— E va bene, — disse il fioraio, subito.
Tacquero. Ella teneva gli occhi bassi, si appoggiava al muro: cavò le sue quindici lire e l’occhio acuto del fioraio vide subito, in quell’esiguo portafogli, che ve ne erano solo altre tre, di lire.
— Dove debbo mandarla? — disse egli.
— La prendo io: la porto io stessa.
— Non è fatta.
— Aspetterò.
Egli si allontanò, passò nell’altra stanza, ritornò.
— L’avete ordinata? Come l’avete ordinata? — ella chiese, ansiosamente.
— Di crisantemi bianchi.
— Ah! va bene. Metteteci qualche rosa...
— Rose di ogni mese, queste ci posso mettere.
— Sì, sì, qualche rosa, ve ne prego.
Il fioraio si allontanò di nuovo. Carmela Minino restava nella prima bottega, fra la gente che andava e veniva, in un cantuccio, paziente, fra l’umidore dell’ambiente pieno di fiori bagnati, di erba molle d’acqua, tra le fragranze molto sottili di quei fiori autunnali. Quando ritornò, Lamarra, passò vicino a Carmela per prendere un cespo di rose bianche, rose di serra, magnifico, dalla vetrina: e cominciò egli stesso ad annodarlo, sotto una grande palma verde, con sapiente cura.
— Questa corona serve per vostra madre? — domandò curiosamente, ma benignamente, il fioraio.
— No, — disse Carmela Minino. — Per la mia comare.
— Oh! Le volete molto bene, allora?
— Sì, molto bene. Anche adesso, le voglio bene.
— Era vecchia quando andò in paradiso?
— No, era giovane e bella. Pareva un angelo, — ella mormorò, a occhi socchiusi, quasi innanzi ad una visione paradisiaca.
— Che siamo noi! — disse filosoficamente il fioraio. — È morta da poco?
— No, da sei anni. Io ne avevo quindici — e un velo di lacrime le appannò gli occhi.
— Non ci pensate, — soggiunse il fioraio, seguitando ad annodare le bellissime rose bianche, sotto la palma.
Ora, vi metteva intorno un nastro di amoerro bianco, dove stava scritto, a lettere di oro: «Cara Maria, aspettami — Carlo». E Carmela Minino che tutt’osservava, disse:
— Non ci si potrebbe mettere un nastro, una iscrizione, su questa mia corona?
— Sì, ora ci scriviamo una lettera, sopra, coi fiori! — esclamò ironicamente Lamarra.
— Almeno il nome? Il suo solo nome? — disse l’altra, congiungendo le mani, pregando.
— Come si chiamava?
— Si chiamava Amina Boschetti, — diss’ella, più piano.
— Come la ballerina, si chiamava? Come la nostra Boschetti?
— Era lei, la mia madrina, — soggiunse la povera Carmela Minino, mentre due lunghe lacrime le scendevano per le gote.
Egli la guardò, sorpreso assai. La giovane era così meschinamente vestita, stringeva nella mano un ombrello così vecchio, i suoi guanti neri erano così bianchi su tutte le cuciture, che il fioraio, pensando alla luminosa Dea della danza, che aveva fatto delirare di ammirazione e di amore le calde platee, quasi non le credette.
— Ella mi ha fatto bene in vita e in morte, — disse Carmela, con un impetuoso accento di sincerità. — E io debbo ricordarmelo sempre.
— Era una grande signora, buona, bella, generosa, — rispose il fioraio.
— Voi l’avete conosciuta, eh?
— Sì! Gliene ho portato fiori, sul palcoscenico, in certe serate! Ne ho guadagnato denaro, con quelli che impazzivano per lei! Ma lei se ne rideva, di tutti questi innamorati, me ne rammento. Che serate! Pareva una fata, quando ballava!
— Ora è morta, — soggiunse la fanciulla, con voce infranta. — Giacchè l’avete conosciuta, ve ne prego, scriveteci il nome sopra la corona, con le rose.
Tuonava il cannone di mezzogiorno quando, carica lietamente della sua corona, si avviò verso la stazione ferroviaria a piedi. Tutto ben considerato, con quei lunghi e acuti ragionamenti della gente che ha pochissimi denari e che deve contare uno per uno i suoi soldi, ella aveva osservato che valeva meglio, per lei, prendere il treno della piccola ferrovia Nola-Baiano. Vi sono omnibus che, in quel giorno dei morti, a centinaia ascendono faticosamente, carichi di gente, la collina di Poggioreale, dove è il camposanto: ma vanno con tanta lentezza, sono sempre pieni zeppi di persone e Carmela non sapeva bene se le avrebbero permesso di salirvi su, con la sua larga corona che sarebbe stata di molto fastidio ai vicini. Al cimitero, in quel giorno consacrato ai defunti, ci vanno migliaia di piccole e grandi carrozze da nolo: ma il meno che domandano, per andare e venire, sono cinque lire. La sua corona grande, larga, un po’ pesante, le impediva di salire al cimitero a piedi, come avrebbe tentato, forse, se fosse stata a mani libere: il fioraio, con un estremo omaggio alla indimenticabile fata del teatro San Carlo, l’aveva formata così bella, quella corona! Intorno alla fascia larga dei crisantemi bianchi correva una striscia sottile di crisantemi di un rosa pallidissimo: e le parole della dedica, rilevate sulla fascia bianca dei crisantemi, ad Amina Boschetti, eran formate da roselline di ogni mese, bottoncini umili, modesti, tutti bagnati ancora d’acqua. Carmela Minino non ne sentiva il peso, di quella corona: essa camminava con passo quieto, soddisfatta del suo sacrificio, tutta intenerita dalla bontà del fioraio, il primo, il più elegante di Napoli, che aveva voluto accogliere le sue misere quindici lire: e pensava, Carmela, che il nome della sua madrina, detto lì, era stato il talismano che aveva toccato il cuore di Lamarra. Oh! non per lei! Bruttina, un po’ sgraziata, timida malgrado il mestiere di ballerina che esercitava, selvatica per il senso della sua bruttezza e della sua miseria, diffidente contro ogni apparenza di lusinga, trascurata per la povertà nei suoi vestiti, Carmela passava così abbandonata e, talvolta, bistrattata, nel mondo, che un tratto di bontà, di affetto, la faceva commovere sino alle lacrime: il miracolo di quei fiori, che le sembravano magnifici, non era stato fatto per lei, ma perchè il caro nome della deliziosa danzatrice, sparita dal mondo, era stato pronunziato in quella bottega di fiori. Ella, andando alla stazione, non guardava nessuno in volto, presa dal suo pensiero: ma passando innanzi al caffè Gambrinus, il più chic di Napoli, quasi inconsciamente ella guardò verso la porta. Giusto, sulla soglia di marmo bianco, fissando le nuvole del bigio cielo di novembre con quei suoi occhi superbi e freddi di un azzurro così duro che rammentava l’acciaio, Ferdinando Terzi, con le mani nelle tasche del paletot strettamente inglese, fumando un sigaro di Avana, dalla cintura di carta d’oro, Ferdinando Terzi di Torregrande aspettava qualcuno o non aspettava nessuno, perdendo tempo, disoccupato, annoiato forse, senza nulla mostrare sul suo volto, dove si armonizzavano bizzarramente le linee più crudeli e più glacialmente crudeli di una bellezza virile bionda. Purissimo il profilo del naso aquilino; bianchissimi i denti che apparivano fra le labbra rosee ancora di giovinezza sana e segretamente focosa, sotto i sottili mustacchi biondi; bianco come la fronte spaziosa, il mento ovale; e azzurri, di un largo azzurro, gli occhi. Ma qualche cosa di tagliente, anche nel profilo; ma nel candore dei denti qualche cosa di fermo; ma la durezza di volontà in quel mento e un costante ignoto pensiero su quella fronte: e, sovra tutto, in quegli occhi azzurri tanto gelo di orgoglio, tanto gelo di indifferenza, e quasi sempre un gelo d’ironia sprezzante, un velo di disdegno crudele. Carmela Minino lo conosceva, Ferdinando Terzi: egli era abbonato alla prima fila delle poltrone al teatro San Carlo e non mancava mai, verso il tardi, ogni sera, al suo posto, in marsina, con la gardenia all’occhiello, portando nella persona una certa rigidità militare, non scevra di eleganza, che gli era restata dal suo servizio come ufficiale in un reggimento di cavalleria. Ella lo conosceva anche meglio, Ferdinando Terzi, poichè era l’amante della bella Emilia Tromba, la seducente ballerina di prima fila, che ballava così male, ma che aveva dei magnifici capelli neri, che non andava mai a tempo, ma aveva delle spalle mirabili, che faceva un grande chiasso, ma che si rideva delle ammende, poichè era ricca di denaro, di gioielli, di carrozze, e che l’impresa di San Carlo scritturava solo per far piacere agli elegantissimi abbonati delle poltrone, mentre ella era una maleducata, volgare, strillona, in continua lite con le sue compagne. Ferdinando Terzi raramente saliva sul palcoscenico, a prendere Emilia Tromba, e l’aspettava, taciturno, superbo, guardando le corifee coi suoi altieri occhi che attiravano e respingevano, crollando le spalle quando udiva la voce rauca di Emilia disputarsi con la cameriera, col custode del palcoscenico, col pompiere di guardia, rimanendo sempre lui un signore, un gran signore, malgrado l’incanagliamento di quella relazione. Più spesso, quasi sempre, il coupé di Ferdinando Terzi aspettava Emilia Tromba all’uscita del teatro San Carlo, ma non sempre egli vi era dentro. E Carmela Minino, quasi sparendo sotto la sua corona di fiori, fissò per un minuto il viso preoccupato del giovine signore: egli non si accorse di lei, naturalmente, e rientrò nel caffè. Un sospiro sollevò il petto di Carmela e, a un tratto, la stazione ferroviaria le parve tanto lontana e la corona dei fiori soffocante.
Ma ella vinse questo momento di scoraggiamento; l’ora si faceva tarda, il cielo si rannuvolava sempre più e se la pioggia la sorprendeva per le vie di Napoli, non avrebbe potuto neanche aprire l’ombrello, impedita dalla corona. Nella piccola stazione della Nola-Baiano la folla era così grande che la ballerina comprese non avrebbe trovato posto, in terza classe: si sentiva così oppressa, così debole, scoraggiata e ammiserita nelle più misteriose regioni della sua anima, che dimenticò i suoi costanti proponimenti di economia e prese un biglietto di andata e ritorno, di seconda classe, pagando diciotto soldi. Anche la seconda classe era zeppa; tutti andavano al camposanto: chi portava un pacchetto di candele di cera, da far ardere innanzi alle tombe; chi una piccola corona di perline; chi una corona di semprevivi gialli, secchi, con lettere di velluto nero che formavano le parole di dedica, e chi niente: e quasi tutti erano vestiti di nero, uomini, donne e fanciulli: e quasi tutti avevano l’aspetto contrito, silenziosi, alcuni vinti certamente dai ricordi di vecchi sopiti dolori, alcuni certamente portanti nel cuore un rammarico lontano e inconsolabile fattosi novellamente acuto, alcuni indifferenti nell’anima, ma fiaccati nei nervi dal cielo bigio, dal viaggio triste, dalla tristezza altrui. Per la massima parte in quella seconda classe del treno di Baiano, vi erano piccoli borghesi, operai, servi di famiglie ricche, impiegati e servi di quelle congregazioni religiose che riempiono delle loro cappelle il camposanto di Poggioreale e che rappresentano la più vasta associazione di mutuo soccorso innanzi alla morte, per la borghesia e pel popolo napoletano. Carmela Minino taceva: e oppressa dai suoi pensieri di miseria e di abbandono, oppressa dall’ambiente, abbassava la faccia dietro la grama veletta nera del suo cappello.
— Poggioreale! Poggioreale! — gridarono dalla minuscola stazione del cimitero, i due ferrovieri.
E quasi immediatamente, con un gran rumore di sportelli battuti, il piccolo treno si vuotò tutto, mentre pel viale saliente al largo ingresso inferiore del cimitero, un flutto di gente si avviava, portando i suoi pacchetti di cerei, le sue corone di canutiglie, di semprevivi, di fiori freschi. Attorno all’ampio cancello una quantità di omnibus, di calessi, di char-à-bancs, di biroccini, stazionava, coi cavalli senza cavezza, la testa immersa in un sacco di crusca, coi cocchieri che fumavano la pipa, seduti di traverso sulle loro serpi, alcuni aggruppati, altri in cerca di qualche osteria dei dintorni, dove potessero mangiare un boccone, aspettando i passeggieri che dovevano ritornare dal lugubre pellegrinaggio. Sotto il cielo basso e bigio, in quel tetro giorno di novembre, il camposanto di Napoli che occupa una delle sue più belle e più amene colline, quella di Poggioreale, conservava il suo aspetto d’immenso e fondo giardino signorile: e i suoi cespuglietti di fiori vivaci che circondano le tombe, e le sue siepi di bosso e di mortella che dividono gli ombrosi viali dai campi pieni di lapidi, e i boschetti di alberi, dove da mattina a sera cinguettano gli uccellini, gli alberi alti che ombreggiano le sue cappellette, le sue chiesette, i suoi più grandi monumenti, gli conservano, in ogni stagione, questo grandioso aspetto di parco aristocratico, qua e là interrotto da piccoli edifici, ora vezzosi, ora pomposi. Non solo nel giorno della commemorazione dei morti, ma sempre vi lavorano giardinieri sotto la direzione di qualcuno che ama quel camposanto teneramente, e le più belle rose di Napoli vi crescono e i meravigliosi crisantemi, di ogni tinta, ne smaltano persino le aiuole dei poveri e in tutte le stagioni pare che vi sorrida dolcemente la primavera dei morti. Tutto l’anno il camposanto di Poggioreale ha un aspetto, nella sua florida solitudine, raccolto, non triste; mentre in quel giorno, coi suoi viali neri di gente, con tutte le porte delle sue cappelle, delle sue chiese, dei suoi grandi monumenti aperte, da cui escivan chiarori di cerei, canti liturgici e odore d’incensi, misto a quello dei fiori freschi, il suo aspetto, sempre, non era triste, ma singolare, ma bizzarro, come di una strana fiera mortuaria, come di una mai vista pompa funebre, in un parco vastissimo, percorso da una folla immensa e svariata. L’ampio viale onde Carmela Minino, insieme con gli altri, saliva alle alture del cimitero ove sono le chiese più belle e i monumenti funerari più ricchi e più artistici, era murato e sulle mura vi eran delle lapidi cementate, le più antiche, con date di trenta o quarant’anni: la ballerina ne lesse due o tre ed ebbe un moto d’indifferenza. Che mai eran quelle donne, quei bimbi, quegli uomini che essa non avea mai conosciuti? Nulla a lei e, forse, nulla a nessuno di costoro che salivan con lei: quaranta, cinquanta anni sono troppi, perchè un morto possa esser più niente a nessuno. Qua e là, ora che cominciavano i prati fioriti di rose, di cinerarie, di tutti que’ fiori bigi, lilla, violetti, che sembra Iddio faccia nascere nell’autunno per esser di accordo con la stagione e con le tombe dei morti, gruppetti di due o tre persone si agitavano intorno alle pietre mortuarie infisse semplicemente nella terra e, ripulitele, amorosamente, vi depositavano le corone novelle e infiggevano, nella terra, i cerei che ardevano nel giorno, con certe linguelle di fiamma esili e pallide, e qualcuno s’inginocchiava, pregando, senza curarsi di chi passava; e un singhiozzo, ogni tanto, rompeva l’aria, sulle tombe più recenti, singhiozzi scoppianti da donne vestite di nero, austeramente velate, mentre da tutte le cappelle, da tutte le chiese grandi e piccole, da ogni maestoso monumento escivano i canti del De profundis e della Libera e scintillavano, nel fondo di pietra, le candele accese e si dilatava l’odore dell’incenso, nell’aria. Carmela Minino, disfatta, sentendo sul suo corpo e sulla sua anima tutto un insopportabile peso di dolore, quasi non poteva avanzare più passo: un desiderio folle la travolgeva, di gittar via quella corona, di buttarsi sull’erba, sui fiori, faccia a terra, e di sciogliersi in lacrime, fino a che la morte l’avesse sorpresa colà!