UNO – PROLOGO«Cosa rimarrà», disse Gangler, «dopo che il paradiso e la terra e l’intero universo saranno stati consumati, e dopo che gli dei e gli eroi del Valhalla e tutto il genere umano saranno periti?»
EDDA POETICA di Snorre Sturleson
Il Castello della Valchiria Scriba Glylada e di Re Krakis – Scandinavia
250 anni fa
«No, lei non può essere cremisi e oro!» Guardò la sposa, Glylada, la Valchiria che aveva amato per migliaia di anni sia in guerra sia in pace. Negli occhi di lei c’era incertezza, qualcosa che non poteva essere simulato dai bravi artigiani del mondo mortale. Quindi Krakis abbassò lo sguardo su sua figlia. Sua figlia… ma l’armatura non poteva mentire. Le striature bianche tra i capelli della piccola – come fulmini contro un cielo rosso – erano apparsi anche sul davanti dei boccoli quando si erano visti i primi segni dell’armatura. Quello non riusciva a spiegarselo, anche se sapeva che doveva essere tutto collegato. «Glylada, questi non sono i colori delle Valchirie Scriba. Non appartengono alla tua casta.»
Sconvolta, lei abbassò gli occhi sulla loro bambina, le ali corazzate da guerra intorno alle piume appena cresciute. «Ti farò passare questi pensieri a botte in testa se ti azzardi ad accusarmi ancora di tradimento. Non so cosa stia succedendo, ma Kara è nostra. È nostra e non tollererò che tu mi dica altrimenti. Ti ho amato quasi dall’alba dei tempi, Krakis, figlio di Kryo. Lei non indossa il blu delle Scriba, ma il rosso del sangue e l’oro dell’alba del Valhalla. Non ho una spiegazione per tutto questo ma non mi difenderò mai contro…» Glylada si interruppe, gli occhi di solito blu ora fissi e dorati. «Per gli Dei… Krakis», disse poi, mentre le iridi tornavano azzurre e lei si rianimava.
La sua sposa raramente utilizzava la sua vista magica e Krakis non l’aveva mai vista usarla come aveva appena fatto.
Il pallore fece sparire tutto il colore dalla sua pelle dorata prima che lei corresse via, urlandogli di tenere a freno la lingua. Quando fu di ritorno aveva con sé un’antica pergamena, che depose delicatamente come un soffio di vento vicino ai riccioli di fuoco della loro bambina piangente. Di fuoco e di ghiaccio adesso, con tutte le striature bianche che stavano apparendo.
«Guarda», mormorò lei, mentre la sua magia colmava la piccola di calma durante quella terribile crisi dei loro cuori, anche se le mani che tenevano la pergamena tremavano.
Krakis sapeva dentro di sé che lì non c’era spazio per la sua rabbia. Non con la donna – anzi, con le donne – per cui sarebbe morto, non prima che ne sapesse di più. Srotolò con cura la pergamena e, in una grafia antica quanto il Drago che l’aveva scritta, vide che non c’erano che poche righe, almeno in confronto alla maggior parte delle pergamene che custodivano lì.
E alla fine ci sarà l’Unica.
Non generata dai discendenti, ma dagli Dei, che salverà tutti quando non ci sarà più nessuno a riportare a casa i guerrieri coraggiosi.
Solo una per liberarli dalle prigioni costruite con la magia oscura ad Asgard.
Tre Re per salvarla; l’Unica per salvare tutti gli Imperi;
Riccioli di fuoco striati di paradiso, ali del colore dell’alba e del sangue, dove cieli blu dovrebbero essere.
Con la sua nascita ha inizio la Fine dei Giorni;
Il Crepuscolo degli Dei, i tre Inverni prima che tutti i Regni cadano nel caos,
Se la Nave dei Morti non avrà attraccato dopo il terzo Inverno, sarà troppo tardi per cambiarne il corso,
Sarà l’alba di un nuovo inizio, dove gli ingiusti saliranno a troni costruiti sul sangue degli infanti,
Gemelli innocenti sono diventati le maschere dei distruttori che regneranno davvero.
L’Unica morirà, o tutti morranno… fatta eccezione per un manipolo di malvagi.
Solo l’Unica potrà portare la primavera della speranza, dell’amore nei Reami.
A tutti i costi, ella deve restare nascosta fino all’arrivo del freddo del primo Inverno.
Se lei è perduta, tutto è perduto.
Tenete la bambina al sicuro.
Scritto sotto il diretto consiglio di Freyja, Dea dei Vanir, nell’anno degli Dei 1111 DCR (Dopo la Creazione dei Regni)
Zane
Krakis lo rilesse.
E ancora.
E ancora.
Quella pergamena non gli era nota, anche se aveva letto tutte quelle dell’archivio centinaia di volte. Lanciò un’occhiata alla moglie, che sollevò il mento con orgoglio, se non sfida.
«Ho giurato alla Dea Freyja che non l’avrei mai rivelata a nessuno, neanche a te, marito. Non fino a quando non ne avessi compreso il significato. Ora lo capisco, Krakis. Guardala! Guarda la nostra Kara e dimmi che non capisci anche tu.» Glylada baciò il capo della loro bambina mentre la sollevava e spostava la tunica per scoprirsi il petto.
Krakis osservò la moglie mentre cullava la loro figlia tra le braccia, anche se il panico era evidente sul suo volto. La paura di Glylada era ben diversa dalla sua, Krakis sapeva anche quello. La mano levigata della moglie teneva la testa di Kara e un dolore acuto lo attraversò nel guardare una tale tenerezza quando lui aveva avuto pensieri tanto morbosi.
«Questo è stato scritto molto tempo fa. Potrebbe riguardare una qualunque casta di guerriere! Quante Valchirie sono nate da caste di guerriere da quando è stato scritto tutto ciò? Quante ce ne sono in tutto? Potrebbe essere una qualunque di loro. Per favore, Glylada, magari non è lei.»
«Ce ne sono centinaia, naturalmente. In ogni caso la domanda che dovresti porti è quante guerriere sono nate dalla mia casta. La risposta è: una.»
Krakis avrebbe voluto fare a pezzi la pergamena. Se fosse stata ridotta a brandelli forse non avrebbe avuto più alcun potere su di loro. Sapeva che era ridicolo, ma avevano aspettato più di quattrocento anni per quell’angelo e adesso gli toccava una cosa del genere? Ora cosa sarebbe accaduto alla loro famiglia? Non poteva permetterlo. No, non si poteva parlare di Kara in quella pergamena. Forse suo padre aveva qualcosa a che fare con quella storia? Ma anche quell’ipotesi non aveva senso. Persino suo padre, per quanto potente, non avrebbe potuto cambiare l’armatura di Kara in quel modo.
«Come possono le sue ali portare il colore degli Dei e tu no?» Provava a calmarsi, ma l’unica cosa a calmarsi erano stati gli strepiti della bambina quando sua moglie aveva cominciato ad allattarla. Krakis guardò la sua amante di tanti secoli e cominciò a camminare avanti e indietro. «Non porta i tuoi colori, Glylada. Saremo completamente rovinati quando gli altri vedranno la sua armatura.»
L’espressione sul volto della sposa era di shock, con un tocco di rabbia. «Forse dovresti pensare alla rovina contenuta nelle parole della pergamena, Krakis, perché mi sembra molto più grande del nostro inesistente status nella società degli immortali. Se quelle parole sono vere, allora tutto sta cominciando ora e questa bambina non è al sicuro qui. Non commettere errori, lei è nostra e noi dobbiamo proteggerla dal destino avverso riservatole dagli Dei che serviamo. Possano questi stessi Dei avere pietà di te, marito mio, per il dubbio che vedo nei tuoi occhi. Spezza non un solo cuore, ma due. Uno di questi cuori è fin troppo spezzato oggi. Lei non può restare qui. Non lascerò che la nostra bambina muoia perché mio marito crede che sia stata infedele. Lei è tua, pazzo, quanto mia. Non puoi mentirmi, Krakis, e io non oserei mai mentire a te. Che gli Dei ti siano vicini e liberino la tua mente dalla follia per quando sarò di ritorno.» I suoi occhi luccicavano di lacrime non versate mentre avvolgeva la piccola in un panno di lana e se la fissava al petto… pronta a volare via.
Krakis sentiva di non riuscire a respirare. No, non poteva succedere davvero.
Ali blu ricoperte da un’armatura argentea si allargarono dalla schiena di Glylada, più ampie di un intero corpo da ogni lato. Guardandolo con un’espressione che sembrava sfidarlo a fermarla, il vento tumultuoso all’interno delle mura pareva essere il riflesso dell’amore nel cuore agitato di lui. In un trambusto di capelli dorati, lei si allontanò e cominciò a correre lungo le scale.
«No, per favore, Glylada, fermati!» gridò, la voce roca per l’emozione. «Ti prego, lasciami baciare il mio angelo. Mi dispiace. Non so come sia potuto accadere, ma so che è mia quanto tua. Hai ragione. Sono uno sciocco. Ti prego, non andartene senza che vi dica quanto vi adoro. Mi dispiace tanto, per favore…»
Lei si fermò, tenendo la bambina. Non aveva neanche un anno, in termini mortali. Il dolore le colpì il cuore, ma anche il senso del dovere lo fece. Glylada sapeva bene quanto tutti gli altri che ciò che stava accadendo lì non era normale. Sapeva di non essere stata con nessun altro e solo le caste di guerriere portavano quei colori sull’armatura. Non avrebbe potuto generare una guerriera, visto che lei era solo una scriba, un’archivista di Midgard. Ringraziò gli Dei di non aver ancora iscritto Kara negli archivi delle nascite e fino a quel momento non avrebbe saputo dire cosa l’avesse trattenuta dal farlo. Ogni volta che immergeva la penna nell’inchiostro per registrare la nascita, tremava così forte da versare la china o da spezzare la piuma e ogni volta ne rimaneva così sconvolta da pensare: il prossimo mese la aggiungerò. Il prossimo, il prossimo, il prossimo.
Non sembrava ci fossero segni di magia oscura, solo la protezione da parte degli Dei, forse. La sua Kara era destinata a stare nella sala di Odino e nel Campo di Freyja. L’albero dorato, Glasir, le avrebbe fatto ombra un giorno nel Valhalla, e se le pergamene dicevano il vero allora lei sarebbe stata l’ultima, quella che avrebbe liberato gli Dei e in qualche modo avrebbe fermato il caos prima della fine del terzo inverno del Ragnarok.
Poteva quella piccola bambina essere la predestinata a impedire che Midgard cadesse nelle fiamme e affondasse negli oceani? Poteva essere lei la predestinata a liberare gli Dei che ancora non erano imprigionati? Cominciò a piangere, sapendo che poteva essere l’ultimo volo con la sua dolce bambina. Le pergamene non dicevano molto oltre al fatto che sarebbe stata l’ultima Valchiria. Visto che le Valchirie sarebbero andate comunque ad Asgard nel caso di una improbabile morte, anche quello era un aspetto molto preoccupante del loro destino. Cosa ne sarebbe stato dei guerrieri degli Dei? Non ci sarebbe stato un Aldilà per loro se quegli eventi si fossero verificati? Il numero di morti era troppo da immaginare… ma anche l’anima? No, non era possibile. Persino gli Dei avevano dei limiti, non avrebbero potuto annientare un’anima vivente. O invece sì?
Glylada scacciò i pensieri che stavano corrompendo la sua unica missione e guardò il marito, l’uomo che amava con ogni fibra del suo corpo, il re del suo cuore, l’unico padrone della sua anima oltre alla bambina tra le sue braccia. La loro bambina. La baciò sul capo delicatamente, quindi tornò a osservare Krakis. «Il Ragnarok ha avuto inizio, Krakis, e lei deve andare da Zane. È lui l’autore delle pergamene che la riguardano e lui saprà cosa insegnarle fino a quando non arriverà il momento del compimento del suo destino. Se lei rimane con noi morirà. Mi uccide fare questo… separarmi da lei… pensare a cosa significhi. Ma noi dobbiamo prima prenderci cura di lei. Asgard aspetta i coraggiosi, giusto? Noi vedremo di nuovo la nostra bellissima bambina, non importa cosa verrà a tormentare i nostri giorni.»
Lui mise la sua grande mano sulla testa di Kara – c’erano lacrime anche nei suoi occhi ora – e allungò una ciocca bianca dai riccioli rossi della bambina. «Sì, naturalmente. Sono arrabbiato, ma non con te o con lei, miei tesori. Tu sei la luce della mia vita qui e oltre.» Rimase con lo sguardo fisso negli oceani bellissimi che erano gli occhi della sua sposa fino a quando lei non annuì, fino a quando non seppe che Glylada vedeva la verità nel suo cuore. Doveva essere perdonato per quello scoppio d’ira e non c’era modo di mentire a una Valchiria. Una cosa che una volta trovava terrificante ora era la sua assoluzione. Nel guardare Kara si sentì stringere il petto.
Non si sarebbero più addormentati tutti insieme nel letto, con i suoi piccoli alluci che trovavano sempre il modo di raggiungergli la pancia se la bambina non era rivolta verso la madre per fare la stessa cosa. Non avevano mai usato la culla da quando era nata. La piccolina utilizzava il loro letto anche per il pisolino, circondata dai giganteschi cuscini e con i loro cani ai suoi piedi per proteggerla.
Una lacrima gli scivolò dal viso e non si sentì meno uomo per quello.
«Fulmini nei tuoi capelli, il sangue dei guerrieri e l’alba del Valhalla nelle tue ali. Che tu sia benedetta, Kara, e che gli Dei possano vegliare su di te se io non posso. E dovranno anche fare un bel lavoro o dovranno risponderne a me.» Baciò le ciocche bianche, quindi le labbra della moglie. «Va’, amore mio, e ritorna da me. Ma porta con te alcune pergamene. Se questa è la profezia, allora ne avrà bisogno. Pregherò gli Dei e le Dee che ci siamo sbagliati e che staremo di nuovo insieme alla nostra bambina molto presto.»
Glylada annuì e baciò ancora il capo di Kara. «Lo farò anch’io, Krakis. Ti prego, sbrigati, amore mio. Non sappiamo quanto tempo ci rimane, nel caso non fossimo così fortunati da esserci sbagliati.»
Krakis corse fino all’archivio e preparò una borsa per la sua prima e probabilmente unica figlia. I parti tra le Valchirie erano rari e le caste delle guerriere come quella mostrata dall’armatura di Kara erano persino più rare. Una unione tra un re immortale e una Valchiria scriba avrebbe dovuto generare una Valchiria della stessa casta della madre, nel caso fosse nata una bambina. Non era mai accaduto altrimenti. Una Valchiria seguiva sempre la casta della madre. Era nell’ordine naturale delle cose.
Scrollandosi quei pensieri impuri dalla mente, Krakis si dedicò alla ricerca di tutta la conoscenza che la bambina avrebbe dovuto ricevere. Lanciando nel sacco pergamena dopo pergamena, ne afferrò qualcun’altra che descriveva il destino della piccola dagli scaffali. Quando la borsa fu piena delle carte di cui Kara avrebbe avuto più bisogno – quelle che parlavano delle caste delle guerriere, dell’amore dei suoi genitori e che riportavano i veri racconti sulla fine del mondo, il Ragnarok – si fermò, guardandosi attorno freneticamente. Una coperta su cui la bambina dormiva mentre Glylada leggeva fu infilata nella borsa, insieme a un disegno della madre che Krakis aveva realizzato con il carbone. Sarebbe dovuto bastare. La pietra verde-azzurra sul suo anello brillò alla luce della candela mentre lui chiudeva la borsa. Si fermò. Se lo tolse dal dito e lo avvolse nella coperta, quindi rimise tutto all’interno del sacco. Se tutto era vero, allora non ne avrebbe avuto più bisogno. E se invece non fosse stato così, allora se ne sarebbe fatto realizzare un altro con lo stemma di famiglia. Kara avrebbe avuto più bisogno di lui della magia contenuta in quell’anello se il destino era stato predetto accuratamente. Nella sua notte dell’immortalità, quello era stato un dono di suo padre.
Tornò di corsa nella sala principale, dove danzava la luce delle fiamme. La sua sposa era in piedi davanti a lui, tenendo il fagotto che era la loro piccola, che gli Dei fossero dannati. Camminò fino a lei. Con le ali ricoperte dall’armatura, così come gran parte delle gambe, e la corazza, Glylada era splendida. Krakis ricordò la prima volta che l’aveva vista con l’armatura. Non avrebbe saputo dire se la amava di più così o nuda sotto di lui. Piume blu e argentee le sventolavano dietro i capelli e, anche se non era della casta delle guerriere, tutte le Valchirie erano nate per combattere. La sua bellissima donna non faceva eccezione. Con la spada fissata alla schiena, lei era letale quanto quelle che raccoglievano i caduti sul campo di battaglia o lottavano contro un qualunque nemico gli Dei volevano che sconfiggessero.
Era letale.
Era fedele.
Era sua.
E lui lo sapeva.
Glylada fece un passo in avanti e lo baciò sulle labbra. «Ti amo, Krakis. Tonerò appena possibile. Preparati a seppellire gli archivi mentre sono via, perché dovremo essere pronti, qualunque cosa stia per succedere.»
Velocemente si diressero in cima al tetto sulla scalinata di pietra, grande abbastanza perché lei potesse allargare le ali al massimo.
Nubi scure tuonavano sopra di loro e Krakis avvertì un senso di inquietudine che non aveva mai conosciuto in tutti i suoi anni sulla Terra. Si scambiarono un bacio che esprimeva la profondità del loro amore quindi, senza un’altra parola, Glylada si innalzò verso il cielo.
Fu solo quando lei se ne fu andata che Krakis capì di aver dimenticato la pergamena più importante. Gridò contro l’orizzonte, ma la Valchiria era già troppo lontana perché potesse udirlo e non osava contattarla mentalmente per non cogliere di sorpresa Glylada mentre aveva la loro bambina tra le braccia. Kara era fissata saldamente, ma lui non avrebbe corso dei rischi. L’avrebbe seguita fino alla montagna e avrebbe consegnato l’ultima pergamena non appena gli archivi fossero stati pronti per essere seppelliti nel caso fosse stato necessario farli finire sottoterra per qualche secolo.
Proprio mentre stava rientrando, udì delle voci ripugnanti portate dal vento ed estrasse i pugnali.
Un’esplosione.
Due.
Quindi il fuoco della magia nera gli lambì i piedi, le mani, il collo. Le fiamme della consunzione, il fuoco dei demoni. Krakis si rifiutò di gridare nonostante il calore bruciante e lanciò i coltelli verso le voci. Almeno un soddisfacente ululato di dolore echeggiò da dietro il fumo.
«Vola, amore mio. Vola!» gridò Krakis, mentre il fuoco lo avvolgeva, mostrandogli uno scorcio di Hel. Non che sarebbe finito davvero lì.
Pensò alle sale del Valhalla e alle splendide ali della sua sposa e a sua figlia, che un giorno avrebbe rivisto anche a costo di battersi con gli Dei per riuscirci. Un attimo prima che il fuoco consumasse il suo ultimo respiro, ali dorate avvolte dalla luce scesero su di lui e il tempo si fermò. Ogni cosa si fermò. Non c’erano più calore né sofferenza. Solo quelle ali e un volto delicato e pieno di pace contornato da capelli dorati quanto lo erano le piume, gli occhi e l’armatura.
«Non andrai nel Valhalla, guerriero, ma nei Campi di Folkvangr. Lì aspetterai i tuoi cari.»
La Dea allungò una mano a sfiorarlo e lo portò via dal dolore della morte verso una nuova vita; una vita dove avrebbe aspettato il ritorno di Glylada e di Kara.
Krakis non mancò di notare il sorriso triste sulle labbra della Valchiria mentre sparivano da Midgard e dalla sua morte ardente sul tetto di quella che era stata la sua casa.