VI-2

1955 Parole
Pierre abitava in casa del principe Vasilij Kuragin e prendeva parte alla vita dissoluta di suo figlio Anatol’, quello stesso che avevano intenzione di ammogliare con la sorella del principe Andrej per rimetterlo sulla retta via. «Sapete che cosa vi dico?» disse Pierre, come se a un tratto gli fosse venuta un’idea felice, «sul serio, ci pensavo da tempo. Con la vita che faccio non riesco a riflettere né a decidere nulla. La testa mi duole, sono senza denaro. Oggi mi ha invitato, ma non ci andrò. «Dammi la tua parola d’onore che non ci andrai!» «Parola d’onore!» Era passata l’una di notte quando Pierre lasciò la casa del suo amico. Essendo di giugno, era una di quelle notti di Pietroburgo che non conoscono il buio. Pierre prese una carrozza di piazza con l’intenzione di andare a casa. Ma quanto più vi si avvicinava, tanto più avvertiva l’impossibilità di prender sonno in una notte come quella, più simile a un tramonto o a un’alba. Le vie deserte lasciavano vedere a lunga distanza. Durante il tragitto Pierre si ricordò che quella sera da Anatol’ Kuragin doveva riunirsi la solita brigata per giocare, dopo di che al solito seguiva una gran bevuta che si concludeva con uno dei divertimenti preferiti da Pierre. «Potrei andare da Kuragin,» pensò Pierre, ma subito ricordò la parola d’onore data al principe Andrej. E tuttavia, come succede alle persone che vengono definite senza carattere, subito dopo lo prese una voglia così intensa di provare ancora una volta quella vita dissoluta a lui ben nota, che decise di andarci. E tosto gli venne in mente il pensiero che la parola data non voleva dir nulla, perché prima ancora che al principe Andrej, aveva dato al principe Anatol’ la sua parola di andare da lui; e infine pensò che tutte queste parole d’onore sono solo formule convenzionali, che non hanno alcun particolare significato, tanto più considerando che magari l’indomani egli sarebbe morto o gli sarebbe accaduto qualcosa di così imprevedibile, che onore e disonore avrebbero cessato di sussistere. Ragionamenti di questo genere, che distruggevano tutte le sue decisioni e riflessioni, erano frequenti in Pierre. Così finì per andare da Kuragin. Arrivato all’ingresso della grande casa dove abitava Anatol’, presso le caserme della cavalleria della Guardia, salì i gradini illuminati dell’ingresso, poi su per lo scalone raggiunse il pianerottolo, e varcò una porta aperta. L’anticamera era vuota; c’erano bottiglie scolate, mantelli, calosce alla rinfusa; stagnava puzzo di vino, grida e voci echeggiavano lontano. Il gioco e la cena erano già terminati, ma gli ospiti non se ne andavano ancora. Pierre gettò il mantello ed entrò nella prima stanza, dov’erano rimasti gli avanzi della cena e un servitore, credendosi inosservato, scolava di nascosto il fondo dei bicchieri. Dalla terza stanza giungevano trapestio, risate, voci conosciute e qualcosa che pareva il mugolio di un orso. Otto giovanotti facevano ressa, stringendosi, davanti alla finestra aperta. Tre stavano intorno a un orsacchiotto, che uno di loro trascinava per la catena facendo paura a un altro. «Scommetto cento rubli per Stievens!» gridava uno. «Guarda però di non spingerlo!» gridava un altro. «Io per Dolochov!» gridava un terzo. «Da’ il via, Kuragin.» «Su, lasciate stare Miška; qui c’è una scommessa, adesso.» «D’un fiato, altrimenti è perduta,» gridava un quarto. «Jakov! Porta una bottiglia, Jakov!» gridava il padrone di casa, un bel giovane alto che stava in piedi in mezzo al gruppo con la sola camicia indosso, aperta sul petto. «Fermi, signori. Ecco qui anche il nostro caro Petruška,» disse poi, volgendosi verso Pierre. Un’altra voce, quella di un uomo non molto alto dai limpidi occhi cerulei, che fra tutte quelle voci da ubriachi colpiva per il suo tono perfettamente lucido, si mise a gridare dalla finestra: «Vieni qui, da’ il via alla scommessa!» Era Dolochov, ufficiale del reggimento di Semënov, famoso giocatore e spadaccino, che abitava insieme ad Anatol’. Pierre sorrideva guardandosi allegramente intorno. «Non capisco. Di che si tratta?» domandò. «Fermi, lui non è ubriaco. Date qua una bottiglia,» disse Anatol’; prese dalla tavola un bicchiere e si avvicinò a Pierre. «Prima di tutto bevi.» Pierre prese a bere un bicchiere dopo l’altro, dando ogni tanto un’occhiata agli ospiti ubriachi, che di nuovo si erano accalcati davanti alla finestra, e porgendo l’orecchio ai loro discorsi. Anatol’, versandogli il vino, gli raccontava che Dolochov aveva fatto una scommessa con l’inglese Stievens - un ufficiale di marina lì presente - che lui, Dolochov, avrebbe tracannato una bottiglia di rhum stando seduto sulla finestra del terzo piano con le gambe penzoloni nel vuoto. «Su, bevila tutta,» disse Anatol’ porgendo l’ultimo bicchiere a Pierre, «altrimenti non ti lasciò andare!» «No, non ne ho voglia,» rispose Pierre, e scostando Anatol’ si avvicinò alla finestra. Dolochov teneva per mano l’inglese e scandendo chiaramente le parole enunciava le condizioni della scommessa, rivolgendosi soprattutto ad Anatol’ e a Pierre. Dolochov era un uomo di media statura coi capelli ricciuti e chiari occhi azzurri. Era sui venticinque anni. Come tutti gli ufficiali di fanteria non portava baffi, e la sua bocca, che era il tratto più saliente del viso, era quindi del tutto scoperta. Le linee di quella bocca erano, nella loro sinuosità, di una singolare finezza. Il labbro superiore, al centro, si abbassava energicamente con un cuneo appuntito su quello inferiore che era assai forte; agli angoli aveva perennemente due sorrisi, uno per ciascuna parte; e tutto insieme, specialmente in combinazione con lo sguardo duro, sfrontato e intelligente, faceva una tale impressione che quel volto non poteva passare inosservato. Dolochov non era ricco e non aveva relazioni influenti. Ma sebbene Anatol’ sperperasse decine di migliaia di rubli, Dolochov viveva con lui e aveva saputo porsi in una luce così favorevole che lo stesso Anatol’ e tutti coloro che lo conoscevano lo tenevano in grande stima. Dolochov giocava a tutti i giochi e vinceva quasi sempre. Per quanto bevesse, non perdeva mai la sua lucidità. Sia Kuragin sia Dolochov erano, a quei tempi, personaggi ben noti nel mondo degli scapestrati e dei gaudenti di Pietroburgo. Fu portata la bottiglia di rhum; due servitori palesemente confusi e intimiditi dagli ordini e dalle grida dei signori che li circondavano, stavano staccando dalla finestra l’intelaiatura dei vetri che impediva di mettersi a sedere fuori del davanzale. Anatol’ con la sua aria da dominatore si avvicinò alla finestra. Aveva voglia di fracassare qualcosa. Con uno spintone scostò i servitori e diede uno strattone al telaio, che però non cedette. Finì per frantumare un vetro. «Su, prova tu, che sei forte,» disse allora rivolgendosi a Pierre. Pierre afferrò le traversine, tirò e l’intelaiatura di quercia si staccò con fracasso, mezzo spaccata, mezzo divelta. «Via tutto, altrimenti potrebbero pensare che mi reggo,» disse Dolochov. «L’inglese bluffa... bene? Tutto fatto?...» disse Anatol’. «Tutto fatto,» confermò Pierre guardando Dolochov il quale aveva preso la bottiglia e si avvicinava alla finestra che inquadrava il cielo luminoso nel quale alba e crepuscolo sembravano confondersi. Reggendo in mano la bottiglia di rhum Dolochov balzò sulla finestra. «Ascoltate!» gridò, in piedi sul davanzale, volto verso l’interno della stanza. Tutti ammutolirono. «Scommetto,» (parlava in francese perché l’inglese lo capisse, e non parlava troppo bene in questa lingua). «Scommetto cinquanta imperiali... oppure volete cento?» soggiunse, rivolgendosi all’inglese. «No, cinquanta,» disse l’inglese. «Bene, allora scommetto per cinquanta imperiali che berrò l’intera bottiglia di rhum senza staccarla dalla bocca; la berrò tutta stando seduto fuori della finestra, esattamente in questo punto,» si chinò e mostrò il ripido aggetto del muro fuori della finestra, «e senza reggermi a niente... Va bene?...» «Benissimo,» disse l’inglese. Anatol’ si volse verso l’inglese, lo afferrò per un bottone del frac e guardandolo dall’alto (l’inglese era basso di statura), cominciò a ripetergli in inglese le condizioni della scommessa. «Aspetta,» gridò Dolochov, picchiando con la bottiglia sulla finestra per attirare l’attenzione. «Un momento, Kuragin; ascoltate. Se qualcun altro riuscirà a fare altrettanto, sarò io a pagare cento imperiali. Intesi?» L’inglese annuì col capo senza lasciar capire se intendesse o no accettare quella nuova scommessa. Anatol’ continuava a tenere l’inglese a quel modo, e sebbene quello annuendo desse a vedere che aveva capito tutto, gli andava traducendo in inglese le parole di Dolachov. Un ragazzo magrolino, ussaro della Guardia imperiale, che quella sera aveva perduto molto denaro, si arrampicò sulla finestra, si sporse e guardò in basso. «Uh-uh!» esclamò, fissando il lastricato del marciapiede. «Silenzio!» gridò Dolochov e scostò dalla finestra l’ufficiale che, impigliandosi con gli speroni, rientrò saltellando goffamente nella stanza. Dopo aver posato la bottiglia sul davanzale per poterla raggiungere più comodamente, Dolochov, lento e cauto, si issò nel vano della finestra. Calate le gambe e appoggiatosi con le due mani ai bordi della finestra, prese le misure, si sedette, levò le mani, si spostò prima a destra, poi a sinistra e alla fine prese la bottiglia. Anatol’ portò due candele e le collocò sul davanzale, sebbene ormai fosse giorno. La schiena di Dolochov con la camicia bianca e la testa di capelli ricciuti erano illuminate sui due lati. Tutti fecero ressa davanti alla finestra. L’inglese era in prima fila. Pierre sorrideva senza dir parola. Uno dei presenti, più anziano degli altri, con la faccia preoccupata e adirata, improvvisamente si fece avanti e fece per afferrare Dolochov per la camicia. «Signori miei, queste sono pazzie; rischia di ammazzarsi,» disse quest’uomo più ragionevole. Anatol’ lo fermò. «Non lo toccare; se lo spaventi, allora sì che si ammazzerà. E dopo che diresti?» Dolochov si voltò, assestandosi a sedere e appoggiandosi di nuovo con le mani. «Se qualcun altro prova ancora a intrufolarmisi accanto,» disse, sibilando le parole fra le labbra serrate e sottili, «lo prendo e lo scaravento di sotto. Dunque!...» E pronunciato quel «Dunque!», si volse di nuovo, staccò le mani, prese la bottiglia e la portò alla bocca, rovesciando la testa all’indietro e proiettando in alto il braccio libero, come contrappeso. Uno dei servitori, che aveva cominciato a raccogliere i frantumi di vetro, sostò, curvo com’era, senza staccare gli occhi dalla finestra e dalla schiena di Dolochov. Anatol’ stava ritto in piedi con gli occhi sbarrati. L’inglese, con le labbra sporte in avanti, guardava in tralice. Quello che aveva cercato di impedire quello spettacolo, si era rifugiato in un angolo della stanza buttandosi su un divano con la faccia rivolta verso il muro. Pierre si era coperto la faccia, sulla quale era rimasto un debole sorriso, sebbene ora il suo volto esprimesse raccapriccio e paura. Tutti tacevano. Pierre tolse le mani dagli occhi. Dolochov era sempre seduto nella stessa posizione; soltanto la testa s’era reclinata all’indietro, cosicché i capelli ricciuti della nuca toccavano il colletto della camicia, mentre la mano che impugnava la bottiglia si levava sempre più alta e vibrava nello sforzo. La bottiglia si andava visibilmente svuotando e al tempo stesso si sollevava, costringendo la testa a stare così riversa. «Possibile che ci voglia tanto?» pensava Pierre. Gli pareva che fosse passata più di mezz’ora. Improvvisamente Dolochov fece un movimento all’indietro con la schiena e il suo braccio fu percorso da un tremito nervoso che bastò a spostare tutto il corpo, seduto com’era su quello sporto inclinato. Egli si mosse tutto; il suo braccio e la sua testa ebbero nello sforzo un tremito ancor più violento. Una mano si alzò per afferrarsi al davanzale, ma tornò ad abbassarsi. Pierre chiuse di nuovo gli occhi e si disse che non li avrebbe più riaperti. A un tratto sentì che tutto intorno s’era rimesso in movimento. Guardò: Dolochov era in piedi sul davanzale, la sua faccia era pallida e soddisfatta. «Vuota!» Gettò la bottiglia all’inglese che l’acchiappò al volo. Poi saltò giù. Esalava un forte puzzo di rhum. «Magnifico! Bravissimo! Questa sì che è una scommessa! Che il diavolo vi porti tutti!» gridavano da ogni parte. L’inglese aveva preso il borsellino e contava i denari. Dolochov, accigliato, taceva. Pierre balzò sulla finestra. «Signori! Chi vuole scommettere con me? Farò anch’io la stessa cosa,» gridò lui a un tratto. «Anzi, non c’è nemmeno bisogno di scommettere. Fatemi portare la bottiglia. Avanti, fatemela portare.» «Faccia pure, se ci tiene!» esclamò Dolochov sorridendo. «Sei impazzito? Come vuoi che ti si permetta una cosa simile? Ma se ti gira la testa persino sulle scale!» presero a dire da varie parti. «La berrò tutta; date qui una bottiglia di rhum!» gridò Pierre, picchiando sulla tavola con un gesto deciso da ubriaco, e montò sulla finestra. Lo afferrarono per le braccia, ma era così forte che scaraventava lontano tutti quelli che gli si accostavano. «No, così non è possibile convincerlo,» disse Anatol’; «aspettate, so io come ingannarlo. Ascolta, scommetto io con te, ma domani, perché adesso andiamo tutti da...» «Andiamo,» gridò allora Pierre, «andiamo!... E portiamo con noi anche Miška...» Andò, agguantò l’orso e, abbracciandolo e sollevandolo da terra, si mise a roteare con lui per la stanza.
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