora era successo un po’ di tutto, erano cambiati anche i gusti, sia dei ricchi che dei meno ricchi e l’illustre edificio s’era lentamente spento, aveva perso smalto, man mano che il ricordo dei fasti s’era affievolito nel passato. Per tanti anni aveva languito in uno stato di abbandono, un gigantesco rudere nel cuore della città, le finestre come occhiaie nere o coperte da assi inchiodate, avevano offerto una smorfia buia allo sguardo sempre identico del mare.
Adesso era diventato un palazzo signorile, un condominio per quasi ‘vips’, come diceva Ardelia, ma perlomeno l’aspetto esterno era nuovamente splendido, eran tornati i colori pastello, i giochi di luce impressionista sui graziosi poggioli, gli stucchi come guarnizioni di panna intorno ad una meringa. E proprio lì sotto aveva aperto la sua attività la galleria antiquaria, mobilia, quadri e tappeti, da lì era arrivato l’invito al vicequestore Rebaudengo e alla ‘frugamorti’ Spinola.
Era un sabato pomeriggio d’autunno recente, ma soltanto se si dava un’occhiata al calendario, perché se ci si contentava di metter fuori l’indice umido di saliva, come vecchi marinai, non si sentiva un alito di vento, l’aria era ferma e tiepida, nonostante il cielo grigio e le nuvole basse che nascondevano la montagna di ‘Cavia’ e quella della Madonna della Guardia. Maccaia d’inizio ottobre, umida e appiccicaticcia, come quella estiva, senza il calore dell’estate. L’imbrunire avanzava dolcemente ed i primi eleganti lampioni si stavano accendendo sull’ampia piazza Partigiani, da vil parcheggio a cielo aperto trasformata in parcheggio sotterraneo e pertanto meno vile, abilmente occultato da un giardino con aiuole dall’erbetta tenera e verdissima nonostante la stagione, panchine di legno ed un auditorium che durante l’estate era luogo d’incontri e d’iniziative turistiche. Poco distante troneggiava lo splendido albergo, che dopo una prolungata rianimazione, aveva ripreso vita sotto forma di condominio vista mare per eletti dal portafoglio pingue. E al piano terra dell’edificio, in uno sfavillio di luci calde, abile miscuglio di faretti e vecchi lampadari, ecco l’accogliente ingresso della galleria. C’era gente, qualcuno già fornito di flûte, qualcuno più interessato alla mercanzia. Ai lati delle pesanti porte spalancate stavano due ceffi che controllavano gli inviti e dietro gli abiti scuri di ottimo taglio, non sapevano nascondere la loro qualifica di buttafuori da discoteca. Fu un istante, un’incertezza impalpabile, più breve di un battito di ciglia, ma altrettanto evidente: le pupille del buttafuori di destra si restrinsero di qualche millesimo di millimetro quando lesse il nome e il mestiere di Bartolomeo, cosa che a lui non sfuggì. Era una reazione abbastanza comune e piuttosto condivisibile, tutti abbiamo un inconscio neanche tanto inconscio, infantile, che nelle forze dell’ordine avverte una specie di genitore severo che t’ha appena sorpreso con un dito nel naso. Tale reazione si manifesta nelle forme più svariate: la pupilla che si stringe, una lievissima dispnea durante la conversazione, un tono di voce troppo alto a simulare una disinvoltura che non c’è, una difficoltà a mantenere il filo del discorso, un eccesso maldestro di umorismo o di serietà, insomma una perdita di naturalezza. Il vicequestore era abituato a tutta la gamma di reazioni possibili e non si soffermava più di tanto ad analizzarle, però le notava sempre e tendeva a non dimenticarle, fino al momento in cui possedeva sufficienti elementi di conoscenza per poter escludere che quella persona avesse avuto o avesse ancora qualcosa da nascondergli. Anche in quel tardo pomeriggio novembrino notò e mise in archivio senza farsi troppe domande.
“Vedi, come ti avevo detto, Ardelia, è quasi tutta gente di Alassio, o perlomeno che ci abita”.
“Ma tu conosci tutti?”.
“Figurati. I miei uomini semmai, loro sì sanno chi sono i bravi e i cattivi, della maggior parte delle persone che ci sono qui dentro conoscono altarini e scheletri nell’armadio, se ne hanno, ma non per aver ficcato il naso nello SDI[1]: sanno tutto solo perché sono artisti nella raccolta e conservazione dei pettegolezzi, uditi al bar o dal barbiere, dalla parrucchiera se son donne, nella sala d’aspetto del dottore, dall’alimentari sotto casa. Io sono un po’ tagliato fuori, in parte perché non è molto tempo che dirigo questo commissariato, a Torino anche il mio stile di vita alla mobile era completamente diverso, e un po’ perché non amo la vita mondana. Se non avessi insistito tu, non so se sarei venuto, non è che ci muoia dietro a questi riti”.
“Quindi per te sono tutti illustri sconosciuti?”.
“Ho detto che sono ‘un po’ tagliato fuori’, non che sono Alice nel paese delle meraviglie. Quel che non conosco direttamente, l’ho imparato dai miei uomini e donne, insomma quel che c’è da sapere sta tranquilla che lo so”.
“E cosa c’è da sapere?”.
“Tutto, anche quello che in teoria non avrebbe nulla a che vedere con l’indagine poliziesca”.
“Quindi anche storie di corna?”.
“Perché no? Sesso e gelosia sono da sempre i motori di azioni criminali, sono i catalizzatori d’instabilità mentali o patrimoniali latenti. E poi non soltanto quello, bisogna sapere anche”, e cominciò ad elencare sulla punta delle dita: “rettitudine nei rapporti di lavoro e sociali, affidabilità, situazioni economiche, provenienza del denaro, presenza o meno di parafilie, uso di droghe, agganci e parentele, insomma un po’ di tutto…”.
“Certo che siete dei bei ficcanaso!”.
“Sai quanti casini più o meno gravi si potrebbero prevenire se si sapesse davvero tutto delle persone?”.
Chiacchieravano così, amabilmente, sostando di tanto in tanto davanti ad un trumò Luigi XVI, dedicando un pensiero ad una coppia di Savonarola di dubbia autenticità, apprezzando un armadio Luigi Filippo con una cimasa a cappello da prete, ornata da uno stemma araldico proprio nella curva del cappello, forse un felino di profilo con uno scudo a righe diagonali, chissà di che famiglia, e fregi sulle ante, un catafalco imponente e vagamente grottesco, e finirono facendo lo slalom tra una famigliola di ‘bordigotte’, delle sedie lavorate a nodo d’amore.
“Quello non è male”, dichiarò Ardelia indicando un trittico comò e comodini. “Sai, sono di Peters”, aggiunse con aria compita.
“E chi era Peters?”, chiese Bartolomeo consapevole che la curiosità era d’obbligo.
“Un ebanista che aveva bottega a Genova”.
“Ma tu te ne intendi di quest’anticaglia?”.
“Un pochino…”, ammise con falsa modestia “e tu?”.
“A me vanno bene anche i mobili dell’Ikea, basta che siano funzionali e non si disfino, il problema più che altro è questo. Sai, io provengo da una famiglia contadina, con il boom economico i pochi mobili di pregio, roba dell’ottocento, li hanno buttati via per far posto a quelli di formica. Poteva capitare questo negli anni sessanta tra le persone che non avevano il supporto di una cultura non dico profonda e raffinata, ma nemmeno media. Gente onesta, per l’amor di Dio, ma con i suoi limiti. Non c’era cucina che non fosse illuminata da un bel tubo al neon, incastrato in una lampada a forma di finto lume”, e non raccontava con vergogna o rammarico, ma con il tono delle cose ovvie, sulle quali c’è poco da stupirsi.
“Voi invece, intendo tu e la tua famiglia, siete riusciti a conservare?”, domandò mentre si allontanavano dal comò dell’ebanista inglese, forse, con bottega a Genova.
“Qualcosa sì e qualcosa no. Avevamo una vecchia casa, dalle parti di Ovada, di provenienza materna: lì sì che c’era della roba bella, ma ci sono state questioni infinite sull’eredità e ti capita sempre il parente più dritto che va a prendersi i pezzi migliori ancora prima del funerale”.
“Dottor Rebaudengo, dottoressa Spinola!”, declamò una voce maschile ben impostata con accento lievemente padano, anche se era difficile capire l’esatta provenienza. Si voltarono entrambi e videro avanzare un tizio suggestivo. In realtà la faccia era anonima, come migliaia se ne possono incontrare lungo i marciapiedi, ma l’abito di taglio perfetto, che poteva essere un pezzo di sartoria di vecchia scuola o un prêt-à-porter di Valentino, la cravatta, il fermacravatta, i gemelli, l’abbronzatura esprimevano la ferma volontà di costui di apparire personaggio ancora prima che persona. Naturalmente non mancavano i capelli castani curati dal top della barberia, lunghi fino alle base del collo, ma trattenuti in una coda da un nastrino nero invisibile e, per finire la paranza, il tipo incedeva a mano tesa, come una specie di proboscide, ostentando l’ospitalità del perfetto padrone di casa.
“Vincenzo Buscemi, piacere! Ci tenevo molto ad avervi in questo momento! Mi hanno tanto parlato di voi: dopo il caso Di Blasi siete diventati una celebrità!”.
“Mi permetta di dissentire, signor Buscemi”, interruppe Ardelia con voce di flauto dolce, “Forse il dottor Rebaudengo, ma io non credo di essere assurta agli onori della cronaca!”.
“Ma carissima dottoressa Ardelia, permette che la chiami così?”, domanda alla quale Ardelia rispose con una delle sue facce inespressive che a Bartolomeo piacevano tanto, “non ha idea di quanto l’immagine del medico legale sia entrata nell’immaginario collettivo!”.
“No, mi sa che non ce l’ho. Una volta non eravamo molto più simpatici dei becchini…”.
“Ma cosa dice, carissima dottoressa: i becchini, ah! Spiritosissima! Vuol mettere la professionalità, il coraggio! Una donna così bella!”.
“Sul bella non so, veda lei, sul professionale, sì e ci tengo, sul coraggio direi di no; sono di stomaco buono e aprire un cadavere mi fa lo stesso effetto che fa a lei aprire un vecchio armadio di sacrestia: mi racconta una storia e i morti non mentono mai”.
Il signor Buscemi rimase un attimo come sospeso, con la bella bocca a ‘o’, di sicuro non era riuscito a capire se l’ospite avesse scherzato o avesse parlato sul serio, in questi casi si procede oltre, facendo finta di niente. Fu subito salvato, quasi come per una regia invisibile da un ‘Vinceeenzooo’, modulato in tonalità di controfagotto.
Da quando erano entrati in quel luogo avevano avuto la sensazione di trovarsi in un giardino tropicale, ed erano gli abiti femminili che creavano la suggestione: c’erano donne-uccello e donne-fiore, in un miscuglio di colori e profumi che faceva girare la testa. Non c’era chiasso, ma un sommesso parlottio di gente elegante. In un punto dell’ampia sala, questa folla tanto garbata fu come percorsa da un moto ondoso, molte persone si spostarono per favorire un transito, l’implacabile avanzamento della socia del signor Buscemi, che puntava verso di loro con tenacia di rimorchiatore. Un attimo prima che riducesse la potenza dei motori, i due invitati furono travolti dall’onda del profumo.
“Vincenzo!”, ripeté la signora, che ricordava un fusto di petrolio, avvolto in un drappeggio barocco di fiori stampati sulla seta arancione, una roba terrificante quanto costosa. “Vincenzo, ma non hai ancora introdotto i nuovi amici in mezzo ai noi! Ma che disastro! Dottor Rebaudengo, e lei caaara dottoressa Spinola, la nostra Crossing Jordan, vede mai la serie tv?” poi senz’aspettarsi una risposta riprese: “ Oh deliziosa, ma venite qui, un bicchiere di champagne, subito qui! Adelmooo!”. Ed in quel momento Ardelia ebbe il sospetto atroce che l’idea d’insistere per andare al vernissage non fosse stata furbissima.
“Ah cara, dottoressa, io sono Persefone Fumagalli, qui ad Alassio mi conoscono tutti! E lei di nome come si chiama? Sa, tra amici non ci curiamo di cognomi e titoli!”.
“Ardelia”, sospirò, perché già sapeva quale sarebbe stato il copione.
“Ardelia?”, domandò la divina Persefone in un turbine di Chanel n°5.
“Eh sì, Ardelia: è così che a suo tempo mi chiamarono!”.
“Ma cara! È meraviglioso! In un mondo di Deborah con la h, di Jessica con la J e di Samantha con il th, chiamarsi Ardelia è un modo delizioso per distinguersi da questa massa informe. Anche se non dubito che lei abbia ben altri numeri per distinguersi”.
“Chissà…”, sospirò la povera dottoressa Spinola, trascinata a braccetto dalla vivacissima Persefone che nonostante il nome sprizzava vitalità dai tutti i pori, verso un capannello di uccelli tropicali che stava visibilmente attendendo il momento delle presentazioni. Prima di naufragare nell’accoglienza, lanciò un estremo sguardo supplice al suo amore e lo vide immerso in una frenetica attività di strette di mano e di lievi assensi del capo, quasi accenni d’inchino di gusto un po’ nipponico. Le stava dando le spalle ed in mezzo a quei signori, visibilmente professionisti in abito da pomeriggio, avrebbe avuto il suo daffare per un po’.
Lei conobbe le signore importanti di Alassio, donne che dietro l’aria da volatili, avevano caratteri d’acciaio e capacità imprenditoriali, commercianti da generazioni, albergatrici o ‘semplici’ mogli, ‘semplici’ si fa per dire, visto che Ardelia riteneva che dietro alla maggior parte dei successi maschili ci fosse una donna con le palle. Dopo le notabili, le transitarono davanti figure un po’ meno solide, più trasparenti, più tremule, più che lievi, tristi, come alla ricerca di un posto dove stare e di qualcosa da fare o da dire: le depresse coi soldi, che non sono molto diverse dalle depresse senza i soldi, le quali naturalmente hanno in più lo svantaggio di essere, appunto, senza soldi, ma tutte sono creature con grandi vuoti da riempire, con i loro mali da curare. Sono diversi i metodi di cura tra le une e le altre, ma gli insuccessi sono uguali.