PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE
Poiché una prefazione alla prima edizione di Jane Eyre non era necessaria, vi ho rinunciato: questa seconda edizione richiede qualche parola sia di riconoscenza sia di vario commento.
I miei ringraziamenti devono svolgersi in tre direzioni.
Al Pubblico, per l'indulgente orecchio che ha prestato a una storia semplice e di poche pretese.
Alla Stampa, per il vasto campo aperto, dal suo schietto suffragio, a un oscuro aspirante.
Ai miei Editori, per l'aiuto portato dalla loro sensibilità, dalla loro decisione, dal loro senso pratico e dalla loro franca liberalità a un autore sconosciuto e non raccomandato.
La Stampa e il Pubblico sono per me solo personalità generiche, ed io devo ringraziarli in termini generici; ma i miei Editori sono ben definiti, e così pure alcuni critici generosi che mi hanno incoraggiato come solo uomini di gran cuore e di alta mente sanno incoraggiare uno sconosciuto che lotta con tutte le sue forze; a loro, e cioè ai miei Editori e a questi recensori particolari, io dico sinceramente: Signori, vi ringrazio dal profondo del cuore.
Dopo aver così riconosciuto ciò che devo a coloro che mi hanno aiutato e approvato, io mi rivolgo a un'altra categoria di persone, scarsa, per quanto sappia, ma non per questo tale da doversi trascurare. Intendo quei pochi pavidi o cavillosi che sollevano dubbi sull'orientamento di libri come Jane Eyre: ai cui occhi tutto ciò che è inconsueto è colpevole; il cui orecchio scopre in ogni protesta contro la bigotteria - parente del delitto - un insulto alla pietà vicaria di Dio in terra. Vorrei suggerire a questi dubbiosi alcune ovvie distinzioni e ricordar loro alcune semplici verità.
Il convenzionale non è il morale. L'ipocrisia non è religione. Combattere i primi non significa aggredire i secondi. Strappar la maschera dal volto del fariseo, non è alzare un'empia mano verso la Corona di spine.
Cose e fatti simili sono diametralmente opposti: differiscono come il vizio dalla virtù. Troppo spesso gli uomini li confondono, ma non dovrebbero essere confusi: l'apparenza non dovrebbe essere presa per verità; anguste dottrine umane, che tendono solo a estollere e magnificare i pochi, non dovrebbero essere considerate il credo di Cristo, redentore del mondo. Vi è, lo ripeto, una differenza; è una buona, non una cattiva azione segnare nettamente e chiaramente la linea di demarcazione.
Può spiacere al mondo il vedere così distinti questi concetti, poiché è abituato a confonderli, trovando conveniente far passare le apparenze esterne per valori genuini e le mura imbiancate per nitidi templi. E può, il mondo, rivolgere il suo odio su colui che osa scrutare a fondo e portare alla luce: grattar la doratura e mostrare il metallo vile sotto di essa, penetrare nel sepolcro e rivelarne gli ossami: ma, per quanto lo odi, gli rimane obbligato.
Achab non amava Michea perché gli prediceva non il bene ma il male; forse gli preferiva il sicofante figlio di Chenaana; e tuttavia Achab sarebbe forse sfuggito a una morte cruenta se avesse chiuso il suo orecchio all'adulazione e lo avesse aperto al consiglio sincero.
Vi è un uomo ai nostri giorni le cui parole non son fatte per sollecitare le orecchie delicate: che, a parer mio, sopravanza i grandi della società di quanto il figlio di Imlah sopravanza i re coronati di Giuda e di Israele, e che parla il vero con egual profondità, con egual potere profetico e vitale, egualmente intrepido e ardito. Il satirico autore della Fiera delle vanità è forse ammirato in alto loco? Non posso dirlo; ma penso che se alcuni di coloro contro cui egli lancia il fuoco greco del suo sarcasmo o su cui fa lampeggiare il corrusco brando della sua denuncia, accogliessero in tempo i suoi ammonimenti, essi o la loro discendenza potrebbero ancora sfuggire a una fatale Ramoth di Galaad.
Perché ho alluso a quest'uomo? Lettore, ho alluso a lui perché credo di vedere in lui un intelletto più profondo e più eccezionale di quanto i suoi contemporanei gli abbiano ancora riconosciuto; perché lo considero il primo rigeneratore sociale dei nostri giorni, il vero maestro di quel corpo operante che cerca di ricondurre alla virtù un sistema corrotto; perché credo che nessun commentatore delle sue opere abbia ancora trovato il paragone che gli si adatti, le parole che caratterizzino esattamente il suo talento.
Dicono che si avvicina a Fielding; parlano del suo spirito, del suo umorismo, della sua forza comica. Assomiglia a Fielding come un'aquila assomiglia a un avvoltoio: Fielding potrebbe avventarsi su di una carogna, ma Thackeray non lo fa mai. Il suo spirito è brillante, il suo umorismo attrae, ma entrambi stanno alla sua geniale serietà come il sottile bagliore che giuoca sull'estremo di una nube estiva sta alla folgore mortale celata nel suo grembo. Infine ho alluso al signor Thackeray perché a lui - se egli vorrà accettare il tributo di uno che gli è del tutto sconosciuto - ho dedicato questa seconda edizione di Jane Eyre.
Currer Bell, 21 dicembre 1847