Il commendatore

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Il commendatore Come quasi tutte le persone, anche l’esimio professor Terzilio Terzi, storiografo di fama mondiale, insegnante in una famosa università americana, aveva trascorso la giovinezza nel paese dove era nato. Motivi di lavoro per lui, i casi della vita per altri, lo avevano poi condotto a vivere, prima, in una grande città italiana; poi, in una metropoli degli Stati Uniti d’America. Tuttavia, una parte di lui era rimasta idealmente attaccata al luogo d’origine e in particolare a un Caffè affacciato sulla piazza principale del paese, ai cui tavolini, da giovanotto, era consuetudine incontrarsi tutte le sere con gli amici per giocare lunghe partite a carte, per fare quattro risate e per intavolare accesissime discussioni sugli argomenti più disparati. Era quindi logico che, quando gli si presentava l’opportunità di tornare in patria e di poter respirare per qualche giorno l’aria nativa, amasse sedersi a uno di quei tavoli e riandare con la mente al passato. Il locale, col passare degli anni, aveva subito trasformazioni radicali; modernizzato in tutti i suoi componenti, era stato arredato a imitazione dei Caffè delle città. I proprietari erano nuovi, poiché quelli di una volta avevano da tempo ceduto l’attività ed erano ormai passati a miglior vita. Il professore, in quelle occasioni, era sempre solo, dato che gli amici di una volta erano quasi tutti dispersi per il mondo e i pochi rimasti non avevano più né tempo né voglia di sedersi ai tavoli del loro bar. In queste condizioni è molto difficile ricreare con i ricordi le vecchie usanze, rivedere nella mente le vecchie facce, respirare la vecchia atmosfera, ma qualche volta ci si riesce. Mentre era assorto in queste fantasticherie, il professor Terzilio aveva notato che al tavolino vicino al suo avevano preso posto un signore distinto ed elegantissimo, una signora altrettanto elegante e una bambina che a prima vista gli parve capricciosa e viziata. Fu ordinato un caffè per i due adulti e un gelato per la piccola. Il professore non avrebbe dato sicuramente peso a questa normalissima situazione, se non si fosse accorto, con un certo imbarazzo, che il signore distinto aveva preso a fissarlo con attenzione e a confabulare con quella che sembrava essere sua moglie, sempre osservandolo bene. Il nuovo venuto, che portava un paio di occhiali con la montatura in oro, se li era tolti, li aveva puliti accuratamente dopo avervi alitato sopra a lungo e li aveva rimessi sul naso, con l’evidente scopo di osservarlo ancora meglio. L’imbarazzo iniziale si era andato trasformando in un vero e proprio disagio, quando lo sconosciuto, sporgendosi un poco verso di lui: “Mi perdoni,” disse, “ma lei non è, per caso, nato da queste parti?” “Esatto!” rispose 1’interrogato. “Ma…” E qui avrebbe voluto precisare che non era nato lì proprio per caso; ma non ebbe modo di proseguire. “Hai visto, Evelina, che avevo ragione?” Continuò lo sconosciuto signore rivolto con un occhio alla moglie e con l’altro al professore. “Anche se sono passati tanti anni, la mia spiccata facoltà di fisionomista non mi ha ingannato. Lei, naturalmente, non riuscirà a ricordarsi di me: non tutti, purtroppo per loro, possono avere le mie doti! lo la conoscevo e la conosco bene. Da ragazzi abitavamo nella stessa strada, addirittura in case vicine, ma io frequentavo tutt’altra compagnia rispetto alla sua, amici più elevati e di ben altra estrazione sociale. D’altronde,” continuò con aria professorale rivolto a moglie e figlia, “ricordatevi che se le persone avranno o non avranno un futuro, dipende in gran parte dalle loro amicizie. Lei non lo saprà certamente, non è colpa sua, che io sono commendatore. Anzi, da questo momento ti do del tu perché il mio titolo me lo impone moralmente. È inutile che ti scusi con me per non esserlo a tua volta,” riprese in fretta rintuzzando un tentativo di replica iniziato dal suo ascoltatore allibito. “È del tutto inutile. Comprendo che è il fatto di continuare a vivere qua che ti isola, che ti avvilisce, che ti degrada. Se io fossi rimasto, oggi non sarei quello che sono e soprattutto non sarei commendatore. Tu non sei commendatore, vero?” chiese improvvisamente, ma col tono di chi fa una domanda retorica. E al diniego fatto col capo dall’interrogato riprese rivolto alla signora: “Che ti dicevo, Evelina? Non è commendatore. E sai perché non lo è? Perché è un poveraccio, che non è riuscito a scrollarsi di dosso la maledizione di essere nato in un paese. Secondo me è un impiegatuccio di terz’ordine. Basta guardarlo… con quell’aria dimessa… con quel vestituccio spiegazzato…” Il professore ascoltava e trasecolava. Possibile, si chiedeva, che esistessero persone del genere? Possibilissimo, si rispondeva, tanto è vero che ne aveva una a pochi centimetri dalla spalla. Ma non ebbe il tempo di pensare ad altro, poiché quello, instancabile, aveva ripreso a parlare rivolgendosi a lui: “Non ti sarai mica offeso per ciò che ho detto? Sarebbe assurdo, perché la verità non offende mai. Vedi quell’automobile targata Milano ferma accanto a quel macchinone con targa americana? È mia, ma non avrei mai potuto farmela se fossi rimasto qui. Tu ce l’hai l’auto?” chiese all’improvviso con un’espressione della voce piena di sufficienza. Il professore, che cominciava a divertirsi, fece di nuovo un segno di diniego con la testa. “Hai visto, Evelina? Non ha l’auto! Forse avrà una vecchia bicicletta, magari pure arrugginita.” E rivolto al professore: “Hai una bicicletta?” domandò. Altro segno di diniego. “Non ha neppure una bicicletta. Che ti dicevo? È un poveraccio!” Intanto il cameriere aveva portato i caffè ordinati e il gelato, accompagnando il tutto con un bicchiere pieno di invitante acqua fresca, di quell’acqua buona come ancora si trova in alcuni paesi. Il signore sorbì il suo caffè tutto d’un fiato, ustionandosi la lingua e la gola perché era bollente e cacciando un urlo disumano che spaventò la bambina al punto di farle cadere il gelato sul vestitino. “Ma questo è fuoco, accidenti!” imprecò con le lacrime agli occhi. L’uomo si riprese subito, però. Dette uno schiaffo alla figlia, che immediatamente cominciò a frignare, poi si rivolse di nuovo al professor Terzi: “Mi devi credere: in città tutto questo non avviene! È inutile che voi diciate che le città sono piene di veleni. Tutte storie! Abbiamo forse l’aspetto di persone avvelenate? No di certo! Siamo sicuramente più pallidi di voi campagnoli, ma questo pallore ci conferisce un’aria distinta, signorile. Tu mi obietterai: ma l’aria che respirate non è forse carica di sostanze venefiche? Ciò può essere in parte vero, ma io affermo che se da noi, a Milano, l’aria è un po’ inquinata, da voi qui in campagna è troppo pulita. Io ho costantemente mal di testa da quando respiro la vostra aria. E il rumore della città? Ma lo sai che questo vostro silenzio mi impedisce di dormire? Non parliamo poi dei cibi. Se tu vai in un supermercato, trovi tutto ciò che ti occorre, ben confezionato, sigillato, igienicamente controllato, con aspetto invitante e pienamente garantito. Qui che cosa avete? Cibi grossolani: pane non mangiabile per chi, come noi, è abituato ai grissini più delicati; latte grasso, che deposita sulla superficie un dito di panna semplicemente ripugnante; carne rossa e coriacea, maneggiata senza riguardi, magari con le mani sporche… Una gran pena, credimi! E non parliamo poi dell’acqua… Quella contenuta in questo bicchiere è senza dubbio una vera e propria coltura microbica. Tu dirai: ma la vostra ha il gusto e l’odore del cloro. Certo!, rispondo io, deve averli! È quella, infatti, la garanzia che l’acqua che beviamo è igienicamente sicura. Non è vero, Evelina?” Evelina, che inseguiva chissà quali pensieri, cominciò a fare di sì con la testa. Al commendatore, ormai esausto, erano spuntate due bavette bianche e disgustose agli angoli della bocca. Con la lingua asciutta aggiunse ancora: “Ma tu, paesano, non parli, lasci parlare sempre me… Ah, la rusticità dei provinciali!… Vero, Evelina?” Così dicendo, si abbandonò sulla spalliera della poltroncina e avvicinò alle labbra quel bicchiere pieno fino all’orlo di germi e di microbi. A questo punto, il professor Terzilio Terzi, col cervello ormai liquefatto, capì di averne abbastanza. Si alzò, salutò con un sorriso gentile, augurò a tutti un cortese “Good morning!”, fece alcuni passi e salì sul suo macchinone americano, che scivolò via velocemente con un sibilo appena percettibile. Aveva ancora nelle orecchie l’eco del terribile accesso di tosse che aveva assalito il commendatore. Evidentemente, qualche germe della coltura microbica gli era andato per traverso…
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