Capitolo 1-2

2957 Parole
Eric mi studia cercando di non ridere. «Giusto. Forse volevo solo conoscerti, me ne fai una colpa?» «Sparare una serie di bugie non è un buon modo per fare amicizia con qualcuno.» «Quindi siamo amici adesso?» Faccio spallucce. Si ferma a considerare questa informazione, continuando a guardarmi negli occhi. Il suo sguardo color cioccolato fondente scivola dal mio naso fino alla bocca. Poi su di nuovo, all’attaccatura dei capelli. «Mi sembri familiare.» «Forse somiglio a qualcuno che conosci.» «Sai, hai ragione. È vero.» «Chi?» Ho la sensazione di sapere già che risposta mi darà, ma aspetto che sia lui a dirlo. Sembra possedere un’intelligenza appena nella media. «Ho sentito dire che uno degli allenatori ha una figlia.» Annuisco a conferma. «Ah, allora sei un lottatore.» Dio, mi piace quando ho ragione. «E se lo fossi?» Ah! Sì! Lo sapevo. «Mio padre è l’allenatore.» «Non gli assomigli.» Continua a fissarmi. «Be’, lo ricordi, ma tu sei molto più bella.» Ovvio che sia molto più bella. Cioè, mio padre è un uomo. Inoltre, non è invecchiato bene. Lo stress del lavoro ha avuto il suo peso, e non assomiglia affatto all’uomo di cui mia madre si innamorò perdutamente vent’anni fa. Chiunque sia questo wrestler, è venuto qui sapendo bene chi ero. Scendo dal tapis roulant. «Eric e di cognome?» «Johnson.» Registro l’informazione, in caso avessi bisogno di spremere mio padre per avere informazioni sul ragazzo. «Bene, Eric Johnson, è stato un piacere, ma sono abbastanza sicura che mio padre avrà avvertito tutta la squadra di non provarci con me, e tu mi hai appena mentito due volte. Quindi, o sei duro d’orecchi o sei in cerca di guai. Quale delle due?» «Non pensi che questo sia stato un incontro casuale?» Lo guardo negli occhi, senza riuscire a leggere la sua espressione neutra. Il ragazzo ha una gran bella faccia da poker. Mi fa un altro sorriso amichevole, e il malizioso luccichio nel suo sguardo mi dice che è decisamente interessato a qualsiasi cosa pensa che io abbia da offrirgli, oppure che vuole accattivarsi mio padre. Sembra un po’ tonto, ma in modo carino. Mhm. Comunque, decido di non dargli corda. Ho parecchie cose da fare e la sua insistenza può portare solo guai, lo so. «E tu, come ti chiami?» chiede a voce alta mentre mi muovo a zig zag tra gli attrezzi, dirigendomi verso lo spogliatoio. Cavolo, perché parla così forte? Mi fermo, torno indietro, non voglio urlare in palestra, non in una stanza piena di atleti che non ho mai visto, atleti sexy e sudati. Ho detto sexy? «Vuoi abbassare la voce?» Scrolla leggermente le spalle. «È rumoroso qui dentro.» «Non tanto da dover urlare.» «Scusa.» «Mi chiamo Anabelle.» Eric Johnson, il mio nuovo conoscente (di cui mio padre non sarà felice), allunga la mano per stringere la mia. All’inizio esito, certa di avere i palmi sudati e disgustosi. «Piacere di conoscerti, Anabelle.» Non posso dire lo stesso. Ciononostante, gli do la mano e lui agita il braccio su e giù, stringendomela forte. «Eric, è stato interessante.» «Ci vediamo in giro?» «Certo.» Poi aggiungo, «Perché no?» *** «Ehi papà, è un brutto momento?» Do un colpo leggero con le nocche sulla vetrata del suo ufficio, situato all’ingresso dello spogliatoio del wrestling. È seduto alla scrivania, la testa china su un mucchio di fogli, con i post-it appiccicati sul suo computer e sui muri. Solleva la testa, felice di vedermi lì. «Ehi, Ana Banana.» Una volta odiavo quando mi chiamava così, lo fa da quando avevo cinque anni, ma adesso sono così abituata a sentire quel soprannome che mi fa sorridere scioccamente. «Hai un minuto libero?» «Qualunque cosa per la mia bambina.» Oh cavolo. Cerco di nascondere il mio nervosismo e mi trascino verso una delle sedie del suo ufficio, una stanza di cemento dipinta di blu, separata dagli spogliatoi e dalle docce solo da una fila di finestre. Un vero acquario. «Non mi capiterà di vedere accidentalmente dei lottatori nudi, vero?» Non mi arrabbierei nel caso succedesse, ma potrebbe essere imbarazzante con mio padre seduto accanto a me. «No. Non dovrebbe esserci nessuno qui prima delle…» controlla il vecchio orologio da polso, «…quattro.» Poso lo zaino sul pavimento di cemento, che un tempo doveva essere beige, e mi lascio andare su una scomoda sedia di metallo. Niente lussi per il mio vecchio. Si china in avanti, interessato a qualunque cosa io stia per dire. «Come vanno le lezioni?» «Bene.» Molto bene in realtà. «Stavo solo andando a mangiare un boccone. Sono affamata. Vuoi che ti porti qualcosa?» Rubo una caramella alla menta dalla ciotola sulla sua scrivania, la stessa marca che mangia fin da quando ero piccola, la scarto e me la ficco in bocca. Lancio l’involucro verde nel cestino vicino. «Perché non fai una corsa a casa e prendi qualcosa da mangiare?» «Perché sono già qui. Prenderò un panino al bar del campus.» «Non hai bisogno di mangiare lì, il cibo fa veramente schifo.» Ecco, l’occasione buona per introdurre l’argomento di cui volevo parlare. «In effetti papà, il motivo per cui sono qui è un altro.» Mi schiarisco la voce, cercando di farmi coraggio. «Sai che mi piace vivere con te e Linda, è solo... penso che sia tempo di trovare un posto tutto mio. È passato un mese» aggiungo in fretta, «e penso di essermi ambientata bene quindi, sai, non c’è bisogno che io resti ancora con voi.» Ugh, sono sembrata un’ingrata? Mi sento malissimo anche solo a parlarne, ma ho davvero bisogno di un posto mio. Papà si sposta sulla sedia, inclinandola indietro fino a farla cigolare, tamburella con le dita, un gesto che conosco bene e che significa che sta pensando a cosa dire. «Hai già cominciato a cercare?» «Non proprio. Non so da dove cominciare. Ho pensato che forse potresti aiutarmi.» Si tranquillizza un po’ e si siede dritto. Mi darei il cinque da sola. Di ragazze adolescenti in lacrime? Non ne sapeva nulla. Bambine spaventate che sentivano la mancanza della madre durante la solita visita nei week-end? Nemmeno un’idea. Mestruazioni? Ormoni? Problemi con il ragazzo? No, no e ancora no. Erano tutte cose che non avrebbe mai potuto capire e con le quali non avrebbe saputo aiutarmi. Trovare un posto dove vivere? Ne sa qualcosa. Mi do virtualmente una pacca sulla spalla per aver chiesto il suo aiuto. Odio che si senta come se mi avesse abbandonato quando mia madre ha divorziato da lui, e odio che la sua presenza sia mancata tanto nella mia vita, perché era impegnato a rincorrere il suo sogno mentre mia madre era solo astiosa. Posso solo immaginare come sarebbe stato se fossero rimasti insieme, cercando di far funzionare il loro rapporto. Se a mia madre non fosse importato di doversi trasferire a dicembre nel posto in cui papà avrebbe cominciato a lavorare in primavera. Mi chiedo se sarebbe sembrata un’avventura non rimanere nella stessa città per tutta la vita. Armeggio con l’orlo della felpa, l’unica cosa calda che ho tolto dalla valigia da quando sono arrivata a casa sua, sapendo, sperando, che fosse una sistemazione temporanea. «Non voglio che tu viva con degli estranei, Annie.» «Qui sono tutti estranei, papà. Sto cominciando adesso a conoscere gente.» «Proprio per questo, adesso potrebbe non essere il momento giusto per avere un posto tutto tuo.» «Be’!» Poso le mani sulla scrivania. «Forse è proprio questa la soluzione. Magari dovrei avere un posto solo mio, senza dover più condividere un appartamento. Sono al terzo anno. Presto avrò ventidue anni.» Scuote la testa e alza gli occhi al cielo. «Non ricordarmelo. Mi fa solo sentire vecchio» dice scherzoso. Si raddrizza di nuovo e mi fissa con i suoi occhi verdi, con un’espressione decisa. «Vuoi davvero vivere da sola?» «Non proprio, ma non voglio aspettare. Potrebbe volerci un’eternità per trovare delle persone con cui convivere.» Faccio un respiro profondo. «Ti voglio bene papà e voglio bene anche a Linda. Ho solo bisogno… sai… del mio spazio. Sembrerà strano quando vorrò ricevere degli ospiti.» «Ma… puoi riceverli anche da noi!» «Papà, andiamo» dico con tono neutro. «Per ospiti intendo anche… ragazzi.» Se mai dovessi incontrare qualcuno. Continuo a parlare, come se il suo viso non si fosse contorto in un’espressione orripilata. «Riesci a immaginarmi far entrare qualcuno in casa di notte, mentre dormi? Ho fatto entrare di nascosto degli amici quando vivevo da mamma. Dio, come si arrabbiava.» «Perché dovevi farli entrare di nascosto?» «Uh, perché era severa, non voleva mai avere gente in casa. Ma non è stato un grosso problema.» Papà cambia completamente espressione e mi sento in colpa per aver toccato l’argomento. «Anabelle, sai che ti lasceremmo invitare gente. Non devi nemmeno chiedere.» Fa una pausa. «Forse non ragazzi… ma altra gente, che so… delle ragazze?» Sto ancora ridendo quando la porta dello spogliatoio si apre e noto un tipo scuro e cupo dall’altra parte delle finestre. «Chi è quello?» Ho la voce ansante anche se provo a mascherarla. Papà allunga il collo per guardare. «Zeke Daniels. Si è già laureato, ma viene a darci una mano di tanto in tanto.» Sono sorpresa e inclino la testa per studiarlo. Dalla mia bocca esce un «Whoa.» «Ha una fidanzata, e anche se non l’avesse, non lo vorrei vicino a te.» Ho un’aria sconsolata perché è maledettamente affascinante. «Il che mi ricorda che potresti incontrarlo alla cena a cui parteciperemo Linda e io. Credo verrà anche la sua ragazza.» Distolgo gli occhi… a fatica. «Quale cena?» «È per il programma Fratelli Maggiori che ho sponsorizzato negli ultimi anni. Daniels è il mentore di uno dei ragazzi, insieme ad alcuni degli altri lottatori. A ogni modo, c’è una cena annuale di raccolta fondi alla fine di febbraio. Cena, ballo e un’asta silenziosa. Linda e io ci divertiamo, rendendola una serata romantica.» «Serata romantica?» Papà fa quella cosa tutta sua di socchiudere gli occhi per valutare la reazione di una persona, e non importa quanto cerchi di mantenere impassibile la mia espressione, so che nota l’eccitazione nel mio sguardo al sentir parlare di appuntamento romantico. «Te l’ho detto, non ti è permesso uscire con nessuno di quegli stronzi.» «Quali stronzi? Praticamente hai messo in guardia tutti.» «I wrestler. Non funzionerebbe. Non ho bisogno di vederti invischiata con uno della squadra. Non finirebbe bene.» «Per chi non finirebbe bene?» «Per loro, ovvio.» Prende un post-it giallo, scarabocchia qualcosa e lo appiccica sul monitor del suo computer. «Inoltre, sai che ho già detto a ciascuno di loro di starti lontano.» «Alcuni non sembrano sentirci bene» ribatto sottovoce con una risata. Mio padre non lo trova affatto divertente e domanda con tono risoluto dalla sua sedia «Chi?» Scuoto leggermente la testa. «Nessuno.» «Uno di loro ci ha già provato con te?» «No papà. Stavo solo scherzando.» «Anabelle Juliet.» «Oddio, adesso siamo passati a usare anche il secondo nome.» «Non sto scherzando, Annie. Metà di loro non saprebbero distinguere il loro culo da un buco nel terreno.» Sorrido. «E l’altra metà?» Sono quelli che mi interessano. Mi mette in riga con uno sguardo poco divertito. «Eri così insolente anche con tua madre?» «Sì, più o meno.» È uno dei motivi per cui mamma e io litigavamo quando ero un’adolescente. Non riusciva a sopportare la mia boccaccia e il mio senso dell’umorismo, diceva che le ricordavo troppo mio padre. Da quando in qua è una brutta cosa? Non sarei mai rimasta zitta. «L’altra metà non ha tempo per avere una vita sociale, Anabelle. L’altra metà sta vincendo i campionati nazionali e non ha bisogno di distrazioni.» Ahhh, è così allora. «Quindi sei tu a non volere che i ragazzi abbiano una vita sociale.» Si schernisce. «Anabelle, non lo vuole nessun allenatore della Federazione Sportiva Nazionale.» Rido, gettando la testa all’indietro perché lo dice in maniera tranquilla, come se la cosa fosse ovvia. «Ho capito, papà, ma non puoi controllare tutto ciò che fanno.» «No, ma posso impedirgli di uscire con mia figlia.» «E se finissi per piacere a uno di loro?» «Non succederà.» Il suo tono mi sfida a replicare. E quindi io replico. «Scherzi a parte papà, e se ne incontrassi uno talmente sexy, divertente e attraente da non potergli resistere?» «Fortunatamente per me, quelli sono già fuori mercato. È così che lo chiamano i ragazzi? Il mercato della carne?» «Metafora azzeccata, questo è sicuro.» Scrollo le spalle. «Non sto scherzando.» «Lo so, papà.» «Bene.» Fa finta di sistemare alcuni fogli per farmi capire che la conversazione è finita. «Inoltre, non capisco perché vorresti uscire con un lottatore. Tanto per cominciare, hanno tutti le orecchie a cavolfiore.» «Hai fatto una battuta?» «Sì. Non era divertente?» «Non direi, perché penso che quelle orecchie buffe siano carine.» Gli sto dando del filo da torcere e lui lo sa. Mi alzo dalla sedia e allungo una mano, muovendogli avanti e indietro un orecchio. «Guarda che belle orecchie piccole e carine che ha mio padre.» Mi dà un buffetto, brontolando. «Smettila, le persone ci guardano.» Gli faccio un occhiolino degno della Anabelle adolescente. «Nessuno ci sta guardando.» Nessuno salvo il lottatore che gironzola nello spogliatoio. Zeke Daniels mi vede e aggrotta le sopracciglia, si gira per mettersi una T-shirt da ginnastica, dandomi la sua ampia schiena. È ricoperta interamente da un tatuaggio nero che sembra una fenice che rinasce. Spicca in maniera nitida sulla sua pelle, linee dure per un umore decisamente nero. Misteriosa, rigida e arrabbiata, proprio come lui. «È sempre di cattivo umore? O è la mia presenza a renderlo così?» «Daniels?» Mio padre allunga di nuovo il collo, scrutando attraverso la vetrata. Grugnisce sprezzante. «È sempre così.» «Perché?» «Sospetto che abbia a che fare con l’ambiente in cui è cresciuto. Non va d’accordo con i suoi genitori.» «Ahh.» Nessuno dei due parla, e mi chiedo se papà stia pensando ciò che penso io. Che i genitori di una persona modellano quello che diventerà, che lo vogliano o no. Voglio dire, guardatemi, ho due genitori assolutamente normali che hanno divorziato eppure, in un certo senso, ne ho risentito parecchio. Mi sono trasferita dall’altra parte del Paese per cercare l’approvazione di mio padre, per espiare il fatto che mia madre lo ha lasciato. Ho frequentato abbastanza lezioni di psicologia alle superiori da riconoscere che il mio comportamento affonda le sue ragioni nel passato e nelle dinamiche interne alla mia famiglia. «Non ci crederai» sta dicendo papà, «ma è cambiato parecchio. Era una tale testa di cazzo, che l’anno scorso ho quasi dovuto sospenderlo.» Studio Zeke attraverso la vetrata, uno sguardo lascivo che vaga su tutto il suo corpo. Davvero Anabelle, davanti a tuo padre? Ugh. «Sospenderlo? Perché?» «Atteggiamento di merda, perdona il francesismo.» «Non sembra così terribile.» Papà sbuffa. «L’aspetto può ingannare. Sospetto che buona parte del cambiamento sia merito della sua ragazza.» «La conosci?» Osservo Zeke seduto sulla panca, rivolto di nuovo verso di noi, mentre si allaccia un paio di scarpe da wrestling nere. Un tale peccato, che abbia coperto la sua ampia schiena. «L’ho incontrata una volta, alla raccolta fondi dei Fratelli Maggiori. Credo che quella biondina se lo rigiri come vuole.» Bionda? Tipico. Ragazzi come quello frequentano sempre una bionda. «È uno scricciolo di ragazza. E ha problemi di balbuzie.» Che cosa? «Balbuzie?» «Sai, un disturbo del linguaggio.» «So cos’è la balbuzie, papà.» Inarco le sopracciglia incuriosita. «Quel ragazzo esce con una ragazza con un disturbo del linguaggio?» «Sì.» Adesso non riesco a staccargli gli occhi di dosso, la curiosità sta prendendo il sopravvento mentre comincio ad avere dei dubbi sulla mia prima valutazione. «Com’è lei?» «Chi, Violet?» «Si chiama così?» «Sì.» Papà tamburella le dita ancora una volta. «Fa un sacco di volontariato. Fa la babysitter. Piccola e tranquilla. Non li avrei immaginati insieme nemmeno in un milione di anni, ma immagino che non possiamo scegliere di chi innamorarci.» Non riesco a decidere se è un commento tagliente su Zeke o sulla scelta di Violet in fatto di partner. «A ogni modo, devo dargliene atto, quel ragazzo si fa il culo per la squadra.» Direi proprio di sì, è arrivato un’ora e mezza prima dell’inizio dell’allenamento, e si sta già fasciando i polsi. Inclina la testa prima da un lato poi dall’altro, con il casco protettivo che gli penzola dal polso. «Basta parlare di lui. Dobbiamo sistemare la tua situazione.» Faccio un respiro di sollievo, è pronto a parlarne. «Sì. Grazie papà.» «Se vuoi vivere da sola, non ho nulla in contrario, ma non voglio che tu finisca in un buco.» «Sono tutti buchi» dico, sentendo il bisogno di sottolineare l’evidenza dei fatti. «Vero.» Papà si alza, girando attorno alla scrivania. «Trova qualche alternativa e andremo a dare un’occhiata. Nel frattempo, fai un favore al tuo vecchio e prova a cercare una compagna di stanza, preferibilmente una che studia molto e ama stare in casa, che odia le feste e i ragazzi.» «Ah.» Mi alzo anch’io, mettendogli le mani sulle spalle e stringendole. Gli do un bacio sulla guancia segnata dal tempo. «Vedrò cosa riesco a fare.» «Ti voglio bene, Annie.» Quando mi scompiglia i capelli, lo lascio fare. Sbuffo nel sentire il nomignolo di quando ero piccola. «Ti voglio bene anch’io, papà.» *** Ho trovato il posto ideale per studiare nel campus. Salgo le scale fino all’ultimo piano della biblioteca dell’università, attraverso lo spazio tranquillo, supero gli scaffali coi volumi più antichi, l’emeroteca e le vecchie, obsolete macchine per i quotidiani, sapete, quelle in cui si cercavano gli articoli di giornale prima dell’avvento di internet. Ci sono diverse aule studio su questo piano, ma io scelgo un tavolo. È nell’angolo, appartato, nascosto dietro una libreria alta quasi un metro e mezzo. Nessuno riuscirebbe a vedermi anche se salisse fin qui. Nessuno mi disturberà, non ho visto anima viva le altre quattro volte che sono venuta a studiare qui. È tranquillo, l'ambiente perfetto per fare i compiti. Per i cinque piani sotto, ci sono fin troppe persone. È un posto dove gli studenti possono socializzare, un altro terreno fertile per perdere tempo e flirtare. La maledetta biblioteca è come un nightclub. Apro il mio laptop e mi collego al sito dei social media del college. Clicco, cercando la categoria che m’interessa. Cercasi compagni di stanza e appartamenti in affitto. Troppo caro. Troppo lontano dal campus. Sei coinquilini in una casa con quattro camere da letto? No grazie. Vado oltre, lasciando perdere gli annunci vecchi o scaduti, le case che sembrano fatiscenti o cadono a pezzi e gli annunci senza foto. Gli affitti con animali domestici? Passo, sono allergica ai gatti. Arredato sarebbe fantastico; l’ultima cosa che voglio è imporre a papà o a Linda il compito di venire in giro con me alla ricerca di mobili. E non oso immaginare quanto verrebbe a costare. Inoltre, papà è nel bel mezzo della stagione del wrestling; non avrebbe il tempo per organizzare un vero trasloco. Se potessi trovare qualcosa anche di parzialmente arredato, sarebbe fantastico. Frustrata, chiudo il sito e apro il documento che avevo iniziato a scrivere in precedenza per il mio corso di Etica, determinata a inserire il numero di parole richiesto e completarlo. Lo studio non mi viene facile; devo impegnarmi. A volte leggo e alla fine del primo paragrafo o della pagina, sono costretta a tornare indietro e rileggere. La memoria non è il mio forte, lo ammetto. Il sesto piano rimane silenzioso e vuoto e mi domando perché non venga utilizzato. È il posto perfetto per studiare e... be’, volendo, anche per fare altro. In altre università si sentono storie sull’ultimo piano delle biblioteche, storie di coppie che fanno sesso nei corridoi tra gli scaffali. Le corsie lunghe e polverose sono buie, isolate e i dipendenti non le controllano. Non ho mai sentito storie simili su questo piano. Peccato. Mi infilo bene gli auricolari e premo il pulsante per isolarmi da eventuali rumori. Abbasso la testa e mi metto al lavoro.
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