Capitolo Uno
L’aria era frizzante e fresca, mentre Mia camminava velocemente lungo un sentiero tortuoso di Central Park. I segni della primavera erano dappertutto, dai piccoli germogli sugli alberi ancora spogli alla proliferazione di tate intente a godersi la prima giornata calda con i loro bambini indisciplinati.
Era strano quanto fosse cambiato tutto negli ultimi anni, e quanto al contempo fosse rimasto tutto uguale. Se qualcuno dieci anni fa avesse chiesto a Mia come sarebbe stata secondo lei la vita dopo un’invasione aliena, tutto questo sarebbe stato lontanissimo dalla sua immaginazione. Independence Day, La guerra dei mondi—nessuno di questi film si avvicinava alla realtà dell’incontro con una civiltà più avanzata. Non c’era stata alcuna guerra, nessuna resistenza di alcun tipo a livello governativo—perché loro non l’avevano permesso. Col senno di poi, quei film erano sembrati davvero stupidi. Armi nucleari, satelliti, aerei da combattimento—quelli erano poco più che rocce e bastoni per un’antica civiltà in grado di attraversare l’universo più velocemente della luce.
Scorgendo una panchina libera lungo il lago, Mia si diresse allegramente in quella direzione, con le spalle che sentivano la fatica dovuta allo zaino contenente il grande computer portatile vecchio di dodici anni e i libri cartacei. A ventun anni, a volte si sentiva anziana, arretrata rispetto al nuovo mondo dei tablet sottili e dei cellulari integrati negli orologi da polso. Il ritmo del progresso tecnologico non era rallentato dal K-Day; anzi, molti nuovi gadget erano stati influenzati da ciò che avevano i Krinar. Non che i K avessero condiviso alcune loro tecnologie preziose; il loro piccolo esperimento doveva continuare ininterrottamente.
Aprendo la zip dello zaino, Mia tirò fuori il vecchio Mac. Era pesante e lento, ma funzionava—ed essendo una studentessa disagiata, la ragazza non poteva permettersi niente di meglio. Effettuando l’accesso, aprì un documento Word e si preparò ad iniziare il complesso processo di scrittura del saggio di Sociologia.
Dopo dieci minuti ed esattamente zero parole, si fermò. Chi voleva prendere in giro? Se avesse davvero voluto scrivere quel dannato saggio, non sarebbe mai andata al parco. Per quanto fosse allettante l’idea di fingere di poter godere dell’aria fresca ed essere produttiva al tempo stesso, le due cose non erano mai state compatibili nella sua esperienza. Una vecchia biblioteca sarebbe stata molto meglio per qualsiasi attività che avesse richiesto quel genere di esercizio mentale.
Imprecando tra sé e sé per la pigrizia, Mia sospirò e cominciò a guardarsi intorno. Osservare la gente a New York l’aveva sempre divertita.
La scena era familiare, con il solito senzatetto che occupava una panchina vicina—grazie a Dio non la più vicina a lei, dal momento che sembrava potesse emanare un pessimo odore—e due tate che parlavano tra loro in spagnolo, mentre spingevano i bimbi avanti e indietro nel passeggino, ad un ritmo rilassato. Una ragazza correva su un sentiero poco più avanti, con le sue brillanti Reebok rosa in netto contrasto con i leggings blu. Lo sguardo di Mia seguì la jogger che svoltò dietro l’angolo, invidiandone la buona forma fisica. I suoi orari frenetici le lasciavano poco tempo per esercitarsi, e dubitava che sarebbe riuscita a tenere il passo della ragazza anche solo per un chilometro.
A destra, si vedeva il Bow Bridge sul lago. Un uomo era appoggiato alla ringhiera, tutto preso a guardare l’acqua. Dava le spalle a Mia, quindi lei poteva vederne solo una parte del profilo. Tuttavia, qualcosa di lui attirò la sua attenzione.
Non sapeva cosa. Era decisamente alto e sembrava robusto sotto il cappotto apparentemente costoso che indossava, ma non era quello il motivo. Gli uomini alti e belli erano comuni nella New York invasa dai modelli. No, c’era dell’altro. Forse il portamento—molto rigido, senza movimenti supplementari. Aveva i capelli scuri e lucenti sotto il sole luminoso del pomeriggio, abbastanza lunghi nella parte anteriore da muoversi leggermente nella calda brezza primaverile.
Ed era solo.
Le cose stavano così, si rese conto Mia. Il ponte, normalmente popolare e pittoresco, era completamente deserto, a parte l’uomo su di esso. Tutti sembravano evitarlo per qualche sconosciuta ragione. Infatti, a parte lei e il suo vicino senzatetto probabilmente puzzolente, l’intera fila di panchine nella posizione altamente desiderabile del lungolago era vuota.
Come se percepisse lo sguardo su di lui, l’oggetto dell’attenzione di Mia ruotò lentamente la testa e la guardò. Prima che il suo cervello cosciente potesse riflettere, il sangue della ragazza si trasformò in ghiaccio, lasciandola paralizzata e impossibilitata a fare qualunque cosa, tranne fissare il predatore che sembrava esaminarla con interesse.
Respira, Mia, respira. Una vocina razionale ripeteva quelle parole in qualche parte della sua mente. Quella stessa parte stranamente obiettiva notò la simmetrica struttura del viso dell’uomo, con la pelle dorata ben tesa sugli zigomi e la mascella marcata. Le foto e i video dei K che aveva visto non rendevano loro giustizia. A non più di dieci metri di distanza, quella creatura era semplicemente straordinaria.
Mentre continuava a fissarlo, ancora bloccata, lui si raddrizzò e cominciò a camminare verso di lei. O, più che altro, a braccarla, pensò Mia stupidamente, dato che ogni suo movimento le ricordava una tigre della giungla che si avvicina sinuosamente ad una gazzella. Per tutto il tempo, non le staccò gli occhi di dosso. Man mano che si avvicinava, la ragazza distinse singole striature gialle nei suoi occhi dorati e le folte ciglia che li incorniciavano.
Lo guardò sedersi sulla panchina con incredulità, a meno di un metro da lei, e sorrise, mostrando i denti bianchi. Non aveva zanne, realizzò Mia con una parte funzionante del cervello. Nemmeno un accenno. Quello doveva essere un altro mito su di loro, come la presunta avversione per il sole.
"Come ti chiami?" le chiese la creatura. La sua voce era bassa e rilassante, senza il minimo accento. Dilatò leggermente le narici, come per inebriarsi del suo profumo.
"Uhm..." Mia deglutì nervosamente. "M-Mia."
"Mia" ripeté lui lentamente, come se volesse assaporare quel nome. "Mia come?"
"Mia Stalis." Oh cazzo, perché voleva sapere il suo cognome? Perché era lì a parlarle? In generale, che cosa stava facendo a Central Park, lontano da uno dei Centri K? Respira, Mia, respira.
"Rilassati, Mia Stalis." Il suo sorriso si allargò, mostrando una fossetta sulla guancia sinistra. Un K con la fossetta? "Non avevi mai incontrato uno di noi prima d’ora?"
"No." Mia respirò forte, realizzando che stava trattenendo il fiato. Era orgogliosa che non le tremasse la voce. Avrebbe dovuto chiederglielo? Voleva saperlo?
Raccolse il coraggio. "Che cosa, uhm—" Deglutì un’altra volta. "Che cosa vuoi da me?"
"Per ora, conversare." Sembrava essere sul punto di riderle in faccia, con quegli occhi dorati socchiusi leggermente agli angoli.
Stranamente, quello la infastidì abbastanza da farle superare la paura. Se c’era una cosa che Mia detestava, era che qualcuno le ridesse in faccia. Con la sua statura bassa, esile e una generale mancanza di abilità sociali derivante da una difficile fase adolescenziale vissuta con l’incubo di ogni ragazza dell’apparecchio dei denti, i capelli crespi e gli occhiali, Mia aveva provato fin troppe volte la sensazione di essere l’oggetto di scherno della gente.
Sollevò il mento con fare belligerante. "Bene, tu come ti chiami invece?"
"Korum."
"Solo Korum?"
"In realtà non abbiamo cognomi, non come voi. Il mio nome completo è molto più lungo, ma non riusciresti a pronunciarlo se te lo dicessi."
Interessante. Ricordava di aver letto qualcosa del genere sul New York Times. Finora, tutto bene. Le gambe avevano quasi smesso di tremare e il respiro stava tornando alla normalità. Forse ne sarebbe uscita viva. Quella conversazione sembrava abbastanza tranquilla, anche se il modo in cui continuava a fissarla con quegli occhi giallognoli che non sbattevano mai le palpebre era inquietante. Decise di continuare a farlo parlare.
"Che cosa ci fai qui, Korum?"
"Te l’ho appena detto, sto facendo conversazione con te, Mia." C’era di nuovo un lieve accenno di risata nella sua voce.
Frustrata, Mia sospirò. "Voglio dire, che cosa ci fai qui a Central Park? A New York in generale?"
Korum sorrise ancora, piegando leggermente la testa di lato. "Forse speravo di incontrare una bella ragazza con i capelli ricci."
Bene, aveva davvero oltrepassato il limite. Chiaramente la stava prendendo in giro. Ora che riusciva a riflettere un po’ di più, si rese conto che erano al centro di Central Park, davanti a migliaia di spettatori. Si guardò intorno con fare sospettoso per riceverne la conferma. Sì, proprio così; anche se le persone naturalmente evitavano la sua panchina e quella dell’altro occupante, c’era una serie di anime coraggiose che li guardava lungo il loro sentiero. Una coppia li stava addirittura riprendendo con le telecamere da polso. Se il K avesse provato a farle qualcosa, sarebbe finito su YouTube in un batter d’occhio, e sicuramente lui lo sapeva. Tuttavia, non era detto che gliene importasse.
Comunque, partendo dal presupposto che non aveva mai visto un video sulle aggressioni di K alle studentesse universitarie nel bel mezzo di Central Park e che doveva essere piuttosto al sicuro, Mia prese con cautela il portatile e lo sollevò per rimetterlo nello zaino.
"Lascia che ti aiuti, Mia—"
E prima che potesse fare qualcosa, lo sentì prenderle il pesante portatile dalle dita improvvisamente molli, sfiorandole delicatamente le nocche. A quel tocco, una sensazione simile a una leggera scossa elettrica la attraversò, facendole fremere le terminazioni nervose.
Allungandosi verso il suo zaino, le mise con attenzione il portatile all’interno con un movimento disinvolto e sinuoso. "Ecco fatto, tutto a posto."
Oh Dio, l’aveva toccata. Forse la sua teoria sulla sicurezza nei luoghi pubblici era falsa. Sentì il suo respiro accelerare di nuovo, e la frequenza cardiaca probabilmente era in zona anaerobica a quel punto.
"Devo andare ora… Ciao!"
Non capendo come, riuscì a pronunciare quelle parole senza andare in iperventilazione. Afferrando la cinghia dello zaino che lui aveva appena posato, saltò in piedi, notando con qualche parte funzionante della mente che la sua paralisi precedente era scomparsa.
"Ciao, Mia. Ci vediamo dopo." La sua voce derisoria si insinuò nell’aria fresca della primavera, mentre lei andò via, quasi correndo per la fretta di allontanarsi.