Appena spunta giorno, comincia qui da noi, Varvara, una vera baraonda: si alzano, vanno su e giù, battono i tacchi; tutti sono in piedi, chi per andare all’ufficio e chi no, e tutti allo stesso modo devono bere il tè. Di samovàr in casa non c’è abbondanza; sicché si fa a turno chi prima e chi dopo, e se qualcuno si presenta con la sua tazza quando non gli tocca, subito si busca una lavata di capo. La prima volta, poco mancò non ci capitassi io; ma a che serve parlarne? Fu allora che feci conoscenza con tutti. Il primo fu il sottotenente di marina; un ragazzo espansivo, chiacchierone, che lì su due piedi mi raccontò ogni sua cosa: del babbo, della mamma, della sorella maritata a un assessore, della città di Kronstadt. Mi promise ogni sorta di protezione e m’invitò subito in camera sua a bere il tè. Lo ritrovai proprio in quella camera dove di solito si gioca a carte. Mi offrirono il tè, e volevano per forza farmi partecipare a non so che gioco infernale. Se la ridevano fra loro, forse di me, non saprei; fatto sta che tutta la notte non fecero che giocare, e quando ero entrato stavano già con le carte in mano. Un fumo, un polverio di gesso per tutta la camera, che mi sentivo mangiare gli occhi. Io, naturalmente, mi scusai: dissero subito che parlavo da filosofo. Poi nessuno più mi rivolse mezza parola; e io, a dir la verità, ne fui contento. Adesso, si capisce, non ci metterò più piede: un gioco d’azzardo vero e proprio. Anche quel tale che si occupa di letteratura tiene circolo ogni sera. Ma da lui tutta gente per bene, tutto come si deve, tutto distinzione e maniere delicate, tutta finezza!
Quanto alla padrona, vi dirò così di sfuggita, Vàren’ka, che non esiste al mondo una donna più cattiva di lei. Una vera strega. Voi avete conosciuto Tereza, magra come uno stecco, malaticcia, pare un pulcino spennato. In casa non sono che in due: Tereza e Faldoni2, il servo. Non so, può anche darsi che costui abbia un altro nome, ma così lo chiamano tutti, e solo a quel nome risponde. È rosso di capelli, sudicio, guercio, sciancato, villano, con Tereza sono sempre ai ferri corti, e spesso per poco non si accapigliano. In genere, non posso proprio dire che qui io mi ci trovi d’incanto... Che la notte poi tutti dormano a una cert’ora e si chetino, questo non succede mai. Più qua o più là, o si gioca o anche qualche volta succedono cose da vergognarsi a raccontarle. Adesso ci ho fatto il callo, ma sempre mi domando come possa vivere in questa Sodoma chi si trovi ad avere famiglia. C’è per esempio un’intera famiglia di poveracci, tutti insaccati in una sola camera, non però contigua alle altre, ma separata, in un angolo. Gente tranquilla. Non si vede e non si sente. Stanno, dico, in una sola camera, divisa da un tramezzo. Lui, pare, è un impiegato senza posto, mandato via circa sette anni fa per non so che mancanza. Si chiama Goršckòv: un ometto grigio, con indosso un certo vestito unto, sdrucito, che è una passione a guardarlo: peggio, ma peggio assai del mio! Meschino, malaticcio (qualche volta ci incontriamo nel corridoio), gli tremano le ginocchia, le mani, la testa, chissà per effetto di quale malattia: timido, cammina di lato, ha paura di tutti. Io pure, a momenti, soffro dello stesso male; ma questo qui, non c’è paragone. Ha moglie e tre figli. Il più grande è tutto il padre, malaticcio allo stesso modo. La moglie, si vede, dev’essere stata niente brutta a suo tempo; porta una veste, poverina, che fa pietà. Ho inteso dire che sono indebitati con la padrona; fatto sta che questa non li guarda troppo di buon occhio. Mi hanno pure riferito di certe brutte cose, per cui questo Goršckòv perse l’impiego: non so, un processo, un giudizio, un’inchiesta, non vi posso dire con precisione. Certo è che son poveri in canna. In camera loro non si sente volare una mosca, pare che non ci sia anima viva. Nemmeno i ragazzi fiatano, né succede mai che giochino tra loro o facciano chiasso: brutto segno questo. Una sera, per caso, mi trovai a passare davanti alla loro porta; a quell’ora, contro il solito, non c’era per la casa tanto fracasso. Sento un singhiozzo, poi un mormorio, poi ancora un singhiozzo, proprio come se qualcuno piangesse, ma così piano, con tanta passione, che mi sentii stringere il cuore, e poi tutta la notte pensai a questi disgraziati e non mi riuscì di chiudere occhio.
E ora, addio, amica mia inapprezzabile. Vi ho descritto ogni cosa, come meglio ho saputo. Oggi tutto il giorno non faccio che pensare a voi. Non trovo pace. Io lo so, figliola mia, che non avete un mantello caldo. Ah, questa primavera di Pietroburgo! vento, pioggia, nevischio, una vera morte per me, una benedetta temperatura che Dio ne scampi e liberi! Non badate, amica mia, allo scritto: non c’è stile, Vàren’ka non ce n’è neppure l’ombra! Scrivo come viene, così, tanto per tenervi allegra. Se avessi studiato, capisco, sarebbe tutt’altra cosa; ma che scuola ho fatto io? Nemmeno le elementari.
Vostro sincero e costante amico
Makàr Dèvuškin
25 aprile
Gentilissimo signor Makàr,
oggi ho incontrato mia cugina Saša. Che cosa terribile! Anche lei, poverina, sarà rovinata. Ho anche sentito dire che Anna Fëdorovna chiede sempre notizie di me. Non cesserà mai di perseguitarmi, si vede. Dice che vuol perdonarmi, dimenticare il passato, e che senza meno verrà a trovarmi. Dice che voi non mi siete parente nemmeno alla lontana, che lei è la mia parente più stretta, che voi non avete nessun diritto di entrare nei nostri rapporti di famiglia, e che per me è una vergogna vivere di elemosina a carico vostro... dice che io mi sono scordata della sua ospitalità, che lei ci salvò forse, mia madre e me, dal morir di fame; che ci diede da mangiare, che per più di due anni e mezzo si rovinò di spese per noi, e che, oltre a tutto questo, ci condonò il debito. Nemmeno della mamma ha avuto pietà! Se avesse saputo la povera mamma quel che hanno fatto a me! Ma Dio vede tutto... Dice ancora Anna Fëdorovna che io da sciocca non seppi profittare della mia fortuna, della fortuna da lei stessa procuratami; che questa è l’unica sua colpa e che io non seppi, e forse non volli, difendere il mio onore. Ma di chi è la colpa, Dio mio? Dice che il signor Bykòv ha mille volte ragione, che non si sposa una qualunque che... ma perché parlarne? Fa male, fa proprio male sentire queste falsità! Io non so quello che ho adesso. Tremo, piango, singhiozzo: ci ho messo due ore a scrivere questa lettera. Mi aspettavo che quella donna riconoscesse almeno i suoi torti, e vedete invece quello che tira fuori! Per amor del cielo, non vi agitate, amico mio, unica persona al mondo che mi voglia bene! Fedora esagera sempre: no, io non sono ammalata. Nient’altro che un po’ di raffreddore, preso ieri andando a Vòlkovo3 per la mamma. Perché non ci siete venuto anche voi? Ve ne avevo tanto pregato. Ah, povera, povera mamma mia, se tu alzassi il capo dalla tomba, se tu sapessi, se tu vedessi quel che mi hanno fatto!...
V.D.