CAPITOLO 2-1

2009 Parole
CAPITOLO 2 Il re del Portogallo Fu un viaggio particolare, e gli equipaggi se ne accorsero ben presto. A bordo tutti pensavano che Monredon avrebbe fatto vela per Bordeaux: in fin dei conti, l’Aquitania era inglese e come se non bastasse Bordeaux era la diocesi di origine del papa. Lì i templari avrebbero potuto ritenersi al sicuro. Quando si seppe che il comandante aveva ordinato di accostare a sud-sudovest, le ciurme rimasero perplesse. Qualcuno cominciò a domandarsi se il viaggio aveva una meta precisa o se Monredon avrebbe deciso la rotta ogni mattina gettando in aria una moneta. Come se non bastasse, il comportamento del comandante era quantomeno strano. Lui, che aveva sempre preferito stare con i compagni d’arme, a bordo, in battaglia o in caserma, da quando la flotta si era separata era rimasto chiuso in cabina. Per qualche ora aveva trattenuto con sé Bertrand de Bigorre, poi l’aveva congedato e non si era fatto vedere sul ponte nemmeno per sovrintendere alla distribuzione del rancio, un rito al quale i comandanti non mancavano mai. Quella mattina, a bordo della Templière, Bigorre era stato avvicinato da tutti gli ufficiali. Ognuno ci aveva provato a modo suo: apertamente, per vie traverse, con apparente reticenza o con una franchezza persino eccessiva. Tutti l’avevano interrogato sui fatti di Parigi e sulle intenzioni di Monredon. Non ne avevano ricavato granché. «Dite, Bigorre: l’ordine riuscirà a sopravvivere?» «Non lo so, ma ho poche speranze. Il gran maestro si appellerà al papa. Non può fare altro. Il guaio è che il re ormai si è compromesso e deve andare fino in fondo. Cosa può fare il papa per fermarlo?» «Perbacco! Può scomunicarlo!» «Già. Avete mai visto un re far marcia indietro per paura della scomunica?» «Ma il papa può chiedere aiuto al re d’Inghilterra, al duca di Borgogna, all’imperatore!» «E questi principi dovrebbero mettere a rischio i loro possedimenti per fare un piacere a noi?» «Insomma cosa volete dire, che Clemente V non farà niente per niente? Che potrebbe mercanteggiare il suo aiuto?» «Magari lo facesse! Sarebbe la nostra unica speranza.» Il cinismo di Bigorre non faceva certo bene al morale degli equipaggi. Ma la disciplina dei templari era abbastanza salda da permettere a Monredon di guidare la flotta senza uscire dalla cabina. Eppure, quando ricevette l’ordine di un’ulteriore accostata a sudovest, persino il nocchiero cominciò a manifestare qualche dubbio. Anche lui finì per rivolgersi a Bigorre, il quale non sapeva più cosa rispondere. «Signor de Bigorre, si può sapere dove stiamo andando?» «Amico mio, non ne ho idea.» «Ma voi venite da Parigi, avete trasmesso ordini al comandante, avete parlato con lui. Deve pur avervi lasciato capire dove siamo diretti.» «Credetemi: non so niente di più di quanto avete visto anche voi. Metà della flotta è andata a nord, noi a sud. Monredon non mi ha confidato nulla!» «Ma voi gliel’avete chiesto?» «Più di una volta.» «E che cosa vi ha risposto?» «Che non devo preoccuparmi di ciò che è affar suo.» Le navi procedevano di conserva orientandosi sulla posizione del sole. Erano ormai più a sud di Bordeaux e parecchio più a ovest. Verso sera furono avvistati due pescherecci baschi che recuperavano le reti e si apprestavano a rientrare in porto. Non fu possibile sapere di quale porto si trattasse perché prima che fossero a portata di voce Monredon ordinò un’altra accostata, ancora più a ovest. Il vento era rinforzato e spirava da nordovest. Per seguire la nuova rotta le vele furono orientate sull’andatura che i marinai chiamano lasco e che consiste nello stringere il vento a un angolo di circa 45 gradi le vele latine non potevano fare di più. Procedendo con questa andatura, le navi offrivano il fianco al moto ondoso e il rollio divenne sensibile. I pescherecci sparirono all’orizzonte, e i marinai si domandarono come mai il comandante non aveva voluto passare a portata di voce. Avrebbe potuto chiedere ai pescatori dove si trovavano, a quale distanza dalla costa e, quantomeno, se pensavano che sarebbe cambiato il tempo. Era una prassi normale: perché Monredon l’aveva ignorata? Dopo questo incidente gli uomini cominciarono ad avere opinioni differenti. La maggior parte conservava fiducia nel comandante, ma qualcuno si domandava se non fosse malato o prostrato dal dolore per le notizie di Parigi. Se però Monredon non aveva fiducia nell’avvenire, che cosa avrebbe fatto della flotta e degli equipaggi? Pensava forse di trascinarli in giro per l’oceano finché fosse rimasta nella stiva una galletta da sgranocchiare? Chiuso in cabina, Monredon stava elaborando il lutto. L’ordine del quale aveva preso i voti stava per essere cancellato, annichilito. Che senso aveva avuto combattere in Terrasanta, fare voto di povertà obbedienza e castità, versare il proprio sangue, soffrire fame e fatiche? Che senso aveva sopravvivere a un simile disastro? Eppure la realtà dei fatti era lì, davanti agli occhi, e un comandante aveva il dovere di farvi fronte. La vita di troppi confratelli dipendeva da lui. Il gran maestro aveva dato l’esempio: aveva analizzato la situazione e preso la sua decisione. Monredon era chiamato a mettere in atto la parte che dipendeva da lui. L’avrebbe fatto, a qualunque costo. Ma come si era giunti a questo punto? Come era stato possibile? Un re ricco soltanto di cambiali scadute poteva distruggere una potenza sovranazionale? Certo, non gli mancavano gli argomenti. Ora che i saraceni li avevano scacciati da San Giovanni d’Acri, l’ordine dei templari era diventato inutile. L’ultima testa di ponte in Oriente era perduta e se i re d’Europa avessero deciso di intraprendere un’altra crociata avrebbero dovuto ricominciare da zero, come dei nuovi Goffredo di Buglione. Dunque perché mantenere ai templari privilegi assurdi come l’esenzione dalle tasse e l’extraterritorialità delle loro sedi, perché sopportare la loro boria, la loro autonomia, il loro modo di fare da impuniti? E quello era soltanto uno degli argomenti, forse il più vero. Sicuramente aveva fatto breccia nella mente del papa e dei cardinali di curia perché anche loro avevano motivo di guardare ai templari con un certo sospetto. Troppe voci li accusavano di nascondere gran parte del bottino di reliquie trovato in Palestina. Si parlava del Santo Graal, della tunica di Cristo, della corona di spine. Si parlava di Vangeli diversi dai quattro canonici. Si parlava addirittura di scritti di pugno di Gesù. E tutto questo sarebbe stato custodito gelosamente dai templari come arma di ricatto nei confronti della Chiesa. Vero o falso che fosse, papi e curia diventavano prudenti e silenziosi quando c’erano di mezzo i templari: preferivano ascoltare che parlare, preferivano reagire (o non reagire affatto) piuttosto che prendere una qualunque iniziativa. Lo scopo di Filippo era un altro, ed era più facile raggiungerlo con la menzogna che con la verità. Per mettere le mani sulle ricchezze dei templari doveva diffamarli, screditarli, farli condannare come eretici. E calunniare i templari era facile, se le orecchie della Chiesa erano già predisposte a crederci. Chissà quante menzogne avrebbe messo in campo il re, ora che aveva deciso di dar battaglia. Di fronte al pericolo, Jacques de Molay aveva ragionato freddamente: al gran maestro non restava che combattere nelle anticamere dei palazzi, nei tribunali, nelle carceri. Se necessario si sarebbe immolato come un martire, per dare ai fratelli il tempo di mettere in salvo il vero patrimonio dell’ordine: la conoscenza. Ma per farne che? Per ricostituire l’ordine o per mettersi al servizio di qualche altro potente? Era una decisione politica e Monredon non era sicuro di essere l’uomo adatto per questo tipo di scelte. Salvare la flotta di stanza a La Rochelle era stata una questione di tempismo. Le spie avevano funzionato. De Molay aveva deciso in fretta. I carri di fieno erano partiti. Bigorre era volato come il vento. La flotta era pronta a muovere ed era salpata al momento giusto. Knolles avrebbe tentato la fortuna in Scozia. E lui dove sarebbe andato? Se de Molay non gli aveva dato ordini in proposito, il motivo poteva essere uno solo: il gran maestro non sapeva che piega avrebbero preso gli eventi. Monredon doveva agire secondo le circostanze. Monredon prese a ragionarci su nell’unico modo che conosceva: da soldato. In termini militari, il campo di battaglia si presentava così. A sud della Francia c’erano il regno di Navarra, troppo piccolo e troppo esposto agli eserciti di Filippo. C’era il regno di Castiglia, in perenne guerra con gli arabi e occasionalmente con il Portogallo. C’era il regno d’Aragona, forte e aggressivo, che però non aveva uno sbocco sull’oceano e rivolgeva le sue attenzioni soltanto al Mediterraneo. E infine c’era il Portogallo, anch’esso impegnato a scacciare i mori, e interamente affacciato sull’oceano. La scelta era praticamente obbligata: sarebbero andati in Portogallo. Anche lì c’erano dei confratelli. Anche lì c’erano arabi da combattere. Ma quanto al resto, avrebbero dovuto giocare bene le loro carte: che senso avrebbe avuto rinunciare all’autonomia dell’ordine per ottenere la protezione del re del Portogallo? A questa stregua, tanto valeva consegnarsi a re Filippo. No: i templari francesi si sarebbero uniti ai templari portoghesi e avrebbero combattuto i musulmani, ma in cambio dovevano ottenere dal re qualcosa di concreto. Per esempio, l’esclusiva sulle rotte oceaniche. Sarebbe stata quella la loro clausola di salvaguardia, l’asso nella manica per preservare la loro autonomia. Era una partita da giocare con estrema attenzione. E la cosa più urgente era studiare le carte che Bertrand de Bigorre aveva portato da Parigi. Monredon estrasse dalla tasca destra della bisaccia due buste di tela chiuse da sigilli di ceralacca. Knolles aveva prelevato dall’altra tasca due buste analoghe e le aveva portate con sé a bordo del Buscart. Sulle grosse gocce scarlatte solidificate era impresso il sigillo dell’ordine: due cavalieri montati sullo stesso cavallo, simbolo di milizia e di povertà. Monredon ruppe i sigilli ed estrasse fogli su fogli. Non si trattava proprio di carta: erano pergamene e rotoli di papiro, alcuni dei quali così antichi da essere quasi illeggibili. Quanto ai caratteri, pochi erano in lettere latine, molti in greco, alcuni in ebraico, parecchi in arabo, uno (addirittura!) in una lingua tardoegizia, e un altro in antichi caratteri fenici. Oltre al latino, Monredon conosceva il greco e l’arabo, ma niente di più: ebraico e fenicio, per non parlare dell’egiziano, erano fuori dalla sua portata. Fortunatamente una pergamena greca, che aveva tutta l’aria di provenire dalla mitica biblioteca di Alessandria, dichiarava di contenere la traduzione dei testi fenicio ed egiziano: si trattava di una relazione resa al faraone Neco, nel VII secolo avanti Cristo, da marinai che dichiaravano di essere rientrati in Egitto dopo aver compiuto il periplo dell’Africa. Il contenuto era a dir poco straordinario. La pergamena sosteneva che in quel viaggio durato tre anni, a un certo punto il sole aveva cambiato la sua posizione relativa e a mezzogiorno non si trovava più a sud, ma esattamente al contrario: a settentrione. In più, i marinai dichiaravano di aver osservato altri fenomeni strani, in cielo, in terra e in mare: stelle mai viste, animali e piante sconosciute. Ma il fatto più straordinario era avvenuto dopo aver doppiato la punta estrema del continente (cosa della quale si erano accorti osservando che il sole non sorgeva più alla loro sinistra, ma a destra): un vento impetuoso e incessante aveva spinto le navi sempre più a ponente. La costa dell’Africa era ormai invisibile da giorni, quando era apparsa una nuova terra che le navi avevano costeggiato per settimane e mesi. Sempre procedendo verso settentrione, avevano incontrato la foce di un fiume immenso. Avevano proseguito finché il sole di mezzogiorno aveva ripreso il suo posto nel cielo ed era tornato a mostrarsi a meridione. Dopo mesi di bonacce, venti incostanti e rive selvagge rese impervie da una vegetazione impenetrabile, si erano imbattuti in una serie di isole che si susseguivano quasi indicando una rotta verso il nord. Proseguendo in questa direzione avevano incontrato una corrente che li aveva riportati verso oriente e per colmo di fortuna venti favorevoli li avevano spinti fino alle colonne d’Ercole, facendoli passare per altre isole disabitate che – così diceva la pergamena – erano tutto quanto restava dell’antichissima Atlantide distrutta da un terremoto e inghiottita dalle acque.
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