2.I due decerebrati impiegano un tempo che a me pare eterno per capire che non sto fingendo, poi alla fine realizzano e chiamano il soccorso. Nonostante l’impegno profuso dai miei amici per farmi morire, l’ambulanza arriva in pochi minuti. I militi mi caricano senza troppi complimenti dopo avermi legato come un salame. Litigo anche con uno dei miei soccorritori che mi vuole bloccare a tutti i costi la testa con un collare e mi devo arrendere al protocollo.
Bruno e Andre discutono su chi debba salire per accompagnarmi, arrivando a spintonarsi.
Io faccio segno ai miei soccorritori di ignorarli, con un verso molto simile ad un rantolo chiedo loro di partire e di lasciarli lì.
Mentre chiudono i portelloni posteriori, l’ambulanza scrolla e io prendo una botta contro il bordo della lettiga che per poco mi fa vomitare anche l’anima. Sento la voce di Bruno che urla “Ehi, ferma, non siamo saliti”. Poi partono a tutta birra con la sirena spiegata.
Nel giro di poco mi ritrovo al pronto soccorso dell’ospedale vicino a casa mia. La nausea peggiora, non solo per questa sensazione che mi attanaglia tutta la pancia. Spero di non trovarmi di fronte, come mi è già successo quando vengo portato qui, la mia ex moglie Monica Martini.
È chirurgo e lavora proprio in questo pronto soccorso. L’infermiere del triage, un ragazzone sudamericano con il naso largo e più tatuaggi sulle braccia che peli, mentre mi infila un ago nella vena mi studia.
“Ci conosciamo, vero? È già stato qui?”
Io gli faccio di no con la testa.
“Eppure io la conosco bene.”
Poi indugio, indeciso se fargli la domanda che mi potrebbe costare la vita. Prendo fiato.
“È di riposo, vero, la dottoressa Martini? Non l’ho vista.”
Da come gli si illuminano gli occhi, comprendo che la domanda potevo evitarmela appena finisco la frase.
“Che scemo! Ecco chi è lei. È l’ex marito della dotti. Ora sì che l’ho riconosciuta.”
“Vabbè ma faccia finta di niente. Non amo le raccomandazioni. Sono una persona semplice.”
Il sadico infermiere mi ignora e sorride. “È fortunato, sa? È di turno oggi la Mo’. Doveva essere di festa ma ha fatto un cambio.”
“Che culo, eh? Tutte le volte che mi portano qui Monica è in servizio. Sono proprio nato con la camicia.”
Lui mi attacca una flebo al braccio e parte in spedizione a cercare Monica. Dopo pochi istanti torna e mi mette una mano sulla spalla stringendo quasi con affetto.
“È impegnata in sala operatoria adesso”, dice. “Ma l’ho già avvertita che lei è qui. Appena finisce l’intervento ha detto che passerà a visitarla.”
La fitta peggiora, mi piego in due. Appena si attenua, cerco il suo sguardo tentando di indurlo a compassione.
“No, non si disturbi. Ha tanto da fare, povera. Mi ci manca che si preoccupi per me. Le dica di ignorarmi.”
Passa qualche minuto. Una dottoressa giovane, riccia e con gli occhiali mi visita, mi schiaccia la pancia più volte facendomi urlare e poi mi spedisce in radiologia a fare un’ecografia. Grazie a qualche intruglio che mi fa infilare nella flebo il dolore si attenua.
Nel giro di un’ora ho effettuato l’esame e sto molto meglio. Ho pure la diagnosi: dicono che sia una colica da calcoli nella cistifellea. Colangite, si dice in medichese. Io vorrei firmare le dimissioni volontarie, la dottoressa riccia fa resistenza e provo a convincerla in tutti i modi. E quando penso di esserci riuscito, ecco che dal fondo del corridoio spunta lei. La mia nemesi, la donna che farebbe qualsiasi cosa pur di vedermi soffrire. La mia ex moglie, Monica Martini. La divisa verde da sala operatoria esalta il suo fisico slanciato e snello. Quando mi è accanto si toglie la cuffia dalla testa, lasciando cadere sulle spalle i suoi capelli lunghi, sottili e neri.
Mi sorride con la solita cortesia, le lentiggini attorno alla bocca si stirano come sempre nonostante inizi ad avere qualche ruga. Io faccio finta di ricambiare.
“Ciao, Monica. Hai già finito in sala? Mi avevano detto che eri occupata e non volevo che ti disturbassero.”
“Nessun problema e nessun disturbo. È il mio lavoro.”
Afferra la mia cartellina e si porta una ciocca di capelli dietro all’orecchio.
“Un altro giro in pronto soccorso?”, mi chiede caustica, mentre si studia i referti.
“Già. Ma questa volta non mi hanno drogato né picchiato. Non mi hanno nemmeno sparato. Si tratta solo di una colica. Stavo giusto per firmare le dimissioni volontarie.”
Lei legge il referto dell’ecografia e poi scuote la testa con espressione truce.
“Non se ne parla nemmeno. Dobbiamo farti passare questa colecistite acuta ed è meglio se rimani ricoverato. Potrebbe complicarsi. Rischi una pancreatite, sai?”
Io sospiro.
“Me l’hanno già detto. E io ho riposto ‘no, grazie. Sono immune alle pancreatiti’. Ma verrò a trovarvi per fare i prossimi esami e prometto che se dovessi stare di nuovo male mi precipiterò qui in pronto soccorso.”
Monica annuisce in silenzio, fissandomi con i suoi occhi azzurri, intensi come quelli degli Husky. Io continuo il mio monologo di commiato, ispirato come un attore drammatico.
“… e come sempre manderò un encomio all’ufficio relazioni col pubblico per segnalare la vostra straordinaria” calco la parola allargando ancora le braccia “efficienza.”
Monica annuisce di nuovo. Si gira verso l’infermiere tatuato.
“Lui lo sbattiamo in chirurgia, al secondo”, gli dice.
Mi tiro su dalla barella.
“Ma allora non hai sentito quello che ho detto? È un mio diritto rifiutare il ricovero. Esiste la libertà di cura in questo paese, sai?”
La mia ex moglie ghigna beffarda. Le lentiggini sulle guance si stirano e si allungano ancora.
“Ho sentito benissimo. A parte che non hai mai fatto un encomio scritto a mio nome all’ufficio relazioni con il pubb...”
“… sì che l’ho fatto.”
“Non è vero.”
Devo tenere la linea e continuare a mentire.
“Sì invece.”
Monica arriccia le labbra, indecisa se darmi una sberla o piantarmi una biro in un braccio.
“E piantala con ’sta palla. Non hai fatto nessun encomio scritto. Me l’avrebbero girato. E non interrompermi.”
Abbasso gli occhi e rantolo uno “scusa”.
Monica prende fiato.
“Se non fai quanto ti dico, sarò costretta a chiamare tua madre e a raccontarle per filo e per segno che cosa ti sta succedendo.”
Avverto una nuova fitta allo stomaco. Ma non è colpa della mia povera colecisti.
“No. Questo non puoi farlo”, piagnucolo.
“Eccome se posso. Sai quanto tengo a quella santa donna che ti ha messo al mondo. Come potrei tacerle le sofferenze del suo tenero pargolo?”
“C’è la privacy. Non puoi.”
Lei se la ride.
“Eccome se posso.”
“E io ti denuncio.”
Monica affila lo sguardo e mi mostra un foglio dove c’è la mia firma.
“Vedi qui? Hai firmato. Recita” si schiarisce la voce in modo plateale e picchietta sul foglio con la biro “… bla bla bla… acconsento che le informazioni sul mio stato di salute eccetera eccetera ai parenti stretti.”
“Mi hanno preso la firma con l’inganno. Pensavo fosse solo il consenso all’ecografia.”
La mia ex moglie solleva il sopracciglio destro. Mi ricorda Spock.
“Sempre leggere quello che si firma. E sei pure un giornalista.”
“E tu sei una vipera talmente velenosa che se si dà un morso alla lingua rischia di avvelenarsi da sola.”
“Può essere. Ma torniamo a tua madre.”
Monica spalanca gli occhi, nei quali percepisco una luce sadica. “Te la ritroverai in casa in men che non si dica; inizierà a sistemarti le librerie, a toglierti la polvere. Ad aprire le finestre per cambiare l’aria. A mettere i tuoi vinili in ordine.”
“Ti prego, non me lo merito.”
Monica mi ignora.
“A chiederti cento volte al giorno come stai. A prepararti cinque camomille all’ora e a entrarti di continuo in camera per controllare se dormi una volta che sono passate le ventidue. E soprattutto ti pulirà il frigo.”
Mi caccio di nuovo sulla barella e mi calco il cuscino sulla faccia. Inizio a gemere e a sbattere le gambe. Quando termino la parte, di cui De Filippo sarebbe fiero, Monica è sempre lì che mi fissa.
“Hai finito la sceneggiata?”
Poi mi porge un foglio e una penna.
“Prego, per il ricovero firmi qui dottor De Foresta. Grazie.”
Mi arrendo e faccio uno scarabocchio sulla linea che Monica mi indica, senza nemmeno guardarla.
“Sei contenta?”, domando.
Lei sorride compiaciuta e sospira.
“Chissà. Forse un giorno capirai che, contrariamente a ciò che pensi, io ti voglio un gran bene.”
Sospiro.
“Pensa un po’ che cosa succederebbe se ti stessi niente niente antipatico.”