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2072 Parole
II Il generale Epancin abitava in una casa di sua proprietà, un po’ in disparte da via Litéjnaja, presso la chiesa della Trasfigurazione. Oltre a questa casa (che era magnifica), per cinque sesti data in affitto, il generale Epancin possedeva anche un enorme casamento in via Sadòvaja, che gli fruttava pure un reddito cospicuo. Aveva per di più, appena fuori di Pietroburgo, una tenuta assai redditizia e vasta; e poi ancora non so che fabbrica nel circondario di Pietroburgo. In tempi lontani il generale Epancin, come a tutti era noto, aveva partecipato ad appalti. Ora aveva parte e godeva di molta autorità in alcune serie società per azioni. Passava per un uomo con molti denari, molte occupazioni e molte aderenze. In vari luoghi, e nel suo impiego fra gli altri, aveva saputo rendersi indispensabile. E nondimeno era noto anche che Ivàn Fédorovic Epancin era un uomo senza istruzione, e della più umile origine; quest’ultima circostanza, senza dubbio, non poteva tornare che ad onor suo, ma il generale, pur essendo intelligente, non era privo di alcune piccole e scusabilissime debolezze e non gradiva certe allusioni. Ma intelligente ed abile era indiscutibilmente. Aveva per sistema, a mo’ d’esempio, di non mettersi in mostra là dove bisognava restar nell’ombra, e molti lo apprezzavano appunto perché era una persona semplice e sapeva come stare al suo posto. Eppure, se avesse saputo, questa gente che lo giudicava così, che cosa avveniva a volte nell’animo di Ivàn Fedorovic, il quale sapeva così bene stare al suo posto! Benché avesse effettivamente pratica ed esperienza degli affari del mondo e alcune notevolissime capacità, più che una persona che si lasci comandare solo dalla propria testa, amava apparire esecutore di idee altrui, uomo “devoto senza adulazione” e anche - dove non arriva l’influsso del nostro secolo? - russo autentico e di cuore. A questo riguardo anzi. gli eran capitati alcuni comici casetti, ma il generale non si scoraggiava mai, nemmeno nei casi più comici; e poi aveva fortuna, persino alle carte; giocava assai forte e non soltanto non cercava di nascondere questo suo piccolo debole per le carte, che in molte circostanze gli era tornato tanto comodo, ma di proposito lo ostentava. Apparteneva a un ambiente misto, sempre, s’intende, di “pezzi grossi”. Ma tutto era ancora in prospettiva, egli aveva tempo, tanto tempo davanti a sé, e tutto doveva venire col tempo, una cosa dopo l’altra. Il generale Epancin poi era ancora, come si dice, nel maggior vigore degli anni, ne aveva infatti cinquantasei, non uno di più, e senza dubbio è questa l’età più florida, l’età in cui comincia sul serio la vera vita. La salute, il colorito, i denti forti, anche se neri, la tarchiata, solida corporatura, l’espressione del viso pensierosa la mattina in servizio, gioviale la sera davanti alle carte o dal signor conte, tutto favoriva le presenti e le future fortune di Sua Eccellenza e gli cospargeva di rose la vita. Il generale possedeva una famiglia fiorente. A dir vero, lì non eran più tutte rose, ma c’era dell’altro in compenso, su cui già da tempo avevan cominciato a concentrarsi con serio fervore le principali speranze e mire di Sua Eccellenza. E quale scopo nella vita è più grave e più santo di quelli paterni? A che appoggiarsi, se non alla famiglia? La famiglia del generale si componeva della moglie e di tre figlie grandi. Egli aveva sposato da moltissimi anni, quando aveva ancora il grado di tenente, una ragazza quasi della sua stessa età, che non possedeva né bellezza né istruzione e che gli portò in dote solo cinquanta anime, le quali gli servirono, è vero, a porre le fondamenta della sua ulteriore fortuna. Ma in seguito il generale non si era lamentato mai del suo matrimonio precoce, non l’aveva considerato mai come l’errore di una giovinezza ignara di calcoli, e la sua consorte egli la stimava a tal segno, e a tal segno qualche volta ne aveva timore, che le voleva perfino bene. La generalessa apparteneva alla schiatta principesca dei Myskin, schiatta senza lustro sì, ma assai antica, e per la sua origine aveva un gran concetto di sé. Un certo personaggio autorevole del tempo, uno di quei protettori, del resto, a cui la protezione non costa nulla, aveva acconsentito a favorire il matrimonio della principessina. Aveva aperto al giovane ufficiale una porticina e l’aveva spinto avanti: quello forse non avrebbe avuto bisogno nemmeno di una spinta, ma solo magari di un’occhiata; non si sarebbe perduto di sicuro! Con poche eccezioni, i due sposi avevano vissuto d’accordo tutto il tempo della loro lunga carriera coniugale. Fin dagli anni giovanili, la moglie del generale, come principessa di nascita e ultima della schiatta, e forse anche per le sue doti personali, si era saputa trovare alcune altissime protettrici. In seguito, pervenuto il marito alla ricchezza e ad un posto importante, aveva anche cominciato a prender piede in quell’alta società. Negli ultimi anni eran cresciute e s’erano fatte adulte tutt’e tre le figlie del generale: Aleksandra, Adelaida e Aglaja. Veramente, non erano tutt’e tre che delle Epancin, ma, dal lato materno, di sangue principesco, con una dote non piccola, con un padre che per l’avvenire aspirava forse a un posto molto elevato, e - cosa pure di una certa importanza - eran tutt’e tre bellissime, non esclusa la maggiore, Aleksandra, che già aveva toccato i venticinque anni. Quella di mezzo ne aveva ventitre e la minore, Aglaja, ne aveva appena compiuto venti. Questa sorella minore era anzi una vera bellezza e in società cominciava a richiamare l’attenzione generale. Ma non era ancora tutto: si distinguevano tutt’e tre per istruzione, ingegno e qualità varie. Era noto che si volevano un bene straordinario e si sostenevano a vicenda. Si accennava perfino a certi sacrifici fatti dalle due più grandi a vantaggio dell’idolo comune della casa, la minore. In società non solo non piaceva loro mettersi in vista, ma erano anzi troppo modeste. Nessuno le poteva tacciare di superbia e di arroganza, eppure si sapeva che erano orgogliose e conscie del proprio valore. La più anziana era musicista, quella di mezzo una valente pittrice; ma per molti anni quasi nessuno ne aveva mai saputo nulla, e la cosa si era scoperta solo negli ultimi tempi, e per giunta casualmente. In una parola, se ne diceva un gran bene. Ma c’erano anche i malevoli. Si parlava con terrore dei molti libri che avevan letti. Di maritarsi non avevan fretta; apprezzavano, sì, un certo ambiente sociale, ma non troppo. Questo era tanto più notevole, in quanto tutti conoscevano le tendenze, il carattere, le mire e i desideri del loro genitore. Eran già circa le undici, quando il principe sonò in casa del generale. Il generale abitava al secondo piano e occupava un appartamento abbastanza modesto, sebbene adeguato alla sua condizione. Aprì al principe un servo in livrea, ed egli dovette dar lunghe spiegazioni a quest’uomo, che fin dal principio aveva guardato con sospetto lui e il suo fagottino. Finalmente, dopo la sua ripetuta e precisa dichiarazione di essere davvero il principe Myskin e di dover senza meno vedere il generale per un affare indispensabile, il dubitoso servitore lo accompagnò in una piccola anticamera lì accanto, attigua alla sala di ricevimento e allo studio, e lo consegnò nelle mani di un altro servo che la mattina era di turno in quell’anticamera e annunciava al generale i visitatori. Quest’altro servo era in marsina, aveva più di quarant’anni e un’aria preoccupata, ed era inserviente di gabinetto e l’usciere particolare di Sua Eccellenza, ragione per cui sapeva farsi valere. - Aspettate in sala e il fagottino lasciatelo qui, - proferì, mettendosi a sedere con lenta gravità nella sua poltrona e gettando occhiate meravigliate e severe al principe, che gli si era accomodato accanto sopra una seggiola, col suo fagottino tra le mani. - Se permettete, - disse il principe, - preferirei aspettar qui con voi; che farei là, solo? - Nell’anticamera non dovete stare, perché siete un visitatore, vale a dire un ospite. Volete parlare col generale in persona? Il domestico, si vedeva, non poteva rassegnarsi all’idea di far passare un simile visitatore, e perciò si era deciso a quella nuova domanda. - Sì, è per affari... - cominciava già il principe. - Io non vi domando che affari sono, il mio dovere è solo di annunciarvi. E se non c’è il segretario, l’ho detto, non vi andrò ad annunciare. La diffidenza di quell’uomo pareva crescere sempre più: troppo il principe si scostava dal tipo dei quotidiani visitatori, e sebbene al generale abbastanza spesso, quasi ogni giorno, a una cert’ora, toccasse ricevere, specialmente per affari, gente a volte anche svariatissima, il cameriere, nonostante la pratica e le istruzioni assai ampie che aveva, era in gran perplessità; per annunciarlo, l’intervento del segretario era indispensabile. - Ma voi proprio.., venite dall’estero? - domandò alla fine come involontariamente, e si confuse; forse voleva domandare: “Ma siete proprio il principe Myskin?”. - Sì, sono sceso or ora dal treno. Mi pare che voleste domandare se sono proprio il principe Myskin, ma che per educazione non l’abbiate domandato. - Uhm!... - mugolò il domestico meravigliato. - Vi assicuro che non vi ho detto una bugia, e non avrete noie per me. Quanto al mio aspetto e al mio fagottino, non c’è da stupirsene; in questo momento la mia condizione non è brillante. - Uhm!... Vedete, non è questo che io temo. Ad annunciarvi sono obbligato, e verrà fuori il segretario, salvo che voi... Ecco, è proprio questo, salvo che... Non è per povertà che sollecitate il generale, oso chiedere, se è lecito? - Oh no, siatene ben sicuro. Il mio affare è un altro. - Scusate, l’ho domandato vedendovi costa. Aspettate il segretario; il generale ora è occupato con un colonnello, ma poi verrà il segretario... quello della Compagnia. - Allora, se devo aspettare molto, vi vorrei chiedere se non potrei fumare un poco in qualche cantuccio. Ho con me pipa e tabacco. - Fu-ma-re? - e il cameriere lo squadrò con uno stupore sprezzante, come se ancora non credesse ai suoi orecchi: - fumare? No, qui non potete fumare, e dovreste vergognarvi anche a pensarci. Eh!... che stramberia! - Oh, non ho mica chiesto di fumare in questa stanza; lo so bene; andrei in qualche altro posto che voi m’indichereste, perché ci sono avvezzo e sono ormai tre ore che non fumo. Del resto, sia come piace a voi; sapete, c’è un proverbio: nel monastero altrui... - Be’, come farò ad annunciare uno come voi? - borbottò quasi involontariamente il cameriere. - Prima di tutto, non dovreste nemmeno trovarvi qui, ma starvene in sala, perché siete qui come visitatore, vale a dire come ospite, e mi si chiederà conto... Ma avete forse l’intenzione di abitare da noi? - soggiunse, dopo avere ancora una volta sbirciato il fagottino del principe che, evidentemente, non gli dava pace. - No, non credo. Anche se m’invitassero, non rimarrei. Son venuto soltanto per far conoscenza e nient’altro. - Come? far conoscenza? - domandò il cameriere meravigliato, con diffidenza triplicata: - perché avete detto in principio ch’era per affari? - Oh, quasi non è per affari! Cioè, se volete, ho pure un affare, così, solo un consiglio da chiedere, ma soprattutto desidero presentarmi, perché io sono il principe Myskin, e la generalessa Epancinà è anche lei l’ultima delle principesse Myskin, e oltre a me e a lei di Myskin non ce n’è più altri. - Cosi, siete anche parente? - disse riscotendosi il domestico, già quasi del tutto spaventato. - Anche questo quasi non è vero. Certo, a tirarla ben bene, una parentela c’è, ma tanto lontana, che, in realtà, è perfino impossibile calcolarne il grado. Una volta, dall’estero, mi rivolsi alla generalessa per lettera, ma non mi rispose. Pure, tornato qua, m’è parso necessario entrare in rapporti. E a voi spiego tutto questo, perché non abbiate dubbi, giacché vedo che non siete ancora tranquillo: annunciate che c’è il principe Miskin, e dall’annuncio stesso apparirà il motivo della mia visita. Se mi ricevono, bene; se non mi ricevono, magari andrà benissimo lo stesso. Ma credo che non possano non ricevermi: la generalessa vorrà certamente vedere l’unico rappresentante diretto della sua famiglia, e, come ho sentito dire in modo preciso, lei ci tiene molto alla sua stirpe. La conversazione del principe sembrava la più semplice del mondo, ma, quanto più semplice era, tanto più, in quel caso, pareva stramba, e l’esperto cameriere non poteva non aver la sensazione di qualcosa che è del tutto lecito tra persona e persona, e del tutto sconveniente tra visitatore e personale. E poiché il personale è molto più intelligente di quel che non lo stimino di solito i suoi padroni, così anche al cameriere passò per il capo che i casi lì erano due: o il principe era un qualche bighellone venuto proprio per un soccorso, o era semplicemente uno sciocco senza dignità, perché un principe intelligente e che avesse della dignità non sarebbe rimasto in anticamera e non avrebbe parlato di fatti suoi con un domestico; per conseguenza, nell’uno come nell’altro caso, non gli sarebbe toccato aver delle noie per lui?
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