Capitolo primo-1

2000 Parole
Capitolo primo Cominciò a diluviare dal primo pomeriggio. Un vero e proprio nubifragio. Le strade s’intasarono in fretta, rendendo difficile la circolazione. L’acquazzone, del tutto eccezionale, interessava tutto il nord Europa e i camion accumulavano forti ritardi. Alberto guardò il grande orologio appeso al muro della rimessa. Mezzanotte passata. Schioccò la lingua in segno di disappunto. Faceva così ogni volta che una preoccupazione lo tormentava. Dalbrend l’aveva chiamato al telefono rassicurandolo che tutto era a posto, i mezzi di soccorso stavano passando e lui sarebbe rientrato di lì a poco. Povero Dalbrend! A lui toccava la tratta più lunga: quella da Anversa a Genova per il trasporto dei datteri provenienti dal Marocco. Anche Holtzer era messo piuttosto male: caricava in Polonia i cavolfiori e doveva attraversare mezza Europa, sulle strade peggiori. Soltanto Fourier era già rientrato. Ma le noci lui le prelevava dal magazzino di Berlino a cui arrivavano con l’aereo. Poca cosa rispetto agli altri. Mancavano ancora otto camion all’appello. Alimentò la stufa con un grosso ceppo di rovere e riprese la lettura dei suoi appunti. Il suo ufficio era ricavato nel soppalco della rimessa, separato dal resto del locale tramite una vecchia parete in legno e vetri. Avrebbe potuto permettersi qualunque lusso, sicuramente un ufficio più grande, ma gli piaceva che tutto rimanesse così: come quando aveva iniziato. Nel corso degli anni non aveva mutato nulla di quegli arredi, se non la vetusta macchina da scrivere, sostituita con un moderno ed efficiente computer. Ma la macchina da scrivere non l’aveva gettata. Era rimasta lì, sopra un piccolo tavolino in legno. E ancora adesso lui la utilizzava. Gli piaceva il suono metallico dei tasti e quel “dlin” che suonava ogni volta che il carrello arrivava a fine corsa. Le aveva scritte con quella le sue prime opere. Sollevò il foglio con entrambe le mani, poi girò la manopola per estrarlo dal rullo. Sì, scriveva ancora con quel ferrovecchio. Qualcuno in seguito avrebbe provveduto a creare un file da rielaborare al computer. Rilesse l’ultima pagina. Gli sembrava in assoluto la migliore, tanto che fu assalito dal dubbio: se fosse meglio metterla all’inizio. Già! Un libro che inizia bene fa subito un certo effetto. Ma poi? È il finale che conta! Non può essere deludente. No! Meglio lasciare tutto così. Ormai l’aveva letto decine e decine di volte. La tipografia lo aspettava. Ancora poche ore e avrebbe dato esecuzione al suo piano. Un piano folle, sì! Ma ormai era in ballo e doveva ballare. D’altronde a ottant’anni, dopo una vita di duro lavoro, poteva anche concedersi una pazzia. Si alzò dalla sedia e si avvicinò alla finestra. Scostò la tendina. Era il dieci ottobre. La piana di Albenga si estendeva oltre i vetri, fredda e desolante come sempre in autunno. Chilometri di serre si snodavano lungo quella pianura immobile e grigia. Una distesa di vetri al cui riparo germogliavano piantine di ogni specie destinate all’esportazione. Centinaia di incubatrici giganti al cui interno maturavano i suoi capitali. Il termometro sull’insegna dall’altra parte della strada segnava cinque gradi. Si versò un goccio di brandy e ricominciò a leggere. Con estrema cura sistemò i fogli uno sull’altro, passandovi sopra l’avambraccio per stirarli. Procedette dall’ultima alla prima pagina. Arrivò a quella che, nelle sue intenzioni, doveva essere la copertina. Lesse con una leggera commozione: La Dea Altalenante romanzo di Alberto Chilli Un vezzo, quello di farsi chiamare Albert da tutti. Legato ai suoi trascorsi in Belgio. Là troncavano la “o” finale. Era stato così per anni. Quel nome troncato gli era rimasto addosso, stampato a fuoco nelle pieghe della pelle, come un marchio. Ma sulla copertina del libro voleva ci fosse il suo nome così com’era stato registrato all’anagrafe. La pioggia continuava a scendere. La lampada da tavolo ogni tanto si affievoliva a causa di qualche sbalzo di tensione. Erano anni che il Comune prometteva di mettere mano alla sistemazione delle linee elettriche, soprattutto nel periodo della campagna elettorale, ma ogni volta le promesse venivano disattese. La luce intermittente del lampeggiante sopra la saracinesca cominciò ad accendersi. Doveva essere Ferdinando con il suo carico di ananas. Infatti. La serranda si sollevò completamente con uno stridore di lamiera arrugginita. Ferdinando parcheggiò il camion tra il frastuono del motore diesel. I fumi dei gas di scarico appestarono l’aria gelida. Scese sgranchendosi le gambe e stropicciandosi gli occhi con i polpastrelli. – Piuff! – sbuffò. Poi si accese una pestilenziale sigaretta senza filtro, mentre con un cenno del viso salutava il suo datore di lavoro. – Fatto buon viaggio, Ferdinando? – Una notte infernale. Fortuna che è finita. Ora tocca agli scaricatori. Alberto gli versò del brandy. – Questo ti corroborerà – disse. – Maledetta pioggia. Ho viaggiato per ottocento chilometri sotto l’acqua. – Ora potrai riposarti. Vieni, scaldati un po’ vicino alla stufa. – Novità degli altri? Alberto finì di sorseggiare il suo brandy. – Hanno telefonato tutti. – Li aspetterai sveglio? – Come ho sempre fatto. E poi mi piace la notte. Adoro leggere mentre gli altri dormono. – Il solito romantico. Piuttosto sai che a fine anno Holtzer andrà in pensione? Come pensi di sostituirlo? Alberto si fece scuro in volto. Se il suo piano avesse funzionato non avrebbe avuto più alcuna necessità di sostituirlo. Si sarebbe ritirato definitivamente dal lavoro. Se lo meritava. Mezzo secolo passato a commerciare in frutta e verdura poteva essere più che sufficiente. Ma come dirlo ai suoi ragazzi? Erano cresciuti con lui. Li aveva assunti personalmente, li aveva trattati come figli. Molti di loro, la maggior parte, se li era portati dietro dal Belgio. Non erano semplici dipendenti. Gli erano devoti e riconoscenti. Se la sua impresa era diventata florida, se si era ampliata superando le difficoltà dovute alle crisi economiche, era anche merito loro. Non potevano nemmeno immaginare un licenziamento o, peggio, una chiusura. Avrebbero pensato a un tradimento. Meglio non affrontare ora l’argomento. Se il suo piano fosse andato in porto nessuno avrebbe potuto contestargli nulla. Ai morti si perdona tutto. Sempre. L’ultimo camion fece rientro alle sei del mattino. Non aveva mai smesso di piovere. Cupe pozzanghere gonfiavano ai bordi degli sterrati, giallognole, marroni. Alberto guardò la luce rischiarare le strade bagnate, rendendole lucide e azzurrine. Spense la lampada da tavolo mentre i primi scaricatori facevano il loro ingresso nel magazzino. Li salutò cordialmente, come aveva sempre fatto per cinque decenni. Mezzo secolo di vita sempre uguale. Di impegno massacrante. Ne aveva abbastanza. Se lo era ripromesso. Non avrebbe permesso alla lancetta della noia di oltrepassare il limite. Avrebbe chiuso prima, in bellezza. Ne aveva fatta di strada dagli inizi. Era diventato ricco, potente, stimato, affermato. La sua impresa si era assestata al primo posto in Europa nel settore della distribuzione. Che altro poteva desiderare di più? – Non si vive di solo pane – considerò, pienamente convinto della sua decisione. Nessuno di loro, nessuno dei suoi tremila dipendenti, sparsi in tutte le filiali del mondo, avrebbe potuto immaginare che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno di lavoro. Sbirciò attraverso i vetri. Il maltempo sembrava concedere una tregua. Infilò in una cartellina il suo dattiloscritto e si diresse verso l’uscita. L’alba aveva da poco fatto capolino con il suo chiarore biancastro e ovattato. Una luce diafana, cinerea, aveva avvolto quel poco di campagna che rimaneva tra la tetraggine delle serre. Gli piaceva percorrere le strade silenziose e sgombre dal traffico. E a quell’ora del mattino lo erano sempre. In alcuni tratti l’asfalto era diventato insidioso e doveva stare attento a non scivolare. Ma erano solo alcune centinaia di metri. Un viale circondato da alberi spogli, una curva in leggera salita. Procedette con passo lento. La sua casa era in fondo al viale, circondata da un enorme giardino. Non l’aveva scelta lui. Stile liberty, un po’ troppo vezzosa per i suoi gusti. Oltrepassò il cancello, attraversò il viottolo, constatando lo stato delle piante che nella notte avevano patito il freddo. Forse sarebbe stato meglio coprirle con un telo. Da qualche parte aveva letto di una varietà di agrumi parecchio resistente alle intemperie. Ma ormai che gli poteva importare? Erano pensieri antichi quelli. Pensieri che ancora viaggiavano nella sua testa per pura inerzia. Prima o poi si sarebbero fermati. Da soli. Doveva solo staccare la spina. Arrivò sotto il portico. Per compiere quel tragitto, anni prima, impiegava pochi minuti. Ora necessitava di circa un quarto d’ora. I mezzi guanti di lana permettevano alle dita di muoversi liberamente all’interno della tasca. Trovò la chiave e la infilò nella toppa cercando di non fare rumore. Una volta dentro posò la cartellina sulla mensola dell’ingresso, si tolse il soprabito e si diresse in cucina, senza accendere la luce del corridoio. Giunto al fondo si sfilò le scarpe e indossò dei calzettoni antiscivolo, provando un acuto dolore alla schiena nel piegarsi. Varcò la soglia della cucina. Di lì a poco l’aria sarebbe stata invasa dall’aroma del caffè. Era meglio di qualunque sveglia. Sistemò la caffettiera sul fornello e iniziò a imburrare due fette biscottate. Poi prelevò dalla credenza il vasetto di marmellata. L’aveva preparata lui, in estate. Una deliziosa confettura di mirtilli. Mirtilli cresciuti in serra. Un esperimento riuscito. Una scommessa con la botanica. Un altro di quei pensieri che viaggiavano per inerzia all’interno della sua testa. Ancora poche ore e sarebbe finita per sempre. Non avrebbe mai più pensato a scoprire nuove varietà di piante, ad azzardare innesti, a tentare strade innovative per conquistare nuovi mercati. Via. Tutto passato. Stava per lasciarsi alle spalle un’intera vita sbagliata. Di successo, sì, sicuramente. Ma da buttare nel cesso. La caffettiera cominciò a borbottare. Una voce si levò dalla camera da letto: – Sei tu, Alberto? Versò il caffè nella tazzina, sistemò sul vassoio le fette biscottate e il vasetto della marmellata. Un bel gesto. Un gesto di quelli che si reiterano all’infinito. Per puro piacere. Poi si diresse in camera con il passo felpato dei calzettoni sul parquet. – Certo che sono io, Aurelio. Chi volevi che fosse? La pioggia continuava a scendere fitta e silenziosa rendendo inagibile il pianerottolo in legno dell’entrata di servizio. Sicuramente di lì a poche ore sarebbe stato necessario un intervento dei pompieri per liberare i tombini intasati. Aurelio Cortellesi sorrise mentre sollevava la tazzina calda. Aveva sette anni in meno di Alberto. Era alto, con pochi capelli e con il viso leggermente paonazzo come quello di un ubriaco. Non era bello, no, e lo sapeva, era pure stempiato e spigoloso, con una leggera peluria bianca sul torace. – Grazie – disse. Poi restò con gli occhi persi nel nulla, pensieroso. Per tutta la notte un incubo lo aveva tormentato, una premonizione, come se qualcosa fosse destinato a interrompersi bruscamente. Alberto era cambiato. Erano settimane che lo vedeva strano. Più che strano assente. Angosciato. Altrove. Con lo sguardo verso punti indefiniti dello spazio, perduto dentro un tempo interiore, inaccessibile. A tutti. Anche a lui. Mentre la caffeina faceva il suo effetto lanciandogli leggere accelerate delle pulsazioni, Aurelio pensò che quel risveglio, così simile a migliaia di altri piacevoli risvegli, non si sarebbe ripetuto mai più. Era l’ultimo. L’ultimo di una serie infinita. L’ultimo così. D’altronde lui conosceva alla perfezione la storia di Alberto. Anzi, a dire il vero, era proprio l’unico a conoscerla del tutto. – No. Non del tutto – rifletté. C’era un piccolo dettaglio che era rimasto oscuro anche a lui. Anche se, in udienza, nel processo per la morte di Josephine, aveva testimoniato in favore di Alberto. Si rivide giovane, cinquant’anni prima, la chioma bionda, il ciuffo sulla fronte, il bicipite gonfio, l’occhio che saettava d’azzurro. Mentre rimestava il cucchiaino nella tazzina solo per guadagnare tempo, sperava che Alberto potesse ancora cambiare idea, che gli dicesse: “lasciamo perdere, Aurelio. Mi rendo conto che è una pazzia! Anzi, meglio: lascio perdere, Aurelio. Sono pazzo”. Alberto aveva lo sguardo perso oltre i vetri della finestra. Era altrove. Alberto intanto continuava a guardare la pioggia. Le gocce cadevano lente adesso, come spruzzi d’argento sopra un presepe immaginario. Una metafora che gli sarebbe piaciuto esprimere ad alta voce. Un solo pensiero lo consolava. Sapeva che mai e poi mai Aurelio lo avrebbe tradito. Non lo aveva fatto allora, non lo aveva fatto per cinquant’anni, perché avrebbe dovuto farlo ora? Anche per lui era così. Avevano stretto un patto. E ora, per Alberto era giunto il momento di saldare il conto. Avrebbe mantenuto la sua promessa. Un debito d’onore. I morti non tradiscono. Mai. Aurelio guardò negli occhi Alberto tentando di scoprire a cosa stesse pensando.
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