II.Era già tardi quando Auclair lasciò il Chateau, e nel giardino dei Cappuccini oltrepassò il palazzo del nuovo vescovo scendendo a casa sua. Abitava nella strada tortuosa e profonda, chiamata la Cote de la Montagne, l’unica via che unisse la città alta a quella bassa. Probabilmente non era che il letto di un ruscello quando Champlain e i suoi uomini lo avevano scalato la prima volta, per piantare i gigli di Francia sulla cresta di quel dirupo nudo. Il canale era adesso una profonda via petrosa, con botteghe da un lato, e dall’altro il muro di sostegno del palazzo del vescovo. Auclair vi abitava per due ragioni: per essere più vicino quando il Conte di Frontenac lo avesse chiamato con premura al castello, e perché, posta sulla strada tortuosa che univa le due metà di Québec, la sua bottega era egualmente comoda per i cittadini d’entrambe.
Aprendo la porta, lo speziale trovò la bottega vuota, illuminata da una sola candela. Dietro, nella sala, in parte separata dalla bottega da scaffali e cassettoni, il fuoco ardeva nel camino, e la rotonda tavola da pranzo era già apparecchiata con una tovaglia bianca, candelieri d’argento, bicchieri, e due limpide caraffe, una di vino rosso e l’altra di vino bianco.
Dietro la sala c’era una piccola cucina dal tetto basso, costruita di pietra, mentre il resto della casa era di legno, al modo antico di Québec, doppie pareti, con lo spazio fra i due telai pieno di segatura e di cenere, perché con uno spessore di circa quattro piedi proteggessero dal freddo. Dalla cucina due piacevoli cose vennero a salutare il farmacista: il denso profumo di un pollo che arrostiva, e la voce di una bambina che cantava. Quand’egli chiuse dietro di sé la pesante porta di legno la voce chiamò: «Sei tu, babbo?»
La figlia gli corse incontro: una fanciullina di dodici anni, che cominciava a farsi alta, vestita d’una sottana corta e d’una giacca da marinaio, con i capelli castani tagliati come quelli di un bambino.
Auclair si chinò a baciarla sulle guance arrossate: «Pas de clients?» chiese.
«Mais si, beaucoup de clients. Ma avevano tutti bisogno di cose molto semplici; le ho trovate tutte facilmente, e ne ho preso nota. Ma perché sei stato fuori tanto tempo? Il signor Conte è ammalato?»
«Non proprio ammalato, ma vi sono notizie inquietanti da Montréal».
«Cambiati il vestito, ora, babbo, e accendi le candele. Io devo sorvegliare il pollo. Mère Laflamme aveva cercato di vendermi un gallo, ma io le ho detto che mio padre di galli non ne voleva sapere». Gli occhi della figlia avevano la stessa forma di quelli del padre, ma erano molto più scuri, d’un azzurro cupo, quasi neri quand’ella era eccitata: e ora lo era per il suo arrosto. Sua madre era morta due anni prima, ed ella era diventata la massaia di suo padre.
Contrariamente all’abitudine dei suoi vicini, Auclair d’inverno cenava alle sei, d’estate alle sette, quando il lavoro della giornata era finito, come faceva a Parigi – quantunque anche là quasi tutti pranzassero a mezzogiorno. Ora egli abbassò la tenda sulle due finestre della bottega, indizio per i suoi vicini che non doveva essere disturbato se non per seri motivi. Dopo essersi messo l’abito da casa, accese le candele, e portò per la figlia la pesante terrina di minestra.
Mangiarono la minestra quasi in silenzio. Tutti e due erano un po’ stanchi, e mentre la fanciulla portava l’arrosto, egli versò un bicchiere di vino rosso per lei, e uno di bianco per sé.
«Babbo», disse mentre il padre cominciava a cenare, «quando la zia Blanche e la zia Clothilde potranno avere le nostre lettere?»
Auclair rifletteva. Ogni autunno i coloni si rivolgevano la stessa domanda, e rifacevano gli stessi conti: «Ecco, se la Bonne Espérance è fortunata, può giungere a La Rochelle in sei settimane. Certo, il viaggio è già stato fatto in cinque: ma diciamo sei. Poi, se le strade sono cattive, ed è probabile che lo siano in dicembre, dobbiamo calcolare una settimana per giungere a Parigi».
«E se non ha fortuna?»
«Ma! allora, chi può dirlo? Ma a meno che non incontri burrasche molto forti, può giungere in due mesi. Con questo vento di ovest, sul quale si può sempre contare, essa uscirà molto presto dal fiume e dal golfo, e questa è talvolta la parte più noiosa del viaggio. Quando venni col Conte impiegammo un mese da Percé a Québec. E questo perché facevamo vela appunto contro il vento d’autunno che spingerà la Bonne Esperance al mare».
«Ma a Capodanno le zie avranno certamente le nostre lettere, e allora sapranno come sono contenta del mio berretto e della mia giacca; e quanto mi pesa dover attendere ad aprire la cassetta che è lassù. Posso ricordarmi un po’ di zia Blanche, perché era giovane e bella, e le piaceva giocare con me. Penso che non sia più giovane, ora. Sono passati otto anni!...»
«Non è più giovane del tutto, ma sarà sempre allegra. E poi si è sposata bene, e ha tre bambini che sono per lei una grande gioia».
«Tre cuginetti che non ho visto mai, e una che si chiama come me! Cécile, André, Rachel» ella ripeté affettuosamente i loro nomi. Quei cuginetti erano quasi compagni di giochi per lei; la loro mamma scriveva di loro lettere così lunghe, che a Cécile pareva di conoscerli nei loro caratteri, nei difetti e nei meriti. La cugina Cécile aveva sette anni, ed era molto studiosa, bien sérieuse, si preparava già per la Cresima; ma avrebbe voluto mangiare soltanto dolci e manicaretti. André aveva cinque anni, sincero e coraggioso, ma si rosicchiava le unghie. Rachel era una bimba che metteva ancora i denti, quando erano state scritte le ultime notizie.
Cécile avrebbe preferito vivere con zia Blanche o con i suoi figli, quando fosse tornata in Francia; ma per desiderio di sua madre doveva andare con zia Clothilde, vedova da molto tempo, che aveva buoni mezzi e si interessava molto all’educazione delle fanciulle. Cécile non riusciva a rammentarsi il volto di quella zia, quantunque ne vedesse chiaramente il profilo; le pareva sempre come se stesse contro luce, una donna robusta, bassa e tarchiata, senza essere precisamente grassa, quadrata piuttosto, come un gran mobile di quercia; sempre vestita di nero, il nero vedovile che odorava di tintura, con l’anello d’oro in dito e un fazzoletto bianchissimo in mano. Cécile poteva anche vederne la testa, sul collo corto, che teneva indietro come un generale o un uomo di stato che posasse per il ritratto: ma il volto le appariva confuso, proprio come se la zia stesse nel vano di una porta, contro la luce viva del sole. Cécile tentava ancora una volta di rammentarsi quel volto, quando suo padre la interruppe.
«Che hai stasera per dessert, cara?»
«Il formaggio di crema che hai portato ieri dal mercato, e poi la conserva che preferisci: di prugna, di fragola selvatica o di ribes».
«Oh, di ribes senz’altro, dopo il pollo».
«Ma, babbo, tu preferisci il ribes dopo qualunque cosa, quasi. È una fortuna per noi poter avere dal Conte lo zucchero di cui abbiamo bisogno. I nostri vicini non possono permettersi di fare delle conserve, con lo zucchero così caro. E quella di ribes ne richiede più di ogni altra».
«Vi è qualcosa di molto gustoso nell’aroma di questo ribes, un asprigno che piace. In Francia il ribes è molto più grosso e più bello, ma a me questo sapore amaro è venuto a piacere».
«En France nous avons tous les légumes, jusq’aux dattes,» mormorò Cécile. Ella non aveva mai visto un dattero, ma aveva imparato quella frase da un libro, quando andava a scuola dalle Orsoline.
Finito il pranzo, lo speziale si ritirò nella bottega a fare i suoi conti, mentre la figlia lavava i piatti. Aveva appena cominciato, quando udì un grattare leggero sull’unica finestra della cucina. Attraverso i piccoli quadrelli di vetro un volto guardava dentro: un volto spaventoso, ma di cui ella attendeva l’apparizione. Fece un cenno col capo e col dito: un uomo piccolo e tozzo scivolò nella cucina. Pareva che entrasse a malincuore eppur trascinato da un desiderio più forte della sua ripugnanza. Cécile andò alla stufa, e riempì una scodella.
«Eccovi la minestra, Louchard».
«Merci, mam’selle». L’uomo parlava da un angolo della bocca, e guardava di fianco. Era così terribilmente strabico, che Cécile non l’aveva mai potuto vedere negli occhi. Per questo lo chiamavano Louchard. Egli trasse di tasca una mezza pagnotta, e cominciò a mangiare la minestra avidamente, senza far rumore. Mangiare era difficile per lui, – una volta gli era venuto un ascesso alla mandibola, che era andata in suppurazione, e ne erano usciti frammenti d’osso. Da quella parte la faccia gli si raggrinziva sulla vecchia cicatrice. Egli sapeva che faceva pena a Cécile il sentire gorgogliare la minestra, e perciò lottava fra l’avidità e l’attenzione bagnando il pane perché fosse più facile masticarlo.
Quel pover’uomo sfregiato lavorava lì vicino, sorvegliava i fuochi di Nicolas Pigeon, il fornaio, perché questi potesse dormire la notte. Per salario il padrone gli dava i suoi abiti vecchi, due paia di scarpe all’anno, una pinta di vino al giorno e tutto il pane che voleva. Ma non gli dava minestra di sorta: madame Pigeon aveva troppi bambini da sfamare.
Quando egli ebbe terminato la scodella e la pagnotta, si alzò, e senza dire nulla, prese due grandi secchie di legno: una era piena dei rifiuti di cucina della giornata, l’altra piena d’acqua sporca. Li portò giù dalla salita, e per la piazza del Mercato giunse alla riva e li vuotò nel fiume. Al ritorno, trovò un bicchierino di acquavite che lo attendeva sulla tavola.
«Merci, mam’selle, merci beaucoup», mormorò. Si sedette, lo sorseggiò lentamente, guardando Cécile che ordinava la cucina per la notte. Vi rimase finché il pavimento fu spazzato, l’ultimo piatto messo a posto sul palchetto, lo strofinaccio appeso ad asciugare su un filo teso sopra la stufa, seguendo attentamente con gli occhi strabici tutte quelle operazioni. Quand’ella prendeva la candela, egli doveva andarsene. Posò il bicchiere, si alzò, e aprì la porta di fondo, ma i suoi piedi parevano inchiodati sulla soglia. Stava sbirciando con quell’aria incredibilmente stupida, guardando di fianco, e Cécile non sapeva se guardasse lei o che altro. Egli fece come per abbottonarsi l’abito, quantunque non avesse bottoni.
«Bonsoir, mam’selle», mormorò.
Poiché questo avveniva ogni sera, Cécile non vi fece caso. Sua madre aveva cominciato a occuparsi di Louchard un po’ prima di ammalarsi, e ne aveva trasmesso la cura alla figlia. Egli era comparso in colonia quattro anni prima, e come molti altri che vi arrivavano non aveva nessun mestiere. Era forte, ma di così brutto aspetto che nessuno lo aveva preso. Il vicino Pigeon lo aveva trovato fidato e sottomesso, e gli aveva insegnato ad attizzare il fuoco, a sorvegliare i forni dalla mezzanotte al mattino. Madame Auclair ebbe compassione del poveretto, e cominciò a dargli una minestra alla sera, e a fargli fare i lavori più pesanti, portare la legna e l’acqua, gettar via le spazzature. Ella aveva sempre chiamato Louchard col suo vero nome, Jules. V’era una grotta nel dirupo roccioso dietro la casa del fornaio, e in quella egli teneva il suo cassone e dormiva nella buona stagione. D’inverno, si sdraiava tra i forni, ovunque potesse trovare posto, e i suoi abiti e i suoi capelli rossi e lanosi erano sempre bianchi di cenere.
Molti avevano paura di lui, immaginando che avesse pensieri storti dietro lo sguardo storto. Ma i Pigeon e gli Auclair si erano abituati a lui, e lo avevano trovato del tutto innocuo. Il fornaio diceva di non aver mai potuto scoprire come quell’uomo avesse vissuto in patria, e perché fosse venuto in Canada. Uomini buoni a nulla ne erano venuti parecchi, certo, ma d’ordinario erano avventurieri che detestavano il lavoro onesto, venivano per cacciare gli Irochesi, o trafficare in pelli di castoro, o vivere liberamente di caccia nella foresta. Ma Louchard non aveva mai preso in mano un archibugio; aveva un orrore tale della foresta, che non sarebbe neppure andato nei boschi più prossimi per aiutare ad abbattere gli alberi da far legna, e la sua paura degli indiani era tanta che era diventato la favola della Còte de la Montagne. Pigeon diceva che se il Conte avesse voluto dare una lezione agli Irochesi al di là di Cataraqui, Louchard si sarebbe nascosto nella sua grotta di Québec. Louchard tentava di giustificarsi dicendo di essere stato avvertito in sogno che gli Indiani lo avrebbero preso e torturato.
La cena era l’avvenimento più importante della giornata in casa dello speziale. Il pranzo non era che uno spuntino; la colazione si componeva di una tazza di cioccolata, che Auclair preparava da sé con grande cura, e di un pane fresco portato dal figlio maggiore di Pigeon. Ma egli considerava la cena come ciò che lo conservava uomo civile e francese; la cena lo metteva di buon umore, e con sua figlia passava di solito lunghe serate realmente felici, senza altri visitatori. Lei gli leggeva ad alta voce le Favole di La Fontaine, o il suo favorito Plutarco; e lui correggeva il suo accento, perché non avesse da vergognarsi quando fosse tornata in patria, sotto la tutela della intelligente ed esigente zia Clothilde. Alla sera soltanto suo padre aveva tempo di discorrere con lei; tutto il giorno era occupato a compor rimedi, a visitare malati, a prender note per un’opera sulle proprietà medicinali delle piante canadesi, che intendeva pubblicare dopo il suo ritorno a Parigi. Ma alla sera era libero, e mentre gustava il tabacco spagnolo, i suoi discorsi con la figlia talvolta li portavano assai lontano nel passato. Egli cercava di rievocare alla figlia la vecchia bottega sul Quai des Célestins, dov’era cresciuto, e dove ella stessa era nata; a lei pareva di rammentarsene un po’ quantunque avesse appena quattro anni quand’erano partiti con il Conte per il Nuovo Mondo. Era uno stretto vano, quella bottega, accanto al cortile delle vetture nella casa di città dei Frontenac. La cameretta di Auclair, nella quale egli aveva dormito dai sei anni fino al matrimonio, era al terzo piano, sotto al tetto, e la finestra dava sulla corte, e al di là guardava la fronte della casa signorile, che aveva sulla strada soltanto una parete cieca, e la facciata sul cortile.
Quand’era bambino, – così raccontava a Cécile, – gli pareva che non avvenisse mai laggiù nessun cambiamento, salvo che dopo la pioggia i ciottoli del cortile erano più bianchi e l’edera sui muri più verde. Ogni mattina egli guardava dalla finestra nella quiete sempre eguale, le finestre del palazzo sempre chiuse dietro le inferriate, i gradini sotto il portone d’ingresso verdi di muschio, l’erba pallida che cresceva fra le pietre della corte, le stalle vuote, e, dietro, le grandi porte delle rimesse sempre chiuse, – quantunque in una di esse fosse tagliata una porticina, dalla quale andava e veniva il vecchio custode.
«Naturalmente», diceva Auclair alla figliola, «pensavo che quel cortile che io avevo visto sempre uguale dovesse rimanere sempre così, e che forse era così per dare a un bimbo il piacere di guardare le rondini fare il nido nell’edera. Il Conte era venuto alla sua casa una volta quando io ero in fasce, e una volta, credo, quando avevo tre anni, ma non posso rammentarmene. Immagina il mio stupore quando una sera, al buio, un cocchio polveroso con quattro cavalli percorse il Quai, e si fermò al cancello delle vetture. Due valletti saltarono da cassetta, suonarono la campana, e appena tolto il chiavistello cominciarono a spingere e far muovere i battenti che in vita mia non avevo mai visto aperti. A me pareva che si commettesse una violenza, e che si dovesse chiamare la polizia. Finalmente il cancello fu spalancato, e la vettura entrò rumorosamente nel cortile. Se sia accaduto qualche cosa d’altro quella sera, non ricordo.
«La mattina dopo fui svegliato da un grido sotto la mia finestra, e dal rumore di imposte che venivano aperte. Corsi al davanzale, e mi affacciai. Non solo erano aperte le imposte, ma le finestre di fronte erano spalancate. Tre giovanotti si sporgevano dalle ringhiere a battere coperte, a scuotere tappeti, tende. Venne un fabbro col suo grembiule di cuoio e una cassetta di arnesi, e cominciò a riparare i cardini delle porte. Ragazzi andavano e venivano, portando pane, latte, polli, sacchi d’avena e fieno per i cavalli. Quando scesi per colazione, trovai babbo e mamma e i nonni tutti eccitati e contenti, che discorrevano con animazione; sapevano già in che camera aveva dormito il Conte la notte, come si chiamavano i suoi scudieri, che cosa aveva portato per cena da Fontainebleau in un gran cesto, e quali vini il vecchio Joseph era andato a prendere in cantina. Io non avevo mai udito la mia famiglia parlar tanto.
«Poco dopo colazione venne alla nostra bottega il Conte in persona. Salutò familiarmente mio padre, e cominciò a chiedere della gente del quartiere come se fosse stato assente solo qualche settimana. Domandò di mia madre e di mia nonna, ed esse vennero a fargli omaggio. Mi fecero uscire da sotto il banco dove m’ero nascosto, e mi presentarono a lui. Io avevo paura, perché egli era in uniforme, con certi stivaloni alti così. Sì, quarant’anni fa egli aveva una bella figura d’uomo, ma era anche più impetuoso e irrequieto che non sia ora. Ricordo che mi chiese se avrei voluto fare il soldato, e quando gli dissi che intendevo essere speziale come mio padre, si mise a ridere e mi diede una moneta d’argento».
Se Auclair parlava tanto spesso alla figlia del passato, non era certo perché nulla avvenisse nel presente. A quel tempo la città di Québec aveva poco meno di duemila abitanti, ma era sempre piena di gelosie e di litigi. Per quanto Cécile potesse ricordare, v’era sempre stata discordia fra il Conte di Frontenac ed il vecchio vescovo Laval. E ora che il nuovo vescovo, monsignor di Saint Vallier, era appena tornato dalla Francia dopo una’assenza di tre anni, il Conte già litigava con lui! E poi v’erano sempre questioni fra i due vescovi stessi, riaccese con nuovo vigore al ritorno di Saint Vallier. Nella diocesi tutti si schieravano dalla parte di un prelato o dell’altro. Da quando era sbarcato, in settembre, era difficile che passasse settimana senza che monsignor di Saint Vallier non contrariasse qualche piano caro al vecchio vescovo.
Prima di andare a letto, Auclair e sua figlia facevano ordinariamente una passeggiata. Lo speziale riteneva utile questa abitudine per conciliare un buon sonno. Quella sera, uscendo nell’aria gelata, videro, al ciglio della ripida rupe, il Chateau che si stagliava contro lo splendido cielo notturno, col secondo piano dell’ala meridionale tutto illuminato.
«Immagino che le candele del Conte rimarranno accese per un pezzo anche dopo mezzanotte», osservò Cécile.
«Ah, il Conte ha parecchie cose che lo preoccupano. Il re non è stato molto generoso nel compensare i suoi servizi nell’ultima campagna. E poi, è vecchio, e i vecchi non dormono molto».
Più in su per la salita, passarono di fronte al nuovo palazzo episcopale di monsignor di Saint Vallier, e anche quello aveva le luci accese. Cécile si soffermò per guardar dentro all’edificio, per il quale il re stesso aveva dato quindicimila franchi. Si diceva che monsignore, per arredarlo, avesse portato con sé molti bei mobili e molte tappezzerie. Ma si diceva che egli non volesse bene ai fanciulli, come il vecchio vescovo, e i suoi servi erano molto rigidi, e pareva non vi fosse modo di gettare uno sguardo dietro le pesanti cortine delle finestre.
La loro passeggiata era quasi sempre la stessa: sopra una rocca a picco, tagliata da strade buie e scabrose, non v’erano molte vie per cui dopo il tramonto si potessero fare quattro passi senza badare troppo dove mettere il piede. Quando il vento non soffiava troppo forte, essi di consueto prendevano il sentiero a ridosso del Cap Diamant, e guardavano la città addormentata e la grande strada pallida del fiume, e la foresta nera che si stendeva dietro a essa fino al cielo. Di là, la città bassa era soltanto una fila di luci sparse lungo il bordo dell’acqua. La vetta della rocca, con le masse brune dei conventi, delle chiese, dei giardini, ora dormiva. Le sole finestre illuminate erano quelle del Chateau, del palazzo vescovile, e dell’ultimo piano del seminario del vecchio vescovo Laval, sullo sperone che dominava il nume. A quell’ultimo piano, diceva lo speziale alla figliola, era la biblioteca, e probabilmente qualche giovane seminarista canadese, che trovava ostico il latino, vegliava lassù alle prese con i Padri della Chiesa.