«Dio, povera Nannina, riconoscerà i suoi angeli alle inflessioni della loro voce e dei loro lamenti misteriosi.» Chi non le dirà così?...
V’erano in Saumur molte famiglie, presso cui si trattavano assai meglio i domestici, ma non per questo venivano contraccambiati con alcun sentimento di gratitudine; e pensavano:
– Che diamine fanno i Grandet alla grossa Nannina, perch’ella abbia per loro tanta affezione, da buttarsi magari nel fuoco? –
La cucina, le cui finestre ad inferriata davano sul cortile, era sempre a posto, pulita, fredda, una vera cucina d’avaro, dove nulla deve andare a male. Non appena la fantesca aveva rigovernato i piatti, chiuso nella credenza quel che restava del pranzo e spento il fuoco, traversava il corridoio che comunicava con la sala, e veniva a filar la canapa vicino ai padroni. Una sola candela per sera bastava a tutta la famiglia. Nannina dormiva appunto in fondo al corridoio, in un bugigattolo triste e buio, e ci voleva la sua salute di ferro per resistere in quella specie di tana, da dove poteva udire il minimo rumore in mezzo al silenzio profondo che regnava notte e giorno nella casa. Come un cane da guardia doveva aver sempre un orecchio teso e riposarsi vegliando.
Nel 1819, sul far della sera, verso la metà del mese di novembre, la grossa Nannina accese il fuoco per la prima volta, perché l’autunno era stato splendido. Quel giorno ricorreva una festa ben nota ai crusciottiani ed ai grassinisti, e perciò i sei avversarii si accingevano a presentarsi nella sala famosa, armati di tutto punto per profondersi in proteste d’amicizia. La mattina tutta Saumur aveva visto la signora e la signorina Grandet, in compagnia della domestica, recarsi alla chiesa parrocchiale ad ascoltarvi la messa, ed ognuno ricordò che quel giorno si festeggiava il genetliaco della signorina. Dal canto loro mastro Cruchot, l’abate e il signor Bonfons, calcolando press’a poco il momento in cui sarebbe finito il pranzo dei Grandet, si affrettavano per giungere prima dei Grassins a far gli augurii alla signorina, carichi tutti e tre di fastosi mazzi di fiori colti nelle loro piccole serre. Quello che offriva il presidente era stretto da un nastro di seta bianco a frange d’oro. Il signor Grandet secondo le abitudini dei giorni festosi di Eugenia, era venuto a sorprenderla mentre era ancora a letto e le aveva offerto il suo paterno regalo, che da tredici anni consisteva in una bella moneta d’oro. La madre le donava ordinariamente una veste d’inverno o d’estate, e quei due abiti e le monete, che Eugenia riuniva al primo dell’anno ed alla festa del padre, formavano per lei una piccola rendita di circa cento scudi, che Grandet si compiaceva di veder crescere. Era infatti come far passare il suo denaro da una cassa all’altra e, per così dire, infondere il sentimento dell’avarizia nella sua erede, cui chiedeva conto talvolta del piccolo tesoro, già aumentato dai Bertellière, dicendole:
– Sarà il tuo regalo di nozze. –
L’uso del regalo, douzain, è molto antico e si conserva tuttora come sacra cosa in alcuni paesi del centro della Francia. Nel Berry, nell’Angiò, quando una fanciulla si marita, la famiglia sua o quella dello sposo deve darle una borsa che, secondo la ricchezza, contiene dodici monete, oppure dodici dozzine, o dodici centinaia di monete d’argento o d’oro. La più povera villanella non si mariterebbe senza il suo douzain, quand’anche solo consistesse in soldoni. Si parla ancora a Issoudun di un douzain offerto a una ricca ereditiera e composto di centoquarantaquattro portoghesi d’oro. Papa Clemente VII, zio di Caterina de’ Medici, maritandola con Enrico II, le donò una dozzina di medaglie d’oro antiche, di grandissimo valore.
Durante il pranzo, il padre, tutto lieto di vedere la sua Eugenia più bella in un abito nuovo, aveva esclamato:
– Poiché è la festa della mia ragazza, accendiamo un po’ di fuoco: sarà di buon augurio.
– La signorina avrà marito entro l’anno, certo – osservò la grossa Nannina, portando via gli avanzi di un’oca, il fagiano dei bottai.
– Ma io non vedo partito conveniente per lei a Saumur – rispose la signora Grandet volgendo al marito uno sguardo timido che diceva chiaro in quale stato di servitù coniugale fosse vissuta sempre la povera donna.
L’ex-sindaco contemplò un istante la figlia, e gridò gaiamente:
– Eugenia compie ventitré anni oggi; e bisognerà occuparsi di lei. –
Madre e figlia si scambiarono in silenzio un’occhiata d’intelligenza.
La signora Grandet era asciutta e magra, gialla come una mela cotogna goffa e tarda; una di quelle donne che sembrano fatte solo per subire delle tirannie. Aveva ossa grosse, naso grosso, fronte ed occhi bovini e, a prima vista, dava l’idea di quei frutti stopposi che non hanno più succo, né sapore. I suoi denti erano neri e radi, la bocca increspata, il mento aguzzo e ricurvo; ma d’altra parte era una donna eccellente, una vera La Bertellière. L’abate Cruchot sapeva trovare l’occasione di dirle che ella non era poi capitata male, e lei gli credeva. Una dolcezza angelica, una rassegnazione d’insetto tormentato dai bambini, una pietà rara, una calma inalterabile, un cuore ottimo la facevano compiangere e rispettare da tutti. Il marito non le dava mai più di sei lire alla volta per le sue spese minute. Benché ridicola in apparenza, quella donna, che, tra la dote e le eredità successive, aveva portato a papà Grandet più di trecentomila franchi, si era sempre sentita profondamente umiliata entro di sé per l’ilotismo a cui la si condannava, e, non sapendosi per innata dolcezza ribellare, si era limitata a non chiedere mai un soldo e a non fare obiezione per gli atti che mastro Cruchot le presentava da firmare. Questa fierezza sciocca e segreta, questa nobiltà d’animo disprezzata e ferita da Grandet, regolava la condotta della povera creatura. Ella portava tutti i giorni un abito di levantina verdastra che le durava quasi un anno, un grande fazzoletto bianco, un cappello di paglia cucita e un grembiule di panno nero; e, poiché usciva poco di casa, le sue scarpe si logoravano di rado; insomma, non chiedeva nulla per sé. Da parte sua, il marito, preso a volta da qualche rimorso e ricordandosi che da un pezzo non le aveva dato le sei lire, metteva sempre la condizione di un’offerta per lei quando concludeva le vendite dei generi. I quattro o cinque luigi sborsati dall’Olandese o dal Belga che acquistava il mosto formavano la rendita annua più importante per la signora Grandet; ma quando essa aveva ricevuto quel denaro, il vecchio bottaio considerava comune la borsa e le diceva:
– Hai qualche soldo da prestarmi? –
La povera donna, lieta di essere utile in qualche modo a un uomo che il confessore le indicava sempre per suo signore e padrone, gli restituiva durante l’inverno parecchi scudi di quella somma. Quando Grandet tirava fuori il pezzo da cento soldi stabilito per le piccole spese di filo, aghi e abbigliamento della figlia, non mancava mai, dopo aver riabbottonato la tasca, di chiedere alla moglie:
– E tu non vuoi nulla?
– Amico mio, – rispondeva la signora con un sentimento di dignità materna, – vedremo.
Sublimità sprecata; Grandet aveva la ferma convinzione di essere più che generoso verso la moglie. Se dei filosofi si trovassero a contatto con donne come Nannina, come la signora Grandet, come Eugenia, non avrebbero forse il diritto di asserire che l’ironia è l’elemento essenziale nel carattere della Provvidenza?
Alla fine di quel pranzo, in cui per la prima volta si parlò delle nozze della fanciulla, la domestica salì a prendere una bottiglia di ribes nero in camera di Grandet e poco mancò che nel discendere non rotolasse giù dalla scala.
– Bestia – le gridò il padrone – neanche tu sei capace di tenerti in piedi?
– Ma... signore, è quel gradino che non regge.
– Ha ragione – osservò la signora Grandet – avresti dovuto farlo accomodare da un pezzo; ieri Eugenia fu lì per storpiarsi un piede.
– Prendi – disse il bottaio alla fantesca vedendola bianca dalla paura; – giacché ricorre il natalizio di Eugenia, e tu hai corso rischio di rotolar giù, bevi un bicchierino di ribes.
– L’ho ben guadagnato! Un’altra non si sarebbe tanto curata della bottiglia, ma io avrei preferito di fracassarmi il gomito, anziché lasciarla rompere...
– Questa povera Nannina! – disse Grandet nel versarle il liquore.
– Ti sei fatta male? – chiese Eugenia fissandola con affezione.
– No, mi son retta piegandomi sulle reni.
– Ebbene, perché oggi è il genetliaco di Eugenia, – continuò Grandet, – voglio accomodarvi il gradino... Ma, diamine, non sapete mettere il piede dalla parte dove c’è un pezzo ancora solido? –
Prese la candela, lasciò la moglie, la figlia, la domestica alla sola luce del fuoco che gettava guizzi vivi di fiamma e andò a cercare tavole, chiodi e arnesi.
– Volete che v’aiuti? – gli gridò Nannina allorché l’udì picchiare sulla scala.
– No, no, è un mestiere vecchio per me, – rispose il vecchio bottaio.
Mentre Grandet accomodava lo scalino guasto e soffiava ricordando gli anni della sua gioventù, i tre Cruchot si presentarono alla porta di strada.
– Siete voi, signor Cruchot? – chiese la domestica spiando per la grata.
– Sì – rispose il presidente.
Nannina aprì e, alla luce della fiamma che veniva dal caminetto, i Cruchot poterono distinguere l’ingresso della sala.
– Ah, siete in festa voi! – disse loro Nannina, sentendo il profumo dei fiori.
– Scusate, signori – strillava Grandet nel riconoscere la voce degli amici – sono subito da voi. Sapete bene che non sono stato mai superbo, ed ora m’accomodo da me un gradino della scala.
– Fate, fate, signor Grandet, anche il carbonaio è sindaco in casa sua, – sentenziò il presidente, ridendo fra sé dell’allusione che intendeva mettere in quella frase e che nessuno comprese.
La signora e la signorina si levarono in piedi e de Bonfons, profittando dell’oscurità, disse allora ad Eugenia:
– Mi permettete oggi di augurarvi molti anni felici e tanta salute quanta ora ne godete? –
Offerse il gran mazzo di fiori, rarissimi a Saumur, la strinse per le braccia con tal sentimento di soddisfazione, che la fanciulla ne arrossì. Il presidente, che somigliava proprio ad un gran chiodo arrugginito, credeva in tal modo di farle la corte.
– State comodi, state comodi, – disse Grandet entrando; – come ve la passate nei giorni di festa, signor presidente?
– Ma... in compagnia della signorina – rispose l’abate Cruchot, armato del suo mazzo di fiori – credo che per mio nipote tutti i giorni sarebbero giorni di festa. – E baciò la mano di Eugenia.
Mastro Cruchot carezzò bonariamente la giovinetta sulle guance, e disse:
– Ah, come il tempo corre! Ogni anno dodici mesi. –
Rimettendo il lume a posto, Grandet che aveva l’abitudine di ripetere fino alla sazietà un suo motto di spirito, quando gli pareva buono, continuò:
– È la festa di Eugenia; accendiamo le torce.
Tolse con cura minuta i bracciuoli dei candelabri, mise ad ognuno i portacandele, prese dalle mani della Nannina una candela nuova, cui era attorcigliata una striscia di carta, l’assicurò al suo posto, l’accese e andò a sedere presso la moglie, guardando alternativamente gli amici, la figlia e le due candele.
L’abate Cruchot, un ometto paffuto, grassotto, dalla parrucca rossa e piatta, dal viso di vecchia rubiconda, domandò movendo i piedi ben chiusi nelle forti scarpe a fibbie d’argento:
– E i des Grassins non son venuti?
– Non ancora – rispose Grandet.
– Ma verranno? – chiese il vecchio notaio con una smorfia della faccia butterata simile a una schiumarola.
– Credo – disse la signora Grandet.
– Avete finito la vendemmia? – domandò il presidente de Bonfons a Grandet.
– Dappertutto, – replicò il vecchio. E si mise a passeggiare per la sala e gonfiò il torace con tanto orgoglio quanto ne aveva messo in quel «Dappertutto!».
Attraverso la porta del corridoio che portava alla cucina, vide la domestica seduta presso il focolare, con un lume accanto, nell’atto di prepararsi a filare, per non far l’intrusa nella festa.
– Nannina, – ingiunse il vecchio avanzandosi, – non puoi spegnere quel fuoco ed il lume e venir qui con noi? Perbacco! la sala è abbastanza grande per tutti!
– Ma, signore, c’è gente di riguardo...
– Non sei come loro? Per parte di Adamo sono tuoi eguali. –
E tornò verso il presidente a chiedergli:
– Avete venduto il raccolto?
– No, lo conservo, giacché, se ora il vino è buono, dopo due anni sarà migliore. Sapete bene che i proprietari hanno stabilito di mantenere i prezzi, quindi, quest’anno i Belgi non comprano; ma, se partono adesso, dovranno pur tornare!
– Sì, ma occorre tenersi ben saldi, – disse Grandet con un tono di voce che fece fremere il presidente.
– Che abbia un contratto? – pensò Cruchot.
In quel momento un colpo di martello annunziò i des Grassins, e la loro comparsa interruppe sul principio un colloquio tra la signora Grandet e l’abate.