V’era gran movimento di gente, ma gente affaccendata senza fretta, la qual cosa distingue il movimento delle strade di Rotterdam da quello di certe strade di Londra, che a parecchi viaggiatori parvero somigliantissime fra loro, in specie per il colore delle case e l’aspetto grave degli abitanti. Visi bianchi, visi pallidi, visi color di cacio parmigiano, capelli biondi, biondissimi, rossicci, giallastri, larghi visi sbarbati, barbe intorno al collo, occhi azzurri, chiari tanto da doverci cercar le pupille; donne tarchiate, grasse, rosee, lente, con cuffiette bianche, e orecchini in forma di cavaturaccioli: son le prime cose che osservai nella folla.
Ma la gente non era quello che per il momento stimolasse di più la mia curiosità. Attraversai l’Hoog-Straat, e mi trovai nella città nuova.
Qui non si sa più dire se è una città o un porto, se c’è più terra o più acqua, se c’è più bastimenti o più case.
Sono lunghi e larghi canali che dividono la città in tante isole, unite per mezzo di ponti levatoi, di ponti giranti e di ponti di pietra. Dalle due parti di ogni canale si stendono due strade, fiancheggiate ciascuna da una fila d’alberi dalla parte dell’acqua e da una schiera di case dalla parte opposta. Tutti questi canali formano altrettanti porti abbastanza profondi da ricevere i più grandi bastimenti, e ogni canale n’è pieno da un capo all’altro, fuor che in un ristretto spazio nel mezzo che serve per l’entrata e per l’uscita. Par di vedere un’immensa flotta imprigionata in una città.
Quando vi giunsi era l’ora del maggior movimento; e io m’andai a piantare sul ponte più alto del crocicchio principale.
Si vedevano quattro canali, quattro foreste di bastimenti, fiancheggiate da otto file d’alberi; le strade ingombre di mercanzie e di gente; branchi di bestiame che passavan sui ponti; ponti che s’alzavano o si spezzavano per lasciar passare i bastimenti, ed erano appena riabbassati o ricomposti, che v’irrompeva su un’onda di gente, di carrozze e di carretti; bastimenti che entravano o uscivano dai canali, lucenti come modelli da museo, colle donne e i bambini dei marinai sul ponte; barchette che guizzavano fra bastimento e bastimento; un via vai d’avventori nelle botteghe; un gran lavorío di serve che lavavano muri e vetrate; e tutto questo movimento rallegrato dal riflesso dell’acqua, dal verde degli alberi, dal rosso delle case, dai mulini altissimi che disegnavano lontano la loro cima nera e le loro ali bianche sul cielo azzurro; e più ancora, da un’aria non vista mai in alcun’altra città settentrionale, di semplicità e di quiete.
Osservai attentamente un bastimento olandese.
Quasi tutti i bastimenti affollati nei canali di Rotterdam non fanno altri viaggi che sul Reno e in Olanda; hanno un albero solo, e son larghi, robusti, e variopinti come barchette da giocattolo. Il fasciame della carcassa è per lo più color verde d’erba montanina, ornato intorno all’orlo d’una striscia rossissima o bianca, o di parecchie striscie, che paiono una gran fascia di nastri di vario colore. La poppa, per lo più, è dorata. Il tavolato del ponte e l’albero sono inverniciati e lucidi, come il più pulito pavimento di sala. Il rovescio dei coperchi delle botole, le secchie, i barili, le antenne, le assicelle, tutto è tinto di rosso, strisciato di bianco o di azzurro. Il casotto dove stan le famiglie dei marinai è anch’esso colorito come un chiosco chinese, e ha i suoi vetri limpidissimi e le sue tendine bianche ricamate e legate con nastri color di rosa. In tutti i ritagli di tempo, marinai, donne e fanciulli sono occupati a lavare, a spazzare, a strofinare da tutte le parti con una cura infinita; e quando poi il loro bastimentino fa la sua uscita dal porto tutto fresco e pomposo come un cocchio di gala, essi ritti sulla poppa cercano con alterezza un muto complimento negli occhi della gente accalcata lungo i canali.
Di canale in canale, di ponte in ponte, arrivai sino alla diga dei Boompjes, dinanzi alla Mosa, dove ferve tutta la vita della grande città commerciale. A sinistra si stende una lunga fila di piccoli piroscafi variopinti, che partono ogni ora del giorno per Dordrecht, per Arnhem, per Gouda, per Schiedam, per Brilla, per la Zelanda, e riempiono continuamente l’aria del suono allegro delle loro campanelle e di nuvoletti bianchi di fumo. A destra ci sono i grandi bastimenti che fanno il viaggio ai vari porti d’Europa, frammisti ai bellissimi navigli a tre alberi che vanno alle Indie orientali, coi nomi scritti a caratteri d’oro: Java, Sumatra, Borneo, Samarang, che ravvicinano alla fantasia quelle terre e quei popoli selvaggi, come un eco di voci lontane. Dinanzi, la Mosa percorsa da un gran numero di barchette e di barconi, e la riva lontana sulla quale s’inalza una foresta di faggi, di mulini a vento, di torri d’officine; e sopra questo spettacolo, un cielo inquieto, pieno di bagliori e di oscurità sinistre, che si agita e si trasforma, come per imitare il movimento operoso della terra.
Rotterdam—cade qui a proposito il dirlo—è, per importanza commerciale la prima città dell’Olanda, dopo Amsterdam. Era già una fiorente città di commercio nel tredicesimo secolo. Ludovico Guicciardini, nella sua opera sui Paesi-Bassi, già rammentata, adduce una prova della ricchezza di quella città nel decimosesto secolo, dicendo che in men d’un anno riedificò novecento case ch’erano state distrutte da un incendio. Il Bentivoglio, nella sua storia della guerra di Fiandra, la chiama terra delle più grosse e più mercantili che abbia l’Olanda. Ma la sua maggior prosperità non comincia che dopo il 1830, ossia dopo la separazione dell’Olanda e del Belgio, che parve fruttare a lei tutto quello che fece perdere alla sua rivale Anversa. La sua situazione è vantaggiosissima. Comunica col mare per la Mosa, che conduce nel suo porto, in poche ore, i più grandi bastimenti mercantili, e per lo stesso fiume comunica col Reno, che le porta dalle montagne della Svizzera e della Baviera una immensa quantità di legname, foreste intere che vanno in Olanda a trasformarsi in navi, in dighe e in villaggi. Più di ottanta bellissimi bastimenti vanno e vengono, nello spazio di nove mesi, tra Rotterdam e le Indie. Le merci vi affluiscono da ogni parte in così grande abbondanza, che debbono essere portate in parte nelle città vicine. Intanto Rotterdam si allarga; vi si stanno costruendo dei vasti magazzini e si lavora intorno a un ponte smisurato che attraverserà la Mosa e tutta la città, stendendo così la strada ferrata che ora s’arresta nella riva sinistra del fiume, sino alla porta di Delft, dove si congiungerà colla strada dell’Aja.
Rotterdam, in somma, ha un avvenire più splendido che Amsterdam, ed è da molto tempo una rivale temuta della sorella maggiore. Non possiede le grandi ricchezze della capitale; ma è più industriosa nel valersi delle sue; intraprende, ardisce, rischia, da città giovane e avventurosa. Amsterdam, come un negoziante divenuto cauto dopo essersi fatto ricco con imprese ardite, comincia a sonnecchiare sui suoi tesori. A Rotterdam, per definire in un tratto le tre grandi città dell’Olanda, si fa fortuna; in Amsterdam, si consolida; all’Aja, si spende.
Si capisce da questo come Rotterdam debba essere guardata un po’ dall’alto in basso dalle altre due città; un po’ considerata come una parvenue, anche per un’altra ragione: che è mercantessa pretta non occupata d’altro che dai suoi affari, e che ha poca aristocrazia, e quella poca non ricchissima e modesta. Amsterdam invece racchiude il fiore dell’alto patriziato mercantile; Amsterdam ha grandi musei di pittura, protegge le arti, è letterata; unisce, in somma, il titolo al sacchetto. Malgrado però la sua superiorità, essa è gelosa della sua sorella cadetta, e questa di lei; gareggiano e si dispettano; quello che fa l’una fa l’altra; quello che il Governo accorda all’una, l’altra lo vuole; in questo stesso momento, aprono tutt’e due un canale verso il mare; due canali dei quali non è ancora ben certo se si potranno servire; ma non monta; i bambini fanno così:—Pietro ha un cavallo;—voglio un cavallo anch’io; e il Governo, babbo condiscendente, deve contentare il grande e il piccino.
Visto il porto, percorsi tutta la diga dei Boompjes, sulla quale si stende una schiera non interrotta di grandi case nuove, costrutte all’uso di Parigi e di Londra,—case che, come da per tutto, gli abitanti ammirano e lo straniero non guarda, o guarda con dispetto;—poi tornai indietro, rientrai in città, e di canale in canale, di ponte in ponte, riuscii nell’angolo formato dall’Hoog-Straat con uno dei due canali lunghissimi che chiudono la città ad oriente.
Quella è la parte più povera della città.
Entrai nella prima strada che vidi e feci parecchi giri in quel quartiere, per veder da vicino come sta la gente bassa nelle città olandesi. Le strade sono strettissime e le case più piccine e più sbilenche che in ogni altra parte; di molte si può toccare il tetto colle mani; le finestre sono a poco più d’un palmo da terra; le porte basse da doversi chinare per entrarci. Malgrado ciò, non v’è la menoma apparenza di miseria. Anche là le finestre hanno i loro specchietti—le spie, come si dicono in olandese,—i loro vasi di fiori sul davanzale, difesi da cancellatine verdi; le loro tendine bianche; gli usci tinti di verde o di azzurro; tutto spalancato, in modo che si vedon le camere da letto, le cucine, tutti i recessi della casa, stanzette che paiono scatole, dove la roba è ammontata come in botteghe da rigattieri; ma rami, stoviglie, mobili, tutto pulito e luccicante come in case di signori. Passando per quelle strade non si trova ombra di sudiciume da nessuna parte, non si sente un cattivo odore, non si vede né un cencio nè una mano tesa per chiedere: si respira la pulizia e il benessere, e si pensa con vergogna ai luridi quartieri dove formicola il basso popolo in molte delle nostre città, ed anco non nostre, non esclusa Parigi, che ha pure la sua strada Mouffetard.
Tornando verso l’albergo, passai per la piazza del gran mercato, posta nel bel mezzo della città, e non meno strana di tutto quello che la circonda.
È una piazza sospesa sull’acqua; nello stesso punto piazza e ponte; un ponte larghissimo che congiunge la diga principale,—l’Hoog-Straat,—con un quartiere della città, circondato da canali. Questa piazza aerea è cinta di vecchi edifizi su tre dei suoi lati, sull’uno dei quali s’apre una strada lunga, stretta ed oscura, occupata tutt’intera da un canale che pare una strada di Venezia; ed è aperta dal quarto lato su una specie di bacino formato dal canale più largo della città, che comunica direttamente colla Mosa. Su questa piazza s’innalza, circondata da baracche e da carretti, in mezzo a mucchi di legumi, d’aranci, di tegami, fra una folla di rivendugliole e di merciaiuoli, dentro una cancellata coperta di stuoie e di cenci, la statua di Desiderius Erasmus, la prima gloria letteraria di Rotterdam; quel Gerrit Gerritz,—poiché il nome latino, a somiglianza di tutti gli altri grandi scrittori del suo tempo, se l’era posto egli medesimo;—quel Gerrit Gerritz appartenente, per la sua educazione, il suo stile e le sue idee, alla famiglia degli umanisti e degli eruditi d’Italia, scrittore fine, profondo e infaticabile di lettere e di scienze, che riempì del suo nome l’Europa fra il decimoquinto e il decimosesto secolo, che fu colmato di favori dai papi, cercato, festeggiato dai principi; e delle cui innumerevoli opere, scritte tutte in latino, si legge ancora l’Elogio della pazzia, dedicato a Tommaso Moro. Quella statua di bronzo, innalzata nel 1622, rappresenta Erasmo vestito d’una pelliccia, con un berretto di pelo, un po’ inclinato innanzi come uno che cammina, con un grosso libro aperto in mano, nell’atto di leggere; e il piedestallo porta una doppia iscrizione olandese e latina che lo chiama vir sæculi sui primarius e civis omnium præstantissimus. E malgrado questo pomposo elogio, il povero Erasmo, piantato là come una guardia municipale in mezzo al mercato, fa compassione. Non v’è, io credo, sulla faccia della terra un’altra statua di letterato che sia come la sua trascurata da chi passa, disprezzata da chi la circonda, commiserata da chi la guarda. Ma chi sa che Erasmo, da quell’arguto filosofo che fu e che dev’essere ancora, non si contenti di quel cantuccio, tanto più che non è lontano da casa sua, se la tradizione non tradisce. In una stradetta vicino alla piazza, nel muro d’una piccola casa occupata da una taverna, si vede dentro una nicchia una statuetta di bronzo che rappresenta il grande scrittore, e sotto la nicchia l’iscrizione Hæc est parva domus magnus qua natus Erasmus; che forse otto su dieci Rotterdamesi non hanno mai letta nè vista.