1.
La pioggia cade a scrosci violenti e, aiutata dalle raffiche di vento, schiaffeggia la finestra al quarto piano della Questura. L’ufficio del vicequestore Ettore Salvaneschi è asettico, impersonale.
C’è odore di disinfettante e credo che i granelli di polvere stiano lontani da questa stanza per evitare degli attacchi di solitudine e depressione. L’ordine è quasi maniacale e non c’è nulla che possa far capire qualcosa del suo abituale inquilino. Sono qui dentro da più di due ore, Salvaneschi mi ha già fatto e ripetuto le stesse domande almeno quattro volte. Le risposte non sono cambiate.
Penso con il magone all’ufficio che ero abituato a frequentare, solo due porte prima nello stesso corridoio: quello del mio amico Guido Rocchetti. Un coacervo primordiale di gagliardetti sportivi, katane, fogli sparpagliati sulla scrivania e pacchetti accartocciati di Emenems. Guido adesso è latitante da quasi due settimane. Latitante. Questa è la parola che viene utilizzata sui giornali per definirlo. Dicono che è un poliziotto corrotto. Che da anni prende soldi per coprire immigrati clandestini, fornire loro falsi permessi di soggiorno e documenti d’identità contraffatti.
Ve lo dico da giornalista: i quotidiani scrivono un sacco di fesserie. Non di certo quello di cui io sono direttore, per carità. Del caso Rocchetti non ho mai permesso di scrivere. Avrei potuto tenere questa linea solo per amicizia, è vero. Sono ancora uno di quegli illusi che crede a certi futili valori. Il punto però è che non mi bevo mezza delle accuse che gli vengono mosse, per tanti motivi. Il più importante dei quali è che le mie non sono sensazioni, né il frutto di acute deduzioni. Io so che è tutto falso. So che l’hanno incastrato. E so anche chi.
Alcuni mesi fa mi sono infilato nel solito “casino marchiato De Foresta”1, come avrebbe detto lui. Una brutta storia di droga, finita con una banda di senegalesi sgominata, un sacco di morti e nessun colpevole in galera. L’indagine ci aveva portato a una delle famiglie della ’ndrangheta più pericolose della Liguria, il clan dei Lo Nardo. Io ero riuscito a salvarmi per un pelo, avevo promesso a Guido di non ficcare più il naso in quella storia e così avevo fatto. Lui nel frattempo aveva continuato l’indagine sotto il massimo riserbo. Ecco, le sue ricerche non sono rimaste a lungo segrete a quanto pare. Sospettavamo già che ci fosse una talpa in Polizia, la stessa che era alle spalle della banda di senegalesi e che la aiutava a fornire false identità a immigrati clandestini. Curioso che adesso le colpe ricadano proprio su Guido. La talpa, a quanto pare, sa come muoversi e ha dei complici.
Salvaneschi rientra nel suo ufficio, questa volta assieme a un agente che conosco molto bene. L’ispettore Valdata ha sia la barba sia i pochi capelli a chierica ricci e bianchi, e occhi azzurri che mi fissano, lucidi, con nostalgia. Lui è sempre stato la vittima designata di Rocchetti, l’urlo “Valdata, e che cazzo!”, accompagnato dalle più fantasiose minacce, era una costante delle giornate in Questura di Guido. I nostri sguardi si incrociano, vorrebbe sorridermi. Racchiude le sue intenzioni in una lieve smorfia con l’angolo della bocca. Un “Su, Valdata, per favore, non stia lì fermo come un palo, prenda una sedia e si metta a scrivere” del vicequestore lo scuote. Lui si siede e tuffa lo sguardo sul portatile, che sistema sulle ginocchia.
Salvaneschi si accomoda alla sua postazione, spolvera con un kleenex la superficie della scrivania, poi getta il fazzoletto nella spazzatura. È uno spilungone slavato, quasi emaciato. Ha capelli castani corti e porta appiccicato sulla pelle un dopobarba fresco ma fastidioso per quanto è penetrante.
“Allora, dottor De Foresta, tutto bene? Scusi se l’ho fatta attendere ancora”, mi dice con sorriso mellifluo.
Come se fossimo qui per due chiacchiere tra amici. Finge così bene di essere cordiale che temo mi possa chiedere se vado di corpo con regolarità, se ho una vita sessuale appagante, se sono felice dei risultati della mia squadra. Meglio rompere subito l’idillio, prima che mi venga voglia di raccontargli del callo sotto al piede destro che mi perseguita da mesi.
“Apprezzo il suo sforzo di risultarmi simpatico dottor Salvaneschi, ma può anche evitarlo. E andiamo al sodo. Sono due ore buone che mi trovo qui. Se sono indagato per qualcosa ho diritto al mio avvocato”.
Salvaneschi si toglie dalla faccia lo sguardo del buon vicino, tira indietro la testa e si sistema i polsini della camicia.
“Come vuole. Speravo che ci si potesse limitare a uno scambio di informazioni in modo civile. Senza tirare a mezzo la legge e gli avvocati”.
“Curioso, detto da un vicequestore al direttore di un quotidiano. Comunque, no. Non si può più. Si poteva due ore fa, alla prima. Mi spiace”.
“E sia. Se l’ho convocata è per interrogarla come persona informata sui fatti. È un interrogatorio per il quale non serve la presenza del suo legale. Può certamente evitare di rispondere alle mie domande. Ma sa com’è, sarebbe sciocco da parte sua”.
“Mi sembra di averle già risposto, e più di una volta”.
“Evidentemente sono duro di comprendonio. Quindi ho ancora qualche domanda da farle. Dubbi che mi assillano, sa com’è”.
“E quali sarebbero queste grandi domande che la tormentano e per le quali io avrei le risposte giuste?”, gli chiedo. “Se esiste un Dio? Da dove veniamo? Dove andiamo? O forse era: chissà che fine ha fatto la prostituta rumena che ho fermato un po’ di tempo fa?”.
Guido mi aveva raccontato questa simpatica storiella di Salvaneschi: aveva sorpreso il suo collega e la prostituta in posizione poco adatta a un interrogatorio.
A Valdata scappa un colpo di tosse molto vicino a una risata e gira la testa, a quanto pare anche lui è a conoscenza della storiella. Credo che detesti questo burocrate quanto il mio amico Guido. Salvaneschi lo fulmina con gli occhi, si aggrappa con le mani ai braccioli della poltrona e serra la mandibola. Lo so, ha tanta voglia di picchiarmi. Ma non può. Respira a fondo e si calma.
“Quando ha sentito Rocchetti l’ultima volta?”, scandisce le parole con tono perentorio.
“Ah, di nuovo? Allora vedo di variare la risposta. Suppongo lo sappia già visto che il cellulare di Guido era di sicuro sotto controllo”.
“Voglio sentirlo ancora da lei”.
“Se si accontenta di così poco... Il giorno in cui è sparito mi ha telefonato per dirmi che lo avevano incastrato. E mi ha chiesto di andare da sua moglie per dirle che è innocente. Che la ama. Che tutto si sarebbe sistemato. E se le interessa saperlo, così ho fatto. Due giorni dopo”.
“E da allora? Non ha avuto più sue notizie?”.
“No”.
“E sa dove potrebbe essere andato?”.
“So che si è diretto nel sud Italia. Così mi ha detto al telefono. Ma non ha aggiunto altro”.
“E lei ha idea per fare cosa?”.
“Escludo un incontro segreto con Babbo Natale. Per il resto, no”.
Salvaneschi fissa la superficie della scrivania, arriccia le labbra e resta in silenzio. Cerca nella testa qualche domanda per potermi incastrare, ma non si rende conto che è impossibile. E non è certo perché io sia bravo a mentire. Ho solo detto la verità.
“E quando è andato dalla moglie di Guido Rocchetti, che vi siete detti? Le ha dato qualcosa?”.
“No. Ho solo riportato il messaggio di suo marito. Lei mi ha ringraziato, mi ha offerto un caffè che io non ho accettato perché mi sentivo in imbarazzo. Non le sono mai stato molto simpatico”.
“E come mai?”.
“Eh, quando tuo marito si prende per due volte del piombo per colpa di qualcuno, quel qualcuno non sale di tanto nella tua classifica della simpatia”.
“E come è finito il vostro incontro?”.
“Come era iniziato. Con una stretta di mano. Cinque minuti dopo essere entrato in casa loro, ne sono uscito”.
“E non le ha dato niente?”.
Mi stanno girando.
“Senta: no, non mi ha dato nulla. Può chiedermelo all’infinito fino a domani mattina. La risposta, le risposte, sono sempre le stesse. Non ho più sentito Rocchetti, alla moglie ho riportato quanto mi ha detto suo marito e lei non mi ha dato niente. Adesso posso andarmene? Perché o mi indaga e quindi chiamo subito il mio avvocato, oppure la saluto, arrivederci e grazie”.
Salvaneschi alza le mani fingendo la resa e ingarbuglia il viso in una smorfia di disgusto.
“Nessuno la trattiene qui. Abbiamo finito. Se avessi ancora bisogno di lei, però, sappia che la riconvocherò qui in Questura”.
“Come crede. È suo potere farlo. E lei sappia che le mie risposte non cambieranno. Quindi al limite trovi nuove domande. O magari gliele farò io, come giornalista. Le prostitute rumene fanno sempre vendere qualche copia in più”.
Il vicequestore mi fissa. Serra di nuovo la mascella, i suoi occhietti si trasformano in due serpi viscide e gelide che vorrebbero morsicarmi le giugulari.
“Buona giornata dottor De Foresta. Sa com’è, mi spiace che siamo partiti con il piede sbagliato”.
“Anche a me. Il piede giusto sarebbe stato evitare di credere a tutte le porcate su Rocchetti. Ma, forse, a qualcuno fa comodo. Carriera spianata, eh dottor Salvaneschi?”.
Lui sbatte la mano sulla scrivania e si alza in piedi.
“Non le permetto di usare questo tono con me. Non una parola in più o la faccio fermare. Valdata, accompagni questo signore all’uscita”.
Salvaneschi si gira verso la finestra, l’agente si alza e mi fa strada dalla porta. Percorriamo i pochi metri di corridoio assieme.
“Non ha notizie di Rocchetti per davvero?”, mi bisbiglia.
Mi guarda preoccupato. In lui vedo tutto l’affetto per quello scorbutico e arrogante romanaccio. Temo che possa essere una trappola per farmi parlare. Mi rendo conto che se così fosse, Valdata dovrebbe fare l’attore a Hollywood e non certo il poliziotto.
“No, Valdata. No davvero. Vorrei. Ma è sparito. E quello di là? Ha notizie? Com’è la situazione di Rocchetti?”.
All’ascensore aspetta che un loro collega sfili dietro di noi e gli sorride. Quando saliamo in ascensore siamo soli, lui sospira e si gratta la testa.
“Ci sono stati movimenti con la sua carta in Calabria. Ha prelevato una grossa somma quindici giorni fa. Il suo cellulare si è attaccato ad una cellula in Sicilia cinque giorni or sono. Da allora, nessuna novità”.
“Non le sembra un po’ stupido da parte di Guido?”.
“Molto stupido. Il dottor Rocchetti non commetterebbe mai errori del genere. Ma qui ci sono idioti che abboccano”.
“E quindi? Che idea si è fatto?”.
“Non lo so. Ha in testa qualcosa. E per come lo conosco non è uno che molla. O sbaglio?”.
“No, non sbaglia. Il problema è capire come possiamo aiutarlo”
“Non possiamo al momento. Hanno carte in mano che lo inchiodano. Passaggi di identità, documenti contraffatti con la sua firma. Modifiche al database dell’immigrazione con le sue credenziali”.
“Altre idiozie che lui, anche volendo, non commetterebbe mai”.
“Già”.
Arriviamo all’uscita, Valdata mi tende la mano e mi guarda serio.
“Spero che possa vedere in me un alleato, dottor De Foresta. Se potessi esserle utile per aiutare il vicequestore Rocchetti, conti pure su di me”.
Prende un pezzo di carta e una biro, mi scrive il suo numero di cellulare e me lo infila nel taschino dei jeans.
“La ringrazio. Guido si è sempre fidato di lei, sa? È fatto così. Insulta solo le persone a cui tiene”.
Lui accenna un sì con la testa. “Lo so”.
Esco dalla Questura, la pioggia si è attenuata di poco e il vento sferza le strade sulle quali compaiono grosse pozzanghere dovute alle tre ore di acquazzone. Mi sistemo il colletto della giacca impermeabile per evitare che l’acqua mi entri nella schiena. È già buio. Con tutte le preoccupazioni che mi girano nella testa e la voglia di strozzare Salvaneschi, mi rendo conto di aver perso la nozione del tempo. Prendo il cellulare dalla tasca per controllare l’ora. Rimango impietrito; e le cinque chiamate perse di Barbara mi ricordano che questa sera dovevamo cenare tutti e tre insieme. Sono le sette e venti, spero che non sia troppo tardi. La chiamo e mi risponde al secondo squillo.
“Ah, ci sei allora”, mi dice.
“Sì. Scusami, hai ragione. Mi sono perso dietro al lavoro. Siamo ancora in tempo, vero?”.
“Se ti sbrighi, sì. Io e Margie siamo appena entrate al ristorante”.
“Allora arrivo”.
Clic.
Cinque secondi al telefono con Barbara e quasi quasi rimpiango l’ufficio di Salvaneschi.