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1537 Parole
Si abbandonò sulla panca, stremato e sfinito, senza guardare nessuno, profondamente assorto e quasi dimentico di quello che lo circondava. Per un minuto ci fu in tutta la bettola un silenzio profondo, perché le sue parole avevano provocato una certa impressione, ma ben presto si levarono di nuovo risate e ingiurie: «Ci ha giudicati!» «Le spara grosse!» «Ehi, funzionario dei miei stivali!» E così via. Poi, sollevando il capo e rivolgendosi a Raskòlnikov, Marmelàdov disse a un tratto: «Signore, andiamocene, accompagnatemi... Casa Kozel, nel cortile. Ora devo tornare... da Katerìna Ivànovna...» Già da un pezzo Raskòlnikov avrebbe voluto andarsene; quanto a dargli aiuto, ci aveva già pensato da solo. Le gambe di Marmelàdov erano molto più deboli della sua lingua e s’appoggiò pesantemente al giovane. C’erano da fare duecento-trecento passi. L’ubriacone era sempre più turbato e spaventato man mano che si avvicinava a casa, e mormorava: «Non è di Katerìna Ivànovna che ho paura adesso, e nemmeno del fatto che comincerà a tirarmi per i capelli. Che volete che contino i capelli!... una sciocchezza, i capelli! Ecco cosa dico io! Anzi, è meglio se mi tira i capelli, non è di questo che ho paura. Io... ho paura dei suoi occhi; degli occhi, sì... E ho paura anche delle sue macchie rosse sulle guance... E ho paura anche del suo respiro... Hai mai visto come si respira con questa malattia... quando ci si agita? E ho paura anche del pianto dei bambini... Perché, se Sònja non ha procurato loro da mangiare, non so davvero cosa accadrà! Non so! Delle botte, invece, non ho paura... Sappi, signore, che le botte non solo non mi fanno male, ma, anzi, quasi mi fanno piacere... Io stesso non posso farne a meno. Meglio così. Che mi batta pure, che si sfoghi... meglio così... Ma ecco la casa. La casa di Kozel. Un fabbro, un tedesco, uno ricco ... Su, accompagnami!» Entrarono dal cortile e salirono al quarto piano. Man mano che salivano la scala era sempre più buia. Erano già quasi le undici, e benché in quella stagione, a Pietroburgo, non sia mai completamente notte, in cima alla scala c’era una grande oscurità. Proprio in cima c’era una piccola porta aperta, tutta affumicata. Un mozzicone di candela rischiarava una stanza poverissima, lunga una decina di passi; dalla porta la si poteva vedere tutta. C’era un gran disordine, con oggetti sparpagliati dovunque, soprattutto cenci di bambini. Sul fondo, in un angolo, era teso per traverso un lenzuolo tutto bucherellato, dietro il quale, probabilmente, c’era un letto. C’erano in tutto due sedie e un divano ricoperto di un’incerata tutta strappata; di fronte, un vecchio tavolo da cucina, di pino non verniciato e senza niente che lo coprisse. Sull’orlo del tavolo, in un candeliere di ferro, finiva di ardere un moccolo di sego. Marmelàdov aveva una stanza a parte, e non un angolo di stanza; la sua camera, però, era di passaggio. L’uscio che dava nelle stanze successive – che potevano essere anche definite gabbie -, in cui si divideva l’appartamento di Amàlija Lippevechzel, era socchiuso. Da dentro venivano chiasso, grida e risate. Si sarebbe detto che stesso giocando a carte e bevendo tè. Arrivavano anche frammenti di parolacce sguaiate. Raskòlnikov riconobbe subito Katerìna Ivànovna. Era una donna molto smagrita, esile, alta e slanciata, con dei capelli biondo scuro ancora molto belli, e con le guance effettivamente macchiate di rosso. Andava su e giù per la sua stanzetta con le braccia conserte, le labbra riarse, il respiro disuguale e rotto. Gli occhi luccicavano come per la febbre, ma lo sguardo era tagliente e fisso, e il suo volto da tisica faceva un’impressione di grande pena alla debole luce del mozzicone di candela. A Raskòlnikov parve che avesse una trentina d’anni, non aveva l’età di Marmelàdov... La donna non sentì né vide i due che entravano: sembrava immersa in una specie di torpore. Nella stanza si soffocava, ma lei non aveva aperto la finestra; dalla scala veniva un gran puzzo, ma la porta che dava sulla scala non era stata chiusa; dalle stanze interne, attraverso l’uscio socchiuso, giungevano ondate di fumo di tabacco, ma lei tossiva senza chiudere l’uscio. La bimba più piccola, che avrà avuto sei anni, dormiva sul pavimento, tutta raggomitolata e con la testa affondata nel divano. Un ragazzo, che avrà avuto un anno di più, tremava tutto e piangeva nell’angolo. Probabilmente era appena stato picchiato. La bambina più grande, che avrà avuto nove anni, alta e sottile come un fiammifero, vestita solo di una misera camicia tutta strappata e una vecchia mantellina di drap de dame gettata sulle spalle nude (che forse le avevano fatto due anni prima perché non le arrivava nemmeno alle ginocchia), stava in piedi nell’angolo accanto al fratellino, tenendogli intorno al collo quel suo braccio lungo e secco come un fiammifero. Sembrava che cercasse di calmarlo, gli sussurrava qualcosa, cercava di distrarlo perché non ricominciasse a piagnucolare, e nello stesso tempo seguiva spaurita i movimenti della madre con i suoi occhioni scuri, che sembravano ancora più grandi in quel visetto smagrito e sbigottito. Marmelàdov, senza entrare nella stanza, si mise in ginocchio proprio sulla soglia, spingendo avanti Raskòlnikov. La donna, vedendo quello sconosciuto, gli si fermò davanti con aria distratta, riavendosi un istante come per pensare: «Che è venuto a fare qui costui?» Ma pensò certamente che lui fosse diretto alle altre stanze, dato che la loro era di passaggio. Sicura di questo, e senza più badargli, si avvicinò alla porta d’ingresso per chiuderla, e d’un tratto, vedendo suo marito prosternato proprio sulla soglia, gridò: «Ah! Sei tornato! Galeotto! Mostro! E dove sono i soldi? Quanto hai in tasca, fa’ vedere! Anche il vestito non è più quello! Dov’è il tuo? Dove sono i soldi? Parla!» E si lanciò su di lui per perquisirlo. Marmelàdov allargò subito le braccia, obbediente, in modo da facilitare la perquisizione. Non aveva più nemmeno una copeca. Lei gridava: «Ma i soldi dove sono? Oh, Signore! Possibile che tu ti sia bevuto tutto? C’erano ancora dodici rubli d’argento nel baule!» e di colpo, infuriata, lo afferrò per i capelli e lo trascinò nella stanza. Marmelàdov stesso aiutava i suoi sforzi, strisciando docilmente dietro di lei sulle ginocchia. «E questo è per me un godimento! E questo per me non è una sofferenza ma un go-di-men-to, il-lu-stris-si-mo si-gno-re,» egli gridava, scosso per i capelli, avendo perfino picchiato, una volta, la fronte sul pavimento. La bambina che dormiva per terra si svegliò e cominciò a piangere. Il ragazzo nell’angolo non riuscì a trattenersi e cominciò a tremare, a gridare, slanciandosi verso la sorella come in preda ad uno spavento terribile. La bambina più grande, ancora insonnolita, tremava come una foglia. La povera donna gridava disperata: «Se li è bevuti! Si è bevuto tutto, tutto! E anche il vestito non è più quello! Muoiono di fame, muoiono di fame!» e indicava i bambini, torcendosi le mani. «Oh, vita tre volte maledetta!» E ad un tratto si scagliò contro Raskòlnikov: «E voi, voi non vi vergognate a venire qui dalla bettola? Hai bevuto con lui, eh? Anche tu hai bevuto con lui! Fuori!» Il giovane se ne andò in fretta, senza aprire bocca. La porta interna si era spalancata, e s’erano affacciati alcuni curiosi. Spuntavano facce spudorate che ridevano, con la papalina in testa, con sigarette e pipe in bocca. Alcuni erano in vestaglia, altri con la vestaglia addirittura aperta, mettendo in mostra abiti leggeri indecenti; qualcuno aveva ancora le carte in mano. Si sbellicarono dal ridere quando Marmelàdov, trascinato per i capelli, gridò che questo per lui era un godimento. Cominciarono perfino a entrare nella stanza; alla fine si udì uno strillo rabbioso: era Amàlija Lippevechzel in persona, che si faceva largo per metter ordine e spaventare per la centesima volta la povera donna con l’intimazione ingiuriosa di sgombrare la camera l’indomani stesso. Nell’andarsene, Raskòlnikov fece in tempo a raccogliere le poche monetine che aveva in tasca, il resto del rublo cambiato nella bettola, e le depose inosservato sul davanzale del finestrino. Poi, sulla scala, cambiò idea, e stava quasi per tornare indietro. «Che idiozia ho fatto,» pensò, «loro hanno Sònja, mentre io ho bisogno di denaro.» Ma quando capì che ormai era impossibile recuperare quelle monete e che comunque non le avrebbe riprese, si rassegnò e si avviò verso casa. «Sònja ha bisogno delle sue pomate,» continuò a riflettere, camminando per la strada e sorridendo ironicamente, «costa quattrini quella pulizia... ehm! E poi lei stessa, Sònecka, oggi stesso potrebbe anche trovarsi all’asciutto, perché è sempre un rischio, la caccia ai merli... una miniera d’oro! E così tutti loro, senza i miei soldi, domani potrebbero trovarsi a mani vuote. E brava questa Sònja! Però, che pozzo son stati capaci di scavarsi! E come lo sfruttano! Eccome se lo sfruttano! Ci si sono abituati. Hanno pianto un poco, poi si sono abituati. Quella canaglia che è l’uomo si abitua a qualsiasi cosa!» S’immerse nei suoi pensieri. Poi esclamò, quasi senza pensarci: «Però se avessi detto una sciocchezza, se realmente l’uomo, tutto quanto in generale, cioè tutto il genere umano, non fosse una canaglia, allora significa che tutto il resto sono pregiudizi, soltanto paure che ci hanno inculcato, e non esistono barriere di sorta, e così dev’essere...»
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