UNO
Hotel Eldorado, Shreveport, Louisiana
14 agosto 2012
Il nuovo anno si stava rivelando anche peggiore del precedente, che già era stato un disastro.
Era stato l’anno in cui i miei genitori erano morti in un ‘incidente’ durante la loro vacanza ai Caraibi, e io stavo lavorando troppo per riuscire ad ascoltare i miei istinti, che gridavano ‘sono stronzate!’ così forte da farmi quasi perdere un terzo orecchio. Stavo preparando il caso più importante della mia carriera, una scusa niente male per presentarmi in ufficio solo all’ora dell’happy hour, anche se in realtà la mia vera ossessione era l’investigatore privato assegnato al mio caso.
Nick. Il quasi divorziato Nick. Nick, il nuovo collega che a volte sembrava volesse strapparmi via la camicetta con i denti, quando non era impegnato ad ignorarmi.
Ma le cose erano cambiate.
Quel giorno era stato raggiunto un verdetto sul mio mega processo, il caso di licenziamento senza giusta causa del signor Burnside. Il mio studio raramente si schierava dalla parte del querelante, ecco perché mi ero assunta un grande rischio con quel caso, facendo vincere tre milioni di dollari al signor Burnside, un terzo dei quali spettavano allo studio. L’esatto opposto di un disastro.
Dopo la vittoria al tribunale di Dallas, io e la mia assistente legale Emily ci dirigemmo all’hotel dove lo studio aveva organizzato un ritiro aziendale, a Shreveport, in Louisiana. Shreveport non è di certo nella lista delle migliori destinazioni per vacanze aziendali, ma il nostro socio anziano aveva un debole per il poker, e amava la cucina cajun, il jazz e i casinò sull’acqua. Per Gino quella vacanza era una bella scusa per concedersi un po’ di Texas Hold’Em tra un seminario di team building e l’altro senza perdere la sua reputazione fenomenale, ma per noi significava un viaggio di tre ore e mezza all’andata e altrettante al ritorno. Non era un problema per me ed Emily. Era un’occasione per colmare i vuoti del rapporto assistente legale/avvocato e amica/collega con disinvoltura, principalmente perché nessuna delle due pretendeva di darsi delle arie.
Una volta arrivate, ci precipitammo a fare il check-in all’Eldorado.
“Desiderate una mappa dei ghost tour?” chiese la receptionist poliglotta, con il suo accento texano.
“È molto gentile, ma no, grazie,” biascicò Emily. Nei dieci anni in cui era stata lontana da casa non era ancora riuscita a togliersi l’accento strascicato di Amarillo dalla voce o a rinunciare alle corse dei cavalli.
Anch’io non credevo in quegli abracadabra, ma non ero nemmeno una patita dei casinò, che trasudavano puzza di fumo e disperazione.
“Avete per caso un karaoke, o qualsiasi cosa non sia un casinò, in loco?”
“Certo, signora. Abbiamo un bar panoramico con karaoke, tavoli da biliardo, questo genere di cose.” La ragazza si sistemò la frangia, per poi farla tornare esattamente dov’era prima, scuotendo la testa.
“Il bar mi ispira,” dissi ad Emily.
“Karaoke,” rispose. “Di nuovo.” Alzò gli occhi al soffitto. “Solo se possiamo venirci incontro. Io voglio giocare a blackjack.”
Dopo aver lasciato le valigie nelle nostre stanze ed esserci date una rinfrescata, parlando al telefono per tutto il tempo, ci unimmo al gruppo. Non appena entrammo nella sala conferenze ci accolse un applauso scrosciante da parte dei colleghi. La notizia della nostra vittoria ci aveva precedute. Ci inchinammo, per poi attribuirci il merito a vicenda.
“Dov’è Nick?” chiesi. “Vieni qua.”
Nick aveva lasciato l’aula di tribunale mentre la giuria era uscita per deliberare, battendoci sul tempo. Si alzò in piedi da un tavolo dall’altra parte della stanza, ma non ci raggiunse. Lo applaudii comunque a distanza.
Mentre l’applauso si spegneva, alcuni soci mi invitarono a sedermi al loro tavolo, vicino all’entrata. Mi unii a loro e nei quindici minuti successivi ci concentrammo per riscrivere la missione aziendale. Emily ed io eravamo arrivate giusto in tempo per la fine della conferenza. Nel dividerci, il gruppo si precipitò dall’hotel all’imbarcazione ormeggiata che ospitava il casinò. In Louisiana, il gioco d’azzardo è permesso solamente sull’acqua o su terre tribali. D’impulso mi diressi verso l’ascensore, invece che al casinò. Appena prima che le porte si chiudessero, una mano vi si infilò in mezzo, facendole riaprire, e mi ritrovai diretta alla mia stanza d’hotel in compagnia di nientemeno che Nick Kovacs.
“Quindi, Elena, anche tu non giochi d’azzardo,” osservò, mentre le porte dell’ascensore si chiudevano.
Mi si capovolse lo stomaco. Una sdolcinata, lo so, ma quando era di buon umore Nick mi chiamava Elena, come Elena di Troia.
Avevo promesso a Emily una partita veloce a blackjack, prima di andare al karaoke, ma non era necessario che lui lo sapesse. “Se davvero esistesse la fortuna del principiante, giocare d’azzardo potrebbe rivelarsi pericoloso, per me,” dissi.
La sua risposta fu un silenzio di tomba. Entrambi guardavamo giù, su, a destra, a sinistra, ovunque pur di non lanciarci occhiate l’un l’altra, il che era difficile, dato che l’ascensore era pieno di specchi. C’era un tantino di tensione nell’aria.
“Però ho sentito che c’è un tavolo da biliardo al bar dell’hotel, mi piacerebbe andarci,” proposi, buttandomi a gamba tesa e trattenendo il respiro nel mentre.
Di nuovo un silenzio di tomba. Un interminabile silenzio di tomba. Sarebbe stata dura riprendersi da quella batosta.
“D’accordo, ci troviamo là tra pochi minuti,” rispose Nick senza guardarmi negli occhi.
Ha davvero detto che ci troviamo là? Solo noi due? Insieme? Oddio, Katie, ma che cosa hai fatto?
Le porte dell’ascensore si aprirono e ognuno si diresse verso la propria stanza. Era troppo tardi per tirarsi indietro, ormai.
Ero in stato confusionale. Iperventilavo. Sudavo. Avevo il cuore a mille. Il mio outfit era completamente sbagliato, così mi liberai del completo di Ann Taylor e indossai dei jeans, una camicia bianca semplice, e sì, lo ammetto, una borsetta colorata di Jessica Simpson con dei sandali alti coordinati. Il bianco faceva un bel contrasto con i miei lunghi e ondulati capelli rossi, che sciolsi e sistemai sulle spalle. Era proprio lo stile che cercavo, lontano dal mio consueto contegno professionale. Per di più non mi piaceva neanche il mio lavoro, quindi perché ostentarlo nell’abbigliamento?
Solitamente ero ossessionata dall’igiene personale, ma mi limitai ad una lavata veloce di denti, una passata di deodorante e un tocco di rossetto. Stavo pensando di chiamare Emily per dirle che le avrei dato buca, ma sapevo che avrebbe capito, una volta che le avessi spiegato le circostanze. Corsi in ascensore e maledissi ogni singola fermata ai piani intermedi, prima di raggiungere il tetto.
Ding. Finalmente. Mi fermai a riprendere fiato. Contai fino a dieci, presi un’ultima boccata d’aria per darmi coraggio e avanzai verso il bar, tra le luci soffuse. L’uomo di cui avrei potuto fiutare la mascolinità a metri di distanza mi raggiunse alle spalle. Il calore mi salì alle guance. Il mio motore si accese. Proprio l’uomo che cercavo.
Nick aveva origini ungheresi e doveva ringraziare i suoi antenati gitani per il colore scuro di occhi, capelli e pelle, e per gli zigomi pronunciati. Amavo la sua presenza animalesca, così diversa da una classica bellezza tradizionale. Aveva un naso piuttosto largo e storto, per averlo rotto troppe volte. Un po’ di tempo prima mi aveva raccontato che i suoi incisivi scheggiati erano dovuti ad una mattinata di surf andata male. Ma era affascinante in un modo che non si può spiegare e, a giudicare dagli sguardi femminili che spesso notavo, non ero l’unica a pensarla così.
Si accorse di me. “Ciao, Elena.”
“Ciao, Paride,” risposi.
Sbuffò. “Oh, chiunque ma non Paride. Paride era un rammollito.”
“Mmm. Menelao, allora?”
“Ehm, birra.”
“Sono abbastanza sicura che non ci fosse nessuno chiamato ‘Birra’ nella storia di Elena di Troia,” dissi, storcendo il naso con aria di superiorità.
Nick si rivolse al barista. “Una St. Pauli Girl.” E finalmente sfoggiò il suo tipico sorriso, facendo scomparire tutta la tensione accumulata in ascensore. “Ne vuoi una?”
Mi serviva qualcosa di più forte per prendere coraggio. “Una Amstel Light.”
Nick fece l’ordine anche per me. Il barista gli allungò le due birre con il vetro umido di condensa e si asciugò le mani. Nick mi passò la mia, arrotolando un tovagliolo intorno alla bottiglia e allineandone i bordi con la precisione militare che amavo. Canticchiava sottovoce, dondolando la testa. Honky Tonk Women dei Rolling Stones.
“Mi sa che mi piaci più a Shreveport che a Dallas,” dissi.
“Grazie, credo. E a me piace vederti felice. Immagino sia stato un anno duro per te, avendo perso i tuoi genitori e tutto quanto. A quel tuo sorriso,” disse, allungando la sua bottiglia verso di me.
Il brindisi mi fece quasi fermare il cuore. Aveva indovinato sul fatto che fosse stata dura, ma preferivo che l’argomento rimanesse sepolto come i miei genitori. Brindai con lui, ma non riuscii a guardarlo negli occhi mentre lo facevo. “Grazie, Nick, davvero.”
“Vuoi giocare a biliardo?” chiese.
“Perché no?”
Ero su di giri: la ragazza del primo anno che esce con il capitano della squadra di baseball. Entrambi amavamo la musica, così parlammo dei vari generi, di band (la sua vecchia band, gli Stingray, e ‘vere’ band), del mio corso di musica alla Baylor, e della LSD, o Lead Singer Disease, la fantomatica malattia che rende insopportabilmente arroganti i cantanti solisti. Davanti ad un cartone di birre, ci scambiammo aneddoti sugli anni del liceo, e mi raccontò di essersi una volta occupato di una passerotta ferita.
“Una passerotta ferita?” chiesi. “Sicuro siano affari miei? Palla otto in buca d’angolo.” Colpa mia.
Riprese le palle dalle varie buche e le riposizionò nel triangolo, mentre io strofinavo il gesso blu sulla punta della mia stecca e soffiavo via la polvere in eccesso. “Sei un po’ di strette vedute. La passerotta è un uccello, Katie.”
Mi soffermai su come aveva usato il mio vero nome per una volta, godendomi la sensazione.
“Ero uscito a fare surf, e ho trovato una passerotta che non riusciva a volare. L’ho portata a casa con me e me ne sono preso cura fino a che non è arrivata l’ora di liberarla.”
“Oh, mamma mia! Puzzava molto? Ti ha beccato? Scommetto che tua madre fosse contentissima!” Parlavo a vanvera, in un susseguirsi di esclamazioni. Imbarazzante. Sembravo una ragazzina viziata sotto acidi. “Era calma, inizialmente era sotto choc, ma col passare dei giorni si agitava sempre di più. Avevo quattordici anni e mia madre era solo felice che non stessi in camera mia per occuparmi di un altro tipo di passerotta, quindi non era un problema. Iniziò a puzzare davvero tanto dopo alcuni giorni, però.”
Aprii. Le palle schioccarono e rimbalzarono in tutte le direzioni, prima che una piena ruzzolasse dentro una buca laterale. “Piene,” dissi. “Quindi, tua madre ti aveva già beccato ad avere a che fare con una passerotta, vero?”
“Ehm, non ho detto questo...” disse, balbettando fino a tacere.
Ero più innamorata che mai.
Damn, I Wish I Was Your Lover stava passando in sottofondo. Non sentivo quella canzone da anni. Mi fece pensare. Per mesi avevo combattuto l’impulso di saltargli al collo e mordergli la nuca, consapevole del fatto che la maggior parte dei colleghi l’avrebbe giudicato inappropriato sul luogo di lavoro. Una mancanza loro, secondo me. Rivolsi lo sguardo alla grande terrazza fuori dal bar e pensai che, se fossi riuscita a portare Nick là fuori, avrei finalmente potuto farlo, lontana da occhi indiscreti.
Credevo di avere delle buone possibilità di riuscita, fino a che un collega non entrò. Tim era un consulente dello studio. ‘Consulente’ significava che era troppo vecchio per essere chiamato ‘associato’, ma che non era un mago degli affari. In più, teneva i pantaloni almeno due centimetri più in alto del dovuto intorno alla vita. Lo studio non l’avrebbe mai promosso a socio. Nick e io ci guardammo negli occhi. Fino a quel momento eravamo stati due radio a onda corta impostate sullo stesso canale, perfettamente sintonizzate. Ma ormai la sintonia si era trasformata in interferenza e il suo sguardo si era offuscato. Si era irrigidito e, piano piano, si era allontanato.
Fece un cenno a Tim. “Ehi, Tim, siamo qua.”
Tim ci salutò da lontano e attraversò il bar fumoso. Tutto sembrò muoversi al rallentatore mentre si avvicinava, un piede dopo l’altro, pesantemente. Il pavimento rimbombava a ogni passo, con un’eco di no… no… no… O forse lo stavo dicendo io a voce alta. Non ne ero sicura, ma non faceva alcuna differenza.
“Ehi, Tim, che bello averti qui. Prendi una birra, giochiamo a biliardo.”
Oh, per favore, non ditemi che Nick ha appena invitato Tim a stare qui con noi. Avrebbe potuto rifilargli un ‘ehi come stai buona serata io stavo andando via’, o qualsiasi altra cosa di quel tipo, e invece no, chiese a Tim di unirsi a noi.
Tim e Nick mi guardarono, aspettando una mia conferma.
Mi rifugiai in una breve fantasia, dove eseguivo un impeccabile calcio laterale, colpendo Tim nella pancia e facendolo cadere a terra, dove rimaneva con i conati di vomito. A cosa erano serviti i tredici anni di karate che mio padre mi aveva costretto a fare, se non potevo usarlo in momenti come questi? ‘Ogni donna dovrebbe sapersi difendere, Katie’, mi diceva mio padre, mentre mi accompagnava al dojo.
Forse quella non sarebbe stata tecnicamente autodifesa, ma l’arrivo di Tim aveva infranto le mie speranze di saltare addosso a Nick, con tutto quello che ne sarebbe seguito. Non era forse un motivo valido?
Scacciai quel pensiero. “In realtà, Tim, perché non prendi il mio posto? Sono stata tutta la settimana in aula, sono sfinita. Iniziamo presto, domani. È l’ultimo giorno, il gran finale della squadra Hailey & Hart.” E passai a Tim la mia stecca.
Tim apprezzò l’idea. Chiaramente le donne lo spaventavano. Se mi fossi aspettata che Nick si opponesse mi sarei sbagliata, e infatti non lo fece. Riprese il teatrino ‘Katie chi?’ che faceva fuori dall’ufficio.
Mi toccò un semplice ‘buonanotte’, senza nemmeno l’aggiunta del nome, né Katie né Elena.
Presi un’altra Amstel Light al bar per il tragitto fino alla mia stanza.