Più buono, con lei, è il fratello Andrea. Ecco che, quando le due sorelle sono già anch'esse avviate a scuola, il ragazzo scende, ma disdegna di prendere il caffè e latte; roba di donnicciuole, dice. Lui mangerebbe già una fetta di carne rossa mezzo cruda, e non essendoci questa si contenta di tirar giù il canestro dei servi e rosicchia coi suoi forti denti il pane duro e una crosta di formaggio. Nanna gli va appresso supplichevole, con la tazza colma in mano: poiché questo Andrea è il suo idolo maggiore, il suo affanno e la sua preoccupazione.
— Mi sembri un pastore, — dice, mettendogli davanti la tazza. — Prendi questo; prendi, agnello; il maestro ti sentirà l'odore di formaggio.
— E lui, chi è? Io sono un pastore ricco, ma lui è un povero accattone, un ubriacone pidocchioso.
Così parla Andrea del suo professore di latino; e lo dice con convinzione poiché tutta la gente che vive di lavoro intellettuale è per lui più povera dei mandriani e dei manovali.
La sua mentalità è davvero da ricco pastore, che fa una vita rude ma ha bestiame, terre e denaro; e sopra tutto libertà di azione, tanto per il bene come per il male. Anche la sua persona è tozza, squadrata, le vesti trasandate; ma la testa è caratteristica, possente, tutta capelli nerissimi; il profilo è camuso, con le labbra sensuali; gli occhi d'un grigio dorato, corruscanti come quelli del falco. Non ama lo studio, ed è felice solo quando può scappare di casa, a cavallo, come un centauro adolescente. Nessuno gli ha insegnato a cavalcare: eppure egli monta anche senza sella sui puledri indomiti, e i suoi urli per aizzarli gareggiano coi loro nitriti.
Nell'accorgersi di Cosima, che se ne stava quieta seduta su una seggiolina bassa, con la scodella in grembo, le sorrise e prima di uscire le si avvicinò dicendole sottovoce, con un accento sommesso di complicità:
— Domenica ti porterò, a cavallo, al Monte: ma zitta, eh!
I grandi occhi di lei si aprirono, lucenti di gioia e di speranza: e questa promessa del fratello, piena di lusinghe e di visioni straordinarie, si mischiò alle sue fantasticherie, intorno al mistero della creatura nata quella notte in casa, venuta non si sa di dove, come, né perché.
Questa nascita, inoltre, portava un certo cambiamento di vita. Le due sorelle maggiori dovevano sistemarsi nella camera alta, per lasciare posto, nel letto di Nanna, a lei Cosima, e alla piccola Beppa che ancora dormiva nella culla in camera dei genitori. Beppa aveva circa tre anni, ma ne dimostrava di meno e ancora non parlava bene perché aveva la cartilagine sotto la lingua più corta del solito: e si parlava di fare un piccolo taglio per sciogliere la lingua dal suo impaccio.
Ecco che anche lei fa comparsa in cucina, portata a mano dalla nonna. La nonna non viveva con loro ma aveva passato la notte in casa per assistere, lei, col solo aiuto di Nanna, la figlia partoriente. E tutto era andato bene, senza strepiti, senza disordine. Adesso la puerpera e la bambina riposavano, e anche il padre, che aveva vegliato tutta la notte leggendo o passeggiando silenzioso nella camera attigua a quella della moglie, s'era addormentato su un vecchio sofà.
La nonna invece non sentiva il bisogno di dormire, sebbene fosse una piccolissima donna fragile, quasi nana, con mani e piedi da bambina; e anche gli occhi color nocciola, con lunghe ciglia nere, erano pieni d'innocenza, come mai avessero veduto l'ombra del male. Una cuffietta di panno nero le raccoglieva i capelli già bianchi, ma qualche ricciolo scappava sulla nuca e sulle orecchie, e le dava un'aria sbarazzina. Le nipotine la consideravano come una loro eguale, mentre avevano suggezione della madre, e Cosima provava uno strano senso di sogno quando la vedeva comparire d'improvviso. Ma più che di sogno era un senso fisico di ricordo inafferrabile, una lieve vertigine, come un baleno sanguigno, che più tardi ella si spiegò col crederlo un affiorare e subito di nuovo sommergersi di vita anteriore rimasta o rinata nel subcosciente. La nonna, poi, le ricordava, – ma questo un po' volontariamente, – certe donnine favolose, o piccole fate, buone o cattive secondo l'occasione, che la leggenda popolare affermava abitassero un tempo in piccole case di pietra, scavate nella roccia, specialmente negli altipiani granitici del luogo. E queste minuscole abitazioni preistoriche esistevano ed esistono ancora, monumenti megalitici che risalgono a epoche remote, chiamati appunto le Case delle piccole Fate.
La nonnina prese il caffè, fece mangiare e poi lavò la piccola, e infine mandò la serva a fare la spesa: spesa presto fatta, poiché in casa c'erano tutte le provviste, compreso il pane, e non si trattava che di comprare la carne per il brodo, o un po' di pesce, se per caso raro venuto dalla spiaggia orientale dell'isola.
Cosima, con la sua scodella vuota, era incerta se seguire la serva nella breve uscita mattutina, o eseguire un suo progetto. Voleva penetrare nella camera della mamma e vedere la bambina; profittò quindi del momento in cui la nonna attingeva l'acqua dal pozzo, per infilarsi nelle scale silenziose. Dopo la prima rampata, tutta di scalini di granito, su un piccolo pianerottolo si apriva l'uscio di una specie di dispensa, col pavimento di legno e il soffitto, come quello della cucina, di canne che formavano un graticcio solido e fresco. Di solito l'uscio era chiuso a chiave: questa volta, nella confusione della notte, era stato lasciato aperto. E prima di proseguire verso la sua mèta, Cosima non esitò ad esplorare la grande stanza, che anch'essa rappresentava per lei un ripostiglio di misteri. E ce n'era ragione: poiché le cose e gli oggetti più disparati stavano raccolti là dentro, in una vaga luce che penetrava dallo sportello di una finestra tutta d'un pezzo, aperto su un lontano sfondo di orizzonte montuoso.
Mucchi di frumento, di orzo, di mandorle, di patate, occupavano gli angoli, mentre una tavola lunga era sovraccarica di lardo e di salumi, e intorno i cestini di asfodelo pieni di fave, fagiuoli, lenticchie e ceci, facevano corte agli orci di strutto, di conserve, di pomidori secchi e salati. Ma quello che più attirava la bramosia di Cosima erano alcuni grappoli d'uva e di pere raggrinzite che ancora pendevano da una delle travi di sostegno del soffitto: un'ape, o una vespa che fosse, vi ronzava intorno beata, mentre a lei non era permesso di toccare un acino: sapeva però che c'era una canna, spaccata in cima, per staccare il giunco che legava i grappolo e tirarli giù in salvamento: la trovò, dietro l'uscio, la sollevò come lo scaccino quando accende in alto le candele: l'ape volò via, un grappolo fu afferrato, ma a metà discesa scappò dei denti della canna, cadde, si sciolse sul pavimento come una collana rotta. [2] Sulle prime ella si sbigottì; poi pensò che la mamma, la più severa della casa, non poteva accorgersi del piccolo disastro; e con una pazienza di volontà che lei sola possedeva, raccolse uno per uno gli acini, li mise dentro il suo fazzoletto, fece sparire i raspi e il giunco, ripose la canna, e quando ogni traccia del danno scomparve, pensò che sarebbe anche lei stata buona, come sentiva raccontare dai servi quando ritornavano di campagna, a commettere un furto, un abigeato, e farne sparire le traccie in modo che nessuno avrebbe mai sospettato il vero colpevole.
Queste fantasie barbariche non le mancavano nella mente; ma erano gli stessi servi e gli altri paesani che frequentavano la casa, e spesso anche i borghesi, i parenti, gli amici del babbo, gli ospiti che venivano dai paesi dei monti e delle valli, a seminarle nei fanciulli curiosi e sensibili coi racconti delle avventure brigantesche che allora fiorivano come un residuo di imprese e di guerriglie medioevali, in un raggio di chilometri e chilometri intorno. Con questi fermenti, i ragazzi però venivano su anche coraggiosi, pronti a combattere coi malviventi, e le ragazza, anche se piccole, come Cosima, avevano già istinti di amazzoni. La educazione materna, tutta religione e austerità, smorzava fin che poteva la vivezza interiore dei figli; e più ancora avrebbe fatto quella paterna, poiché il capo della famiglia, il signor Antonio, era l'uomo più mite e giusto della regione: ma egli era troppo occupato nei suoi affari, spinto dal bisogno di assicurare una solida agiatezza ai figli, per potersi dedicare anche alla loro ricchezza spirituale. Li mandava a scuola, è vero, e in sua presenza essi, sia per rispetto e affetto naturali verso di lui, sia per ipocrisia, si mostravano buoni e beneducati.
Cosima, poi, sentiva per lui un senso sconfinato di confidenza e qualche volta anche di ammirazione. Non si preoccupò, quindi, nel vederlo apparire in alto, sul pianerottolo del primo piano, mentre ella saliva il secondo rampante delle scale. Adesso gli scalini erano di lavagna, bene illuminati dalla finestra del pianerottolo: e questo era grande come una camera, con un armadio a muro ricoperto da una tendina di percalle, la macchina da cucire e alcune sedie; e vi si aprivano gli usci della camera matrimoniale e di un'altra che serviva anch'essa per gli ospiti, quando erano più di uno, il che avveniva spesso. Da questa camera, che era la meglio arredata della casa, con due finestre, una sulla strada l'altra sul cortile, il sofà e un tavolino rotondo intarsiato di legno bianco, usciva appunto in quel momento il signor Antonio, fermandosi ad origliare all'uscio della moglie. Nell'accorgersi della piccola Cosima le accennò di non far rumore: ed ella si fermò appoggiata alla parte della scala, intimidita ma non troppo. Il babbo era sopra di lei; le sembrava alto, quasi gigantesco, mentre invece era piccolo e un po' grasso. Ma se le gambe erano corte, il busto era forte, grande, e la testa grossa, calva, con una ghirlandina di ricciolo già grigi che dalle orecchie rosee pendeva intorno alla nuca possente. E anche il viso sembrava a Cosima il più straordinario di tutti quelli che conosceva: un viso in realtà pieno di carattere, con la fronte alta, il naso corto a scarpa, la bocca piccola e stretta fra il grande labbro superiore e il mento quadrato. Glabro ma sempre con un po' di prepotente peluria sulle guancie larghe, aveva, quel viso semplice di paesano diventato borghese, i segni e i solchi di una intelligenza e di una saggezza non comuni; e gli occhi grigi o azzurri o verdastri secondo la luce del momento, potevano essere quelli di un santo ma anche quelli di un guerriero. In quel momento erano azzurri, quasi riflettendo il colore del cielo sopra la finestra, e ammiccavano infantilmente verso la bambina appoggiata alla parete; ma subito si fecero grigi, poiché nella camera si udiva un vagito.
Allora accennò a Cosima di salire e aprì l'uscio. La bambina si sentì battere il cuore. Come faceva il padre a indovinare il suo desiderio? Si trovò nella camera, dietro di lui, e rivide le note cose: il letto grande con una sopracoperta di percalle a fiori, la consolle di noce, che era il mobile più elegante della casa, i quadri, il caminetto bianco: ma tutto le parve mutato, come se una luce di miracolo avesse dato alle cose un aspetto diverso, d'incantamento, come quando si vedono riflesse nell'acqua od anche sui vetro spalancati di una finestra; e quel riverbero si spandeva da una fonte straordinaria: da un canestro di asfodelo, deposto sulla pietra del camino, e dove, fra cuscini e pannolini, era la neonata. Fasciata con le manine dentro, come allora si usava, aveva la testina coperta da una cuffietta di trina rosa; e da questa cuffietta il viso rosso, gonfio, con la bocca già spalancata al pianto, dava l'idea di un boccio che si spacca per fiorire. Per Cosima fu una delusione: poiché ella si era immaginata la nuova sorellina già tutta ricciuta, bionda e levigata come il bambino che nel quadro sopra il letto era tenuto in braccio da un bonario e rossastri san Giuseppe, e da qualunque parte lo si guardasse volgeva gli occhioni celesti come un pargolo vivo.