5.
Mbeye Dienke, detto Bob. Era una specie di capo per la comunità senegalese qui a Genova. Lo chiamavano il Griot: una parola africana con la quale si indica la guida spirituale. Ma Bob non era solo il griot. Era laureato in Farmacia e gestiva una comunità clandestina per aiutare i giovani a disintossicarsi dalla droga. Usava la radice dell’iboga, una pianta africana con molte proprietà. Il suo estratto, l’ibogaina, è un potente allucinogeno in grado di combattere le dipendenze.
Purtroppo la sua comunità è stata spazzata via. Suo figlio Ordoby lo aveva tradito, alleandosi con una potente famiglia mafiosa che ha gettato le sue malsane e intricate radici in Liguria: i Lo Nardo. Assieme a loro Ordoby non solo gestiva un laboratorio clandestino per cucinare metanfetamine: portava avanti un’altra bella serie di schifezze. Ad esempio, lui e i Lo Nardo fornivano copertura e documenti regolari a immigrati clandestini, pericolosi e violenti, grazie anche a un misterioso complice in Questura. Lo stesso che ha incastrato Guido e che ha avvertito i Lo Nardo di dove e quando colpire Bob. Io e Guido arrivammo troppo tardi quel giorno; Bob morì tra le mie braccia e mi sussurrò una parola: Wehrmacht. E ora, a quanto pare, Guido ne ha scoperto il significato.
“Insomma, vuoi tenermi sulle spine ancora tanto?”, gli chiedo.
“Un po’ sì. Me piace vederti fremere come un cagnetto contro un palo, Matté”.
“Noto che la pancia piena ti ha fatto tornare il senso dell’umorismo. Me lo dici?”.
“Ok, ok. Ma ti faccio una premessa. Per un bel po’ pensai fosse una parola collegata al traffico della metanfetamina. Durante la seconda guerra mondiale i capoccia tedeschi utilizzavano una metanfetamina per drogare i soldati della Wehrmacht. Si chiamava Pervitin, ed era più o meno lo stesso principio attivo della robaccia che i negri e i Lo Nardo cucinavano in quel palazzo. Così ho perso un sacco de tempo convinto che Bob ci volesse solo avvisare del pericolo”.
“Quale?”.
“Eh, che i Lo Nardo esportassero la metanfetamina in un qualche paese in guerra. O roba del genere. Mi ero messo a spulciare l’export delle loro aziende di facciata, ho fatto anche qualche controllo. Ma era una cantonata. Non ho mai trovato nulla. Un buco nell’acqua, Mattè”. Guido si batte la mano sulla fronte. “Che stronzo che son stato a non pensarci subito”.
“Quindi? Che vuol dire?”.
“È un soprannome. Andrea Bartolini, detto Wehrmacht”.
I peli delle braccia mi si rizzano come pettinati da un’invisibile scarica elettrostatica.
“Oh, cazzo. E chi sarebbe? La talpa?”.
“Eh, magari. Era un ex poliziotto, che si è preso il 737”.
“Il che? L’aereo?”.
Guido abbozza un sorriso.
“Ma no, cojone. DPR 737 del 1981. L’articolo che regola il comportamento in Polizia. È stato destituito. Insomma, calcio in culo e licenziato, fuori dalla madama”.
“E che aveva combinato?”.
“È successo poco prima che io arrivassi qui. Era legato a un gruppo di estrema destra, per questo lo chiamavano Wehrmacht”.
“Ti è già più simpatico, eh?”.
“E piantala de fare il radical chic a tutti i costi. No, non mi è più simpatico. Un conto è dire che i negri se ne devono sta’ a casa loro. Un altro è sparargli”.
“Non sono un radical chic”.
“Sì che lo sei”.
“No, piantala”.
“E io insisto”.
“E tu sei un fascista di merda”.
Guido emette un ringhio e si passa la mano sulla faccia.
“E che du’ palle, Mattè. Ora me fai finì? O preferisci che te spieghi perché lo sei un radical chic? Partiamo dalla Vespa?”.
Io abbasso la testa con aria contrita e resto zitto. Non vorrei mai che Guido cambiasse idea per davvero e si piccasse, interrompendo il racconto. Grazie al cielo, prende fiato e ricomincia il discorso.
“Insomma, il Bartolini fece irruzione assieme a due suoi amichetti in un circolo dell’Arcigay a Rivarolo, picchiando a sangue tutti i culattoni lì presenti e mandandone due quasi al padreterno. Un bel lavoretto, sai, a quanto pare? Peccato che qualcuno lo riconobbe. Finì sotto processo e una volta condannato fu espulso dalla Polizia”.
“Non conoscevo questa storia”.
“Il Questore si prodigò in grossi sforzi per convincere la stampa a tacere. Era il 2002, subito dopo il G8 di Genova ci mancava solo quella storia per scaldare gli animi. A quanto pare il questore fece un bel lavoro. Di Wehrmacht non ne parlò manco il periodico del suo quartiere”.
“E poi? Che fine ha fatto?”, gli chiedo.
“E infatti. Mica finisce qui. Bartolini si fece tre anni di reclusione, di cui uno e mezzo ai domiciliari grazie all’indulto. Una volta fuori, per campare si era dato al recupero crediti. Indovina per chi?”.
“Per i Lo Nardo?”.
“Una scimmietta con l’elastico per il mio pennivendolo del cazzo!”.
“Certo che per una volta potresti anche rispondermi qualcosa tipo ‘il tuo intuito ti guida bene’, come Obi Wan a Luke”.
“Eh, vero. Ma io non sono uno Jedi e tu manco. E poi a me Guerre stellari è sempre stato sul cazzo, Matté”.
“Potrei sbatterti fuori adesso, dopo questa ingiuria”.
Guido emette un grugnito nasale prolungato. Ormai è ufficiale: ha litigato con il suo senso dell’umorismo e non intendono fare pace.
“Vabbé, me fai finì?”, mi dice.
“Eh, ok. Scusa”.
“Sia come sia, Wehrmacht continua a dimenarsi nel torbido. E sempre al soldo dei Lo Nardo. In giro ho sentito dire che si faceva pure, e di brutto. Fino a tre anni fa”.
“Quando? Che è successo?”.
“Eh. Un giornalista attento come te avrà notato che ne sto parlando al passato”.
“Urka”.
“Già. L’hanno trovato morto carbonizzato in un’auto abbandonata sopra alle alture di Bolzaneto. Colpo in testa, alla nuca, e un bel falò del mezzo. È stato identificato grazie al DNA”. Guido disegna platealmente una croce gigante nell’aria. “Fine della festa per Wehrmacht”, aggiunge.
“E tu hai scoperto tutte queste cose in qualche settimana di clandestinità?”, gli chiedo.
“Eh no, testa de cazzo. Come avrei potuto? Ho scoperto tutto poco prima che mi venissero a prendere. In queste settimane ho cercato nei vicoli e in giro qualcuno che lo conoscesse. Che mi potesse aiutare a capire qualcosa di più”.
“E com’è andata?”.
“Male. Ho solo scoperto che si faceva e che aveva una donna. Pare fosse una che gestiva un bordello ma non sono riuscito a scoprire come si chiamava. Ho anche trovato la casa in cui viveva e dove è stato ai domiciliari. Ci abitava con la madre. Una villetta monofamiliare dopo via Mogadiscio, quasi a Sant’Eusebio”.
“E sei andato là?”.
“Negativo. Troppo pericoloso e troppo esposto. Ma vorrei tanto parlare con la madre. Magari potrei ricavare qualche informazione utile”.
Mi siedo sul divano vicino a lui.
“Perché pensi che Bob ci abbia parlato di sto Wehrmacht? Che senso aveva tirare fuori un morto?”.
“Non lo so. Ma so che è collegato con i Lo Nardo. L’unica pista che abbiamo, adesso, è la madre. Devo parlare con lei”.
Mi alzo in piedi e mi batto la mano sul petto.
“Questo lo farò io”.
“Eh, seee, vabbè. Mo vediamo, eh?”.
“Ma scusa, pericolo zero. Insospettabile giornalista che fa qualche domanda”.
Guido gira la testa, sbadiglia e si annusa un’ascella. Retrae la testa schifato dai suoi stessi miasmi.
“Vabbè, vabbè. Ce pensamo domani, eh Mattè? Ora me faccio una doccia. Poi mi dai qualcosa di pulito e io mi tiro una dormita che levati”.