Sabbie del tempo

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SABBIE DEL TEMPO (1821-63)In un pomeriggio di primavera del 1860, il giorno prima che suo figlio entrasse a Eton, il vecchio Jolyon appendeva il suo cappello a tuba a un attaccapanni di legno nel vestibolo di Stanhope Gate ed entrava nella sala da pranzo. Il giovane Jolyon, che aveva appeso il suo cappello a tuba a un attaccapanni di legno più basso, lo seguì, e non appena il padre si fu accomodato nell’ampia poltrona di cuoio, s’arrampicò sul bracciolo. Forse per effetto delle mummie egiziane che or ora avevano veduto al British Museum o perché la nuova scuola che attendeva il ragazzo, una scuola pubblica, per di più, s’apriva grave dinanzi a loro, certo è che entrambi si sentivano vecchi, poiché in occasioni simili, tra cinquantaquattro anni e tredici non v’è davvero un grande abisso. E quella giusta posizione fisica, la quale, fino a che egli non era entrato a scuola, a dieci anni, s’era mantenuta costante fra il piccolo Jolyon e suo padre, si riassumeva ora quasi inconsciamente nel presentimento del ragazzo, che domani sarebbe stato un uomo. Egli s’appoggiò all’indietro, fino a che la sua testa posò sulla spalla del padre. Per il vecchio Jolyon, momenti come questi, sempre più rari con l’andar degli anni, erano fra i più preziosi che la vita gli concedeva – immenso conforto di sentire nel ragazzo una natura tanto affettuosa. «Ebbene, Jo», disse «che effetto ti hanno fatto le mummie?». «Gran brutta roba, babbo». «Uhm. Già. Eppure, se non fossero nostre, sarebbero in mano di qualcun altro. Dicono che valgono un sacco di quattrini. È buffo, Jo, pensare che forse ci sono ancora al mondo discendenti di quelle mummie. Beh, almeno potrai dire d’averle viste; suppongo non ci siano molti altri ragazzi che possan dire altrettanto. Eton ti andrà a genio, spero». Disse così perché temeva che il suo ragazzo non ci si sarebbe ritrovato. Non sapeva troppo che razza di luogo fosse; in ogni modo, un luogo grandioso, per un ometto così. La pressione della guancia del ragazzo nel cavo tra petto e braccio si fece più forte; ed egli udì la voce infantile mormorare come soffocata: «Raccontami della tua scuola, babbo». «La mia scuola, Jo? Non era un granché. Sono andato a scuola a Epsom. Solevo andarci in berlina, da Bosport fino a Londra, e poi fin laggiù in diligenza, allora sai, non c’era la ferrovia. Mi davano in custodia al postiglione, un omone dalla faccia rossa che suonava il corno. «Viaggiava tutta la notte, dieci miglia all’ora, col cambio dei cavalli ogni ora, né più né meno, come un orologio». «E tu papà, stavi seduto fuori?» «Sì, lì, me ne stavo, un soldo di cacio, schiacciato tra il cocchiere e un viaggiatore; faceva freddo, a quei tempi, ci si copriva con gli scialli fin sopra gli occhi. Mia madre mi dava una stiacciata con carne di montone, e una fiaschetta di cherry brandy. Una buona pasta, il vecchio cocchiere, con una voce rauca di cornacchia, e tondo come un barile; bello vederlo guidare, scacciare con la frusta una mosca dall’orecchio del cavallo di punta». «C’erano molti ragazzi?» «No; era una piccola scuola: una trentina. Ma io la lasciai che ne aveva quindici. Perché mia madre morì nel dare alla luce tua zia Susan, e allora abbandonammo Bosport per venire a Londra, e io m’impiegai». «Com’era la tua mamma, babbo?» «La mia mamma?» Il vecchio Jolyon tacque, sperduto nei suoi pensieri tra la folla delle memorie. «Le volevo bene, molto bene, Jo. Ero il maggiore, capisci; dicono ch’io abbia preso molto da lei. Questo non saprei dirlo; era una donna graziosa, fine di tratti. Forse la più bella donna della città, una buona donna, del resto, buonissima con me. Soffrii moltissimo per la sua morte!» Appoggiò un po’ più la testa sul suo braccio. Tutto quello che egli sentiva in cuor suo per il ragazzo, e che sperava e credeva che il ragazzo sentisse per lui, egli l’aveva sentito per sua madre in quel tempo lontano. Essa aveva appena quarantun anni quando morì per la nascita del decimo figlio. Decimo! In quei tempi non badavano troppo a simili cose, finché la secchia andava una volta di troppo al pozzo. Ah! La sua perdita era stata una cosa ben dolorosa. Il giovane Jolyon scivolò giù dal braccio della poltrona, quasi sentisse che il padre si astraeva. «Forse sarebbe meglio che andassi a fare i bauli, babbo». «Vai pure, ragazzo mio! Io fumo un sigaro». Quando il ragazzo se ne fu andato – che signorino ammodo! – il vecchio Jolyon s’avvicinò al cofanetto cinese che custodiva i suoi sigari, e ne tolse uno. Lo contemplò, ne tagliò la punta, lo accese e se lo mise in bocca. Dopo averlo aspirato, se lo tolse di nuovo di bocca, lo tenne discosto da sé, con due dita dalle unghie piuttosto appuntite, e assaporò attraverso le narici il fumo azzurino. Non poteva dirsi un cattivo tabacco, davvero! Tornato alla sua poltrona, s’appoggiò sulla schiena, e incrociò le gambe. Era da tanto che non aveva volto il pensiero alla madre. Rivedeva ancora il suo viso, quel caro sguardo degli occhi suoi profondi, le sopracciglia e il mento piuttosto aguzzo; e sentiva la voce piacevole, dolce, raffinata. Chi tra di loro aveva preso da lei? Ann forse; Hester, sì; Susan, un poco; Nicholas, forse, se non fosse stato così brusco, quel ragazzo; e lui, lui stesso infine, dicevano – non lo sapeva, a dir la verità, ma gli piaceva immaginarselo; ella era stata una soave creatura. E d’un tratto fu come se la mano di lei gli sfiorasse di nuovo la fronte, ravviandogli i capelli all’indietro, come le piaceva vederglieli. Ah! Come era vivo tuttora il ricordo di quel giorno in cui, rientrando nella casa paterna a Bosport, dopo il lungo freddo viaggio in diligenza, di ritorno dalla scuola, aveva visto il padre, rigido, le gambe un po’ discoste e la testa china, come se avesse ricevuto or ora una mazzata, starsene lì in piedi e non accorgersi nemmeno di lui, finché egli non aveva detto: «Papà eccomi qui». «Ah? Sei tu, Jo?» Era molto rosso in viso, e le palpebre erano tanto gonfie, che a malapena si scorgevano gli occhi. E aveva fatto uno strano gesto con ambo le mani, accennando col capo verso le scale. «Vai di sopra», aveva detto. «Tua madre sta molto male. Vai di sopra, bambino mio; e qualunque cosa vedi non piangere». Egli aveva fatto le scale col cuore stretto dall’angoscia. Sulla porta gli era venuta incontro Ann, sua sorella, una bella giovinetta nel fiore degli anni, allora; Ann che era stata una madre per tutti loro, in seguito; così s’era sacrificata per tirare su i più piccini. Ah! Una brava donna, Ann! «Vieni avanti, Jo» ella aveva detto; «la mamma avrà piacere di vederti. Ma, Jo, oh! Jo!». Ed egli aveva veduto due lagrime scorrerle giù, lungo le guance. Quella vista lo aveva impressionato terribilmente; perché Ann non piangeva mai. Giaceva sua madre nel gran letto a colonne, tutta bianca come i lini, fuorché i bruni riccioli dei capelli. La luce era abbassata, e una donna estranea, un’infermiera, sedeva là, presso la finestra, con un involto bianco sulle ginocchia! Egli si era avvicinato al letto. Ora poteva scorgere il viso, senza una ruga, tutto liscio al pari della cera! Senza aprir bocca era restato lì in piedi a guardare; ella aveva aperto gli occhi, e li aveva rivolti leggermente verso di lui, senza moto del viso, per fissarlo in pieno. E poi anche le labbra s’erano mosse e avevano susurrato: «Eccoti qui, Jo, eccoti qui, il mio bambino caro!». E mai fino allora nella sua vita, né dopo, Jo aveva tanto lottato per trattenere il pianto, e per gettarsi in ginocchio. Ma non aveva detto che: «Mamma!». E di nuovo ella aveva mosso le labbra: «Baciami, bambino mio». Ed egli si era piegato a baciarle la fronte, così liscia, così fredda. E poi era caduto in ginocchio; e lì era rimasto a fissar gli occhi chiusi di lei, fino a che Ann era venuta e l’aveva condotto via. E su, nella soffitta ch’egli divideva con James e con Swithin, s’era buttato sul letto, col viso tra i cuscini, e aveva singhiozzato e singhiozzato. Al mattino ella era morta, senza parlare più, così Ann gli aveva detto. Dopo quarant’anni egli risentiva ancora il dolore freddo e pungente di quei giorni, il cupo silente spasimo, quando nel vecchio cimitero l’avevan tolta per sempre alla sua vista. La lapide sulla tomba di lei era stata posta soltanto il giorno avanti quello della partenza per Londra. Là egli era andato, e aveva sostato a leggere: In Memoria di ANN L’amata sposa di Jolyon Forsyte nata il 1° febbraio 1780 morta il 16 aprile 1821. Una bella giornata di maggio, e nessuno al di fuori di lui in quel cimitero fitto di tombe. Il vecchio Jolyon si sollevò sulla poltrona; il sigaro s’era spento, le guance vicine ai favoriti brizzolati, indispensabili alla sessantina, s’erano subitamente accese, e gli occhi guardavano irosi di sotto alle sopracciglia aggrottate, poiché già subitamente egli era in preda a un altro ricordo, amaro, incalzante e vergognoso, il quale risaliva a dieci anni prima circa. Era anche quella una giornata di primavera, nel 1851, l’anno dopo che avevan condotto alla tomba loro padre, lassù ad Highgate, trent’anni dopo la morte della madre. Poiché il pensiero non lo lasciava, era partito per Bosport, per la prima volta dopo tanti anni; viaggiava in treno, e portava un berretto scozzese. A mala pena aveva riconosciuto il luogo, tanto era mutato, ingrandito. Trovata la vecchia chiesa parrocchiale, si era incamminato verso quell’angolo del cimitero ove la madre era sepolta; e là era rimasto intontito, a strofinarsi gli occhi. Quell’angolo non c’era più! Gli alberi, le tombe, tutto scomparso. In luogo di esse, un muro sorgeva tagliando il terreno in diagonale, e dietro di esso correva la ferrovia. Che cosa, in nome di Dio, ne avevan fatto della tomba di sua madre? Con un brivido aveva cercato in lungo e in largo, esplorando il cimitero come un cane da caccia. Forse l’avevano spostata. Ma no, non ve n’era traccia! E allora era sorta in lui una rabbia assetata di vendetta, mista a vergogna, che vieppiù gli faceva ribollire il sangue. Goti, vandali, ruffiani! Sua madre, le ossa sue disperse, il nome suo cancellato, i resti suoi scomparsi! Una puzzolente rotaia ferroviaria correva ora sulla sua tomba. Con che diritto… Serrando convulso il cancello d’una tomba, le sue mani tremavano, e il sudore gli colava giù dalla fronte arrossata. Se ci fosse stata una legge che egli avesse potuto mettere in moto, l’avrebbe fatto. Se ci fosse qualcuno che egli potesse punire, per Dio, l’avrebbe punito! E poi quel senso di vergogna, così estraneo alla sua natura, di nuovo lo investì. Che cosa aveva fatto suo padre, che cosa avevano fatto loro tutti, perché non uno che venisse giù, in tanti anni, a vedere se tutto era in ordine? Troppo occupati a far denaro, come l’epoca tutta quanta, che poneva quelle sacrileghe rotaie, e col suo progresso violava financo il pudore della morte. E aveva piegato il capo sulle mani tremanti. Sua madre! Ed egli non l’aveva difesa, lei che giaceva inerme! Ma come mai il parroco non era stato neppure capace di avvertirli di quanto stava per accadere? Tornò ad alzare il capo, e si guardò attorno. Laggiù, c’era qualcuno che rastrellava i sentieri. Egli s’incamminò, lo avvicinò. «Da quanto tempo hanno costruito la ferrovia, qui?» Il vecchietto si fermò, s’appoggiò al rastrello. «Da dieci anni e più». «E che ne hanno fatto delle tombe che erano in quell’angolo?» «Ah! Io veramente non ne ho mai saputo nulla». «Vi ho chiesto che cosa ne hanno fatto». «Beh, le hanno svuotate, ecco». «E le casse?» «Chi ne sa niente? Domandate al parroco, vecchie tombe, quasi tutte di cent’anni fa, e più». «Non tutte, una era di mia madre, del 1821». «Ah! Mi par bene, c’era una lapide che pareva più nuova dell’altre». «E cosa ne hanno fatto?» Il vecchietto aveva alzato tanto d’occhi su di lui, come se di colpo si rendesse conto d’aver dinanzi a sé, sul sentiero, qualcosa d’anormale: «Mi pare che non potessero ritrovare il proprietario, chiedete al parroco, forse lo saprà». «Da quanto tempo è qui?» «Saranno quattro anni a San Michele. Il parroco vecchio è morto, ma il parroco d’adesso può darsi ne sappia qualcosa». E Jolyon pareva una belva cui avessero involato i suoi piccoli. Morto! Era morto, quel ruffiano! «Ma non sapete cosa ne hanno fatto delle casse, delle ossa?» «Non saprei, saranno tornati a sotterrarle da qualche parte, mi figuro, può darsi che una parte se la siano portata via i dottori, non saprei. Ve l’ho detto, il parroco ne saprà qualcosa». E sputandosi nelle palme, tornò da capo a rastrellare. Il parroco? Non era stato buono a nulla, non ne sapeva nulla, o almeno così diceva, nessuno, già, ne sapeva nulla! Bugiardi, sì, bugiardi, egli non credeva a una parola di quel che dicevano. Non avevano voluto rintracciarlo, il proprietario, per timore di trovare in lui un impaccio alla loro opera! Perduto, disperso, tutto, meno che l’iscrizione nei registri del luogo santo! Sopra la terra che l’aveva accolta, quelle rotaie si distendevano, e su di esse treni rimbombavano. E con uno di quei treni egli sarebbe stato costretto a ritornare a quella Londra che gli aveva insozzato anima e cuore al punto da fargli tradire colei che gli aveva dato la vita! Ma chi mai avrebbe immaginato una cosa simile? Terra consacrata! Nulla dunque era al sicuro contro l’onda del progresso, neppure il corpo affidato alla terra? Cercò un fiammifero, ma il sigaro sapeva d’amaro e lo gettò via. Non l’aveva raccontato a Jo, non doveva raccontarglielo, non era cosa per le orecchie d’un ragazzo. Un ragazzo non avrebbe mai compreso come la vita s’impossessi di voi, una volta che avete cominciato a farvi strada. Come una cosa ne trascinasse con sé un’altra, fino a che il passato è cancellato dalla vostra testa, e gli interessi moltiplicati in un’invadente marea spazzano sentimenti e memorie, e i primi tempi della giovinezza. Un ragazzo non avrebbe mai compreso come il progresso continui inesorabilmente la sua strada, trasformando i luoghi che sulla terra sono rimasti tranquilli. Eppure, forse il ragazzo avrebbe dovuto sapere, forse sarebbe stata una lezione per lui. No! Egli non glielo doveva dire, lo avrebbe ferito, il sapere che uno aveva lasciato che la propria madre… Prese in mano il Times. Ah! Quanta differenza! Egli rammentava il Times dei primi tempi in cui era venuto a Londra – caratteri esili, quali oggi nemmeno si potevano leggere. Il Times, un foglio piegato in due, col resoconto delle sedute parlamentari, e qualche annuncio di domande e offerte d’impiego. E ora, invece, un gran coso frusciante e imponente, con caratteri grandi il doppio! La porta cigolò. Che cosa c’era? Ah, sì, ecco il tè! Sua moglie, indisposta, era nelle stanze di sopra e a lui lo servivano qui. «Portatene una tazza di sopra, alla signora», disse, «e avvertite il signorino Jo». Girando il cucchiaino nel suo tè-Soochong di prima qualità, della sua ditta, lesse le ultime notizie sulla salute di Lord Palmerston, e come quell’impagabile saltimbanco, l’imperatore di Francia, sarebbe venuto quanto prima in visita dalla regina. Intanto giunse il ragazzo. «Ah! Eccoti qui, Jo! Il tè diventa amaro!» E mentre l’ometto in miniatura beveva, il vecchio Jolyon lo guardava. Domani egli sarebbe entrato in quella gran casa, donde uscivano primi ministri e vescovi e così via, dove si insegnavano le belle maniere, almeno, così sperava, e il disprezzo di tutto ciò ch’era commercio. Uhm! Il ragazzo avrebbe imparato a disprezzare suo padre? E d’un tratto, tutta la primitiva onestà si risollevò nel vecchio Jolyon, con quel singolare spirito d’indipendenza che gli procurava rispetto tra la gente, e anche un po’ di timore. «Poco fa, mi domandavi della nonna, Jo. Non ti ho detto come andò, ossia che, tornando laggiù trent’anni dopo la sua morte, trovai che la sua tomba era stata scavata per far posto a una ferrovia. Non ne ho potuto ritrovar la traccia, e non c’era nessuno che potesse o sapesse darmene notizia». Il ragazzo, col cucchiaino sollevato al disopra della sua tazza, era rimasto a bocca aperta. Quanto innocente e puro egli appariva! Poi d’un tratto si fece rosso in viso e disse: «Che vergogna, babbo!». «Sicuro; un mascalzone d’un parroco ha permesso che ciò accadesse, e non ce l’ha mai fatto sapere. Però, la colpa è stata mia, Jo; avrei dovuto custodir sempre quella tomba». Di nuovo il fanciullo tacque, mangiando il dolce e guardando il padre. E il vecchio Jolyon pensava: “Beh, ora gliel’ho detto”. D’un tratto s’udì la vocetta del ragazzo. «La stessa cosa che hanno fatto con le mummie, babbo». Le mummie! Quali mummie? Ah! Quei cosi che erano stati a vedere al British Museum. E il vecchio Jolyon tacque, riandando con la mente alle sabbie del tempo. Strano! Come non accorgersene? Strano! Eppure, il ragazzo se n’era avveduto! Uhm! Andiamo, che cosa significava ciò? E nel vecchio Jolyon sorse un barlume di percezione d’una evoluzione mentale che s’era prodotta tra la propria generazione e quella del figlio. Due e due facevano quattro. E lui non l’aveva visto. Buffo! Ma in Egitto, dicevano, non v’era che sabbia. Forse le cose andavano per il loro destino. E poi, per quanto, com’egli aveva detto, vi potessero essere discendenti tutt’ora vivi, non erano figli o nipoti. Eppure! Il ragazzo aveva misurato la portata di quel fatto, e lui no. Bruscamente disse: «Hai finito di fare i bauli, Jo?». «Sì, babbo; soltanto, credi che potrò portare con me i miei topolini bianchi?» «Beh, ragazzo mio, non saprei, forse sono troppo giovani per Eton. Sai, in quel luogo hanno una grande opinione di se stessi». «Sì, babbo». Il vecchio Jolyon si sentì balzare il cuore in petto. Benedetto, l’ometto! A quali esperienze stava per andare incontro! «Avevi anche tu i topolini bianchi, babbo?» Il vecchio Jolyon scosse il capo. «No, Jo; non eravamo così civilizzati, quand’ero bambino io». «Chissà se le mummie ne avevano…» disse il giovane Jolyon.
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