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1674 Parole
Erano questioni senza soluzione, le pareva, mentre stava lì, con James per mano. L’aveva seguita in sala il giovanotto di cui ridevano; si trovava in piedi accanto al tavolo, che giocherellava con qualcosa, goffo, con la sensazione di essere un pesce fuor d’acqua, come lei ben sapeva anche senza alzare gli occhi. Se n’erano andati tutti: i ragazzi, Minta Doyle e Paul Rayley, Augustus Carmichael, suo marito: se n’erano andati tutti. Così si girò con un sospiro e disse: «Le farebbe piacere venire con me, signor Tansley?». Doveva sbrigare una commissione noiosa in paese; aveva un paio di lettere da scrivere; forse ci avrebbe messo una decina di minuti; doveva mettersi il cappello. E, con il cesto e l’ombrellino parasole, eccola di nuovo, dieci minuti dopo, con l’aria di essere pronta, attrezzata come per un viaggio, che comunque avrebbe dovuto sospendere un momento passando accanto al campo da tennis: doveva chiedere al signor Carmichael — che si godeva il tepore del sole con gli occhi gialli da gatto e socchiusi, tanto che, esattamente come quelli di un gatto, essi sembravano riflettere i rami che si muovevano o le nuvole che passavano, senza però dare nessun indizio di qualsiasi pensiero o emozione interiore — se aveva bisogno di qualcosa. Perché loro stavano partendo per la grande spedizione, disse ridendo. Andavano in paese. «Francobolli, carta da lettere, tabacco?» suggerì, fermandosi al suo fianco. Ma no, lui non aveva bisogno di niente. Le dita si intrecciarono sulla pancia prominente, gli occhi ammiccarono, come se avesse voluto rispondere gentilmente a tanta cortesia (lei era seducente, anche se un po’ nervosa) ma senza riuscirci, sprofondato com’era in una sonnolenza grigio-verde che li abbracciava tutti, senza bisogno di parole, in una vasta letargia di benevolenza; tutta la casa; tutto il mondo; tutta la gente del mondo, perché a pranzo lui aveva versato nel bicchiere alcune gocce di qualcosa, che secondo i ragazzi spiegavano quella striscia brillante color giallo-canarino sui baffi e sulla barba, altrimenti bianchi come latte. Non aveva bisogno di niente, mormorò. Sarebbe diventato un grande filosofo, disse la signora Ramsay mentre scendevano lungo la strada che portava al villaggio di pescatori, se non avesse fatto un matrimonio sfortunato. Con il parasole nero ben dritto, e procedendo con un’indescrivibile aria di attesa, come se dietro l’angolo ci fosse stato qualcuno ad aspettarla, gli raccontò tutta la storia: una relazione con una ragazza a Oxford, un matrimonio precoce, la povertà, la partenza per l’India, la traduzione di qualche poesia “molto bella, credo”, l’intenzione di insegnare ai ragazzi il persiano o l’indostano, ma a che cosa serviva?; e poi starsene lì disteso, come lo avevano visto, sul prato. Lo lusingava; era stato snobbato, e il fatto che la signora Ramsay gli raccontasse quelle cose gli faceva bene. Charles Tansley si sentì rinascere. L’allusione, poi, alla grandezza dell’intelletto maschile, sia pur in declino, e alla sottomissione delle mogli — non che biasimasse la ragazza, e il matrimonio era stato felice, lei credeva — alle fatiche dei mariti, lei lo fece sentire ancor più contento e soddisfatto di quanto fosse mai stato prima, e gli sarebbe piaciuto, se per esempio avessero preso una vettura, pagare lui la corsa. E in quanto alla borsetta, poteva portargliela? No, no, disse lei, quella se la portava sempre da sola. Come ora. Sì, questo lo avvertiva, in lei. Capiva molte cose, in particolare una che lo eccitava e lo disturbava per ragioni che non sapeva spiegare. Gli sarebbe piaciuto che lei lo vedesse in toga e tocco, durante una qualunque cerimonia. Un insegnamento, una cattedra — si sentiva capace di tutto e si vedeva — ma che cosa stava guardando, lei? Un uomo che attaccava un manifesto. Il grande foglio di carta svolazzante si appiattiva, e a ogni colpo di pennello rivelava altre gambe, cerchi, cavalli, rossi e blu brillanti, splendidamente uniformi, finché metà della parete fu coperta dalla locandina di un circo; cento cavallerizzi, venti foche ammaestrate, leoni, tigri… Allungando il collo, perché era miope, la signora lesse che… «arriverà in questo paese». Era un lavoro terribilmente pericoloso per un uomo con un braccio solo, esclamò, starsene in cima a una scala come quella: il braccio sinistro gli era stato reciso da una trebbiatrice due anni prima. «Andiamoci tutti!» gridò, riprendendo a camminare, come se quei cavallerizzi e cavalli l’avessero riempita di euforia infantile e le avessero fatto dimenticare la sua pietà. «Andiamoci» disse lui, ripetendo le sue parole in tono meccanico, in un modo tanto impacciato che fece aggrottare la fronte alla signora Ramsay. «Andiamo al circo.» No. Non riusciva a dirlo bene. Non riusciva a sentirlo bene. Ma perché? chiese lei. Che cosa c’era che non andava? In quel momento provò affetto per lui. Non lo avevano mai portato al circo, chiese, quando era bambino? Mai, rispose lui, come se gli avesse chiesto proprio la cosa cui voleva rispondere; come se in tutti quei giorni non avesse fatto altro che desiderare di dirle che non era mai andato al circo. Era una famiglia numerosa, la sua, nove tra fratelli e sorelle, e il padre non viveva di rendita: «Mio padre è un farmacista, signora Ramsay. Lavora in una farmacia». Lui si era guadagnato da vivere fin dall’età di tredici anni. Spesso durante l’inverno doveva andar fuori senza cappotto. Al college non poteva mai “ricambiare gli inviti” (furono le sue parole secche e formali). Doveva far durare le cose il doppio degli altri; fumava il tabacco meno caro: trinciato, quello che fumavano i vecchi sul molo. Lavorava sodo, sette ore al giorno; in quel momento si occupava dell’influenza di qualcosa su qualcuno. Intanto continuavano a camminare e la signora Ramsay non capiva bene il senso dei suoi discorsi, sentiva solo le parole, qua e là… dissertazione… insegnamento… lettorato… assistentato. Lei non riusciva nemmeno a seguire il brutto gergo accademico, snocciolato con tanta scioltezza, ma si disse che ora capiva perché l’andare al circo l’avesse tanto spiazzato, poveretto, e perché se ne fosse venuto fuori subito con quella storia del padre e madre e fratelli e sorelle, e ci avrebbe pensato lei a fare in modo che non gli ridessero più dietro; lo avrebbe detto a Prue. Gli avrebbe fatto molto piacere, pensava, raccontare di essere stato a Ibsen con i Ramsay. Ma si dava un sacco d’arie; oh sì, era incredibilmente noioso. Al punto che, anche se ormai erano arrivati in paese e percorrevano la via principale, con le carrozze che stridevano sull’acciottolato, lui continuava a parlare di sistemazioni, e di insegnamento e di gente che lavorava, e l’aiuto alla propria classe, e lezioni, finché la signora Ramsay ritenne che avesse riacquisito in pieno tutta la sua sicurezza, si fosse ripreso dal circo, e fosse sul punto (e qui di nuovo provò affetto per lui) di dirle… Ma ecco, le case erano ormai scomparse su entrambi i lati ed erano giunti alla banchina, e tutta la baia si apriva davanti a loro e la signora Ramsay non poté fare a meno di esclamare: «Oh, com’è bello!». Perché di fronte a lei c’era la grande distesa di acqua blu; il Faro grigio, distante, austero, al centro; e sulla destra, a perdita d’occhio, sfumando e cedendo in morbide pieghe lievi, le dune verdi di sabbia con l’erba selvatica che vi cresceva sopra, che sembravano sempre correr via verso qualche terra lunare, priva di uomini. Era questa la vista, disse fermandosi, con gli occhi più grigi, che piaceva a suo marito. Si interruppe un momento. Ma ora, disse, erano arrivati gli artisti. Proprio pochi passi più in là ce n’era uno, con un Panama in testa e un paio di stivali gialli, serio, calmo, assorto, nonostante fosse sorvegliato da dieci ragazzini, con un’aria di profonda soddisfazione sul volto rosso e rotondo; guardava, e poi, quando aveva guardato, tuffava, intingeva la punta del pennello in qualche soffice montagnola di verde o di rosa. Da quando il signor Paunceforte era arrivato lì, tre anni prima, tutti i quadri erano così, disse, verdi e grigi, con barche a vela color limone e donne rosa sulla spiaggia. Ma gli amici di sua nonna, disse, dando un’occhiata discreta mentre passavano, non avevano avuto vita così facile; prima di tutto mescolavano da sé i colori e poi li impastavano, e poi ancora ci mettevano sopra un panno bagnato per tenerli umidi. Così Tansley pensò che volesse suggerirgli che il quadro di quell’uomo era mediocre, non si diceva così? Che i colori non erano pastosi? Si diceva così? Sotto l’influsso di quell’emozione straordinaria, cominciata nel giardino, era cresciuta durante la passeggiata, quando avrebbe voluto portarle la borsa, era aumentata in paese, quando avrebbe desiderato raccontarle tutto di sé, Tansley cominciava a vedere leggermente deformati se stesso e tutto ciò che aveva sempre saputo. Era terribilmente strano. Se ne stava là, nel salotto della misera casupola dove la signora lo aveva portato, e l’aspettava, perché lei era andata un momento di sopra a far visita a una donna. Sentì i suoi passi veloci di sopra; sentì la sua voce gioiosa, poi bassa; guardò le tovagliette, i barattoli del tè, i paralumi di vetro; aspettava impaziente; non vedeva l’ora di tornare, deciso a portarle la borsa; poi la sentì uscire; chiudere una porta; dire che si doveva tenere le finestre aperte e le porte chiuse, e rivolgersi a lei per qualunque necessità (forse parlava a un bambino), quando, all’improvviso, lei entrò, rimase in silenzio per un momento (come se di sopra avesse recitato una parte, e in un attimo tornasse se stessa), rimase immobile per un momento davanti al ritratto della regina Vittoria con il nastro blu della Giarrettiera; e d’un tratto lui capì che era proprio questo; era proprio questo: lei era la creatura più bella che avesse mai visto. Negli occhi le stelle e sui capelli veli, con ciclamini e viole selvatiche… che sciocchezze andava pensando? Lei aveva almeno cinquant’anni, aveva otto figli. Camminando tra prati in fiore e portandosi al petto boccioli appena fioriti e agnelli caduti; con le stelle negli occhi e il vento nei capelli… Le prese la borsa. «Arrivederci, Elsie» disse, e ripresero la strada, lei con l’ombrellino ben dritto e camminando come se si aspettasse di incontrare qualcuno dietro l’angolo, mentre Charles Tansley per la prima volta in vita sua provava un orgoglio smisurato; un uomo che scavava in una fogna si fermò per guardarla; Charles Tansley provò un orgoglio smisurato; sentì il vento e l’odore dei ciclamini e delle violette perché camminava al fianco di una bella donna per la prima volta in vita sua. Le aveva preso la borsa.
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