Capitolo 1-2

2038 Parole
“Vada avanti: lui sospende il suo lavoro e le comunica la sua intenzione di uscire: solo?”. “Sì, perché io mi sono offerta di accompagnarlo a sgranchirsi le gambe, a far due passi insomma e lui mi ha detto, senza mezzi termini, che non mi voleva tra i piedi. Di lì ho pensato che s’incontrasse con qualcuna e abbiamo cominciato a litigare”. “Quant’è durata la discussione?”. “Mezzora, sì, più o meno: ho guardato l’ora ma solo dopo che lui era uscito”. “Eravate nella stessa stanza, quando lui leggeva voglio dire?”. “No, lui era nel suo studio, quando non vuole essere disturbato se ne va lì, ha il suo lettore cd, si mette le cuffie, ascolta Bach di solito, ma può anche cambiare, dipende dall’argomento della lettura e se ne sta ibernato per due o tre ore, poi ricompare e lentamente riprende contatto con il mondo dei comuni mortali”. “È andata così sabato sera?”. “Sì, solo che c’è stato meno del solito, considerando che abbiamo finito di cenare intorno alle nove”. Rebaudengo si alzò così di scatto che la signora Ferretti fece quasi un salto sulla seggiola, mentre Ravera guardò per un attimo il suo capo negli occhi, cercando d’indovinare cosa gli avesse preso. Niente, forse niente, s’era solo stufato di ascoltare quella conversazione che stava assumendo dei toni sempre più tristi. Si avvicinò alla signora, tendendole la mano per la seconda volta: “Signora Ferretti, adesso noi dirameremo la foto di suo marito, la sua descrizione, targa, modello e colore della vettura a tutte le forze dell’ordine, sul territorio nazionale per cominciare, e cercheremo di raccogliere qualche informazione tra le persone che lo conoscono. È inutile fare ipotesi per ora, ma non si può certamente escludere che il professor Oddone ritorni a casa spontaneamente tra qualche ora o tra qualche giorno. Ci lasci anche, mi raccomando, i numeri dei cellulari di tutti e due e c’informi subito nel caso si rifacesse vivo, oppure qualcuno le raccontasse d’averlo visto”. Appoggiò la mano alla maniglia, dedicò un’occhiata d’intesa a Ravera, troppo breve per essere notata da chiunque non fosse uno sbirro, salutò ancora una volta e richiuse la porta dietro di sé, lasciando finire all’ispettore il suo lavoro di routine. Camminare lungo la battigia non era il massimo delle sue aspirazioni, il mare lo innervosiva e gli faceva sempre venire in mente un pezzo di canzone che diceva: “…che si muove anche di notte e non sta fermo mai…”. E dire che lui era un ipotiroideo e l’aria marina gli avrebbe fatto anche bene, ma non ci poteva far niente, non gli piaceva. Il mare era appena tollerabile durante l’inverno come in quel momento, che sulla spiaggia ci trovavi poca gente, qualche mamma con bambini che il giorno dopo sarebbero stati puntualmente a letto con la febbre a trentotto e il mal di gola, un po’ di vecchietti e un discreto numero di cani al lavoro con il legnetto da riportare (e i bisogni da occultare con un’abile pedata di sabbia dei padroni). D’estate no, d’estate il mare non è pensabile come luogo di piacere, ma soltanto come punizione: questa più o meno era la filosofia del dottor Bartolomeo Rebaudengo, commissario di polizia ad Alassio, amena località turistica della riviera ligure ponentina. Lui uomo di Ceva, laboriosa cittadina del basso Piemonte, profondamente cuneese, cresciuto a fette di “raschera”, dolcetto e bagnacauda, con quell’accento così atrocemente piemontese da dissipare qualsiasi dubbio sulla sua provenienza, da pochi anni lavorava tra turisti e albergatori, occupandosi però di un territorio ben più vasto della sola Alassio. La competenza di quel commissariato si estendeva in entrambe le direzioni della costa ligure per un bel pezzo, pertanto a lui ed ai suoi uomini non toccavano soltanto casi di turiste in lacrime per aver perduto il portafoglio, ma delinquenza di vari livelli e di varia competenza, droga, immigrazione, prostituzione, furti, rapine e ogni tanto pure qualche morto ammazzato. Adesso non è che non avesse gatte da pelare, per la faccenda dell’albanese della stazione ferroviaria gli toccava collaborare con un magistrato pignolo e noiosissimo, mancavano elementi significativi sulla banda dei piromani dei cassonetti, e dire che erano arrivati al diciottesimo tra Albenga e Alassio, eppure nella sua passeggiatina sull’arenile non riusciva a smettere di pensare alla signora Fabiola Ferretti. Gli suonava strano che un uomo potesse preferire la consultazione di opere erudite alla compagnia della signora Fabiola, oltretutto in un momento che avrebbe dovuto essere di riposo o di svago, come il sabato sera. Oddio, saranno pure stati fatti suoi, magari il professore aveva raggiunto un discreto livello di saturazione in quel matrimonio senza figli che durava da parecchio, magari la moglie in privato era una rompipalle, oppure le mancavano gli argomenti o, che ne so, aveva acquisito un alto tasso di acidità da menopausa imminente o forse già in atto. Spiegazioni per quella malinconia da weekend tra estranei che era trapelata dalle parole della donna potevano essercene tante, certo è che a lui sarebbe piaciuto, non conoscendola, incontrarla per caso e chiacchierare un po’ con lei. Aveva begli occhi, di un verde duro, come certe rocce che si trovano sulle Alpi Marittime e che si sfaldano in lamelle sottili, capelli rossi, chissà se poi era davvero il suo colore, con le donne non si può mai dire, però avrebbe potuto esserlo, visto che s’intonava perfettamente con gli occhi e un bel viso regolare. Non era vistosa, senza trucco, d’altronde dopo due giorni come quelli che doveva aver passato, non s’era certo posta il problema di truccarsi per andare alla polizia a denunciare la scomparsa di suo marito. C’erano state poche occasioni per vederla sorridere, però si capiva che aveva un bel sorriso. Ma non era l’aspetto fisico quello che l’aveva più incuriosito, piuttosto le sfumature psicologiche e quella più appariscente era stata la riservatezza. Non era ancora diventato vecchio facendo quel lavoro, non poteva dire di sé d’essere un veterano nella valutazione del prossimo, però sbirri non si diventa e soprattutto non si va avanti se non s’impara a lavorare anche con l’istinto ed il suo istinto non gli stava dicendo proprio niente perché s’era ritrovato davanti ad un muro. Probabilmente la signora Ferretti aveva pianto a casa sua, aveva avuto paura, magari aveva anche fracassato qualche libro di quelli tanto cari alla sua metà, aveva inveito, aveva spiato dietro alle finestre per due notti, illudendosi al minimo chiarore che fossero i fari dell’auto del marito, aveva visto due albe senza che fosse successo niente e alla fine aveva deciso di andare alla polizia. Ebbene, di tutto quel subbuglio, di quello stare male, tra improperi e speranza, tra solitudine e paura, non era emerso niente, soltanto stanchezza composta. Ecco sì, emerso era la parola giusta: la signora Fabiola era impenetrabile, come certi laghetti ai piedi dei ghiacciai che sono sì azzurrissimi, ma totalmente impenetrabili, ci metti una mano dentro, gelo a parte, e non la vedi più anche se è venti centimetri sotto il pelo dell’acqua. Bevve un caffè nel bar di fronte al commissariato, uscì con le mani sprofondate nelle tasche e si diresse verso la porta di metallo videosorvegliata. Guardò in alto, mentre aspettava che Villari gli aprisse, sì, doveva essere lui ad aver dato il cambio a Perseghetti, c’erano nuvole che minacciavano acqua e gabbiani che veleggiavano, spinti dal vento di burrasca, più veloci di schioppettate. Strani posti, dove non nevicava mai e quell’unica volta che lo faceva, se lo faceva in tutto l’inverno, venivano giù delle frittelle marce d’acqua che si spiaccicavano a terra o sul parabrezza peggio delle cacche dei gabbiani. Entrò nell’ufficio denunce dopo aver bussato. Non gliene fregava niente d’essere lui il superiore, gli avevano insegnato così in collegio dai preti a Mondovì e per lui bussare alla porta del presidente della Repubblica o a quella dello stanzino delle scope era uguale. “Avanti”. La voce era ancora quella di Ravera. Ci sperava che fosse ancora lì, perché era con lui che voleva parlare. “Commissario è lei? Ma non c’era bisogno di bussare!”. “L’ho imparato dai preti, insieme a un sacco di altre cose che non ho voglia di ricordare. Ma che orario fai?”. “Oggi ero qui dal mattino, poi quindici-diciotto, come la Prima guerra mondiale”. “Mmm, suona bene. “Prima, quando c’era la vedova del professore…”. “Ma cosa dice, commissario, la vedova?”. “O boia faus, ho detto la vedova?”. “Eh, sì, ha detto ‘la vedova’”. “Lascia perdere, Ravera, chissà dove avevo la testa. Sai perché l’ho detto, adesso che ci penso?”. “No, dottore, non lo so proprio”. “Ho preso il caffè al bar e tutto il tempo ho fissato una bottiglia di Veuve Clicquot magnum che sta vicino alla cassa. Guarda in che modo scemo lavora certe volte la nostra testa. Vabbe’, lascia perdere… Quando c’è stata la moglie del professore, ti ha dato la carta d’identità, giusto?”. “Certo dottor Rebaudengo. Ho già controllato sullo SDI. Fabiola Ferretti, nata a Torino…”. “È piemontese!”. “Sì dottore, come lei. Allora, nata a Torino il 27 aprile 1959, incensurata, tutto in ordine, suo padre aveva una cartoleria e la madre casalinga, al pomeriggio aiutava in negozio. Aveva un fratello, Leonardo, che è morto nell’’81, un incidente in motorino. I suoi l’hanno fatta studiare, ha frequentato il liceo classico, poi l’ISEF, sempre a Torino. Non è entrata nella scuola però, ha sempre lavorato in palestre private. Ad un certo punto, nell’’87 la troviamo in Liguria, il padre nel frattempo è morto, e da sei anni la signora Ferretti lavora in un grande centro benessere, una roba megagalattica, piuttosto esclusivo alla periferia di Albenga, vicino all’uscita dell’autostrada. Lei fa fare ginnastica alle consorti dei vip locali, tra una sauna, una lampada e un massaggio. In quel centro lì c’è annessa una palestra un po’ più democratica, con sala pesi, che la sera è frequentata soprattutto da uomini. Due sere alla settimana fanno karate e altre discipline di autodifesa, m’han detto un nome israeliano ma non me lo ricordo, e lì la si può incontrare. Ci va sia per allenarsi che per insegnare, dev’essere un grado alto, se non cintura nera, c’è vicina. Catello, della Polstrada, l’ha vista spesso allenarsi in sala pesi, ha detto che ci va giù dura, non da confidenza, ma non è mai scortese. Qualche parola la scambia, ma non gliene frega niente di rimorchiare, quindi ne ha parecchi che le muoiono dietro, anche se non è più giovane”. “E cosa ci fa con un professore di filosofia?”. “Aspetti, non ho finito. È iscritta al CAI e va a camminare in montagna, le sue montagne, sa commissario! Marguareis, Mongioje, Mondolé, ma nessuno del suo gruppo conosce il marito. A proposito, lo ha sposato nell’’89, a trent’anni belli giusti. Lui allora ne aveva trentotto. Sono sempre andati d’accordo, pare, o meglio non si dice niente di diverso, fanno vita ritirata, ma qualche volta lei lo segue a conferenze, presentazioni di libri e altre menate del genere”. Bartolomeo Rebaudengo sapeva che l’ispettore Armando Ravera era un tipo determinato, ma che fosse riuscito a mettere su tutto ’sto romanzo in così poco tempo, suscitò la sua ammirazione. “Come hai fatto…?”. “Classe naturale, dottore”. “Adesso lascia un attimo perdere tutto, non perché non sia importante, ma mettilo da parte. Quando lei era qui, tu tutta ’sta roba non la sapevi ancora, giusto?”. “Certo, dottore”. “Ecco, dimmi, che impressione ti ha fatto?”. Ravera se ne stette zitto un po’, guardando fuori il selciato del giardino, l’ufficio denunce era al piano terreno, era come se fossero stati in giardino, martellato da gocce grosse come tinozze. Con la fine di gennaio le giornate avevano cominciato ad allungarsi, ma quel pomeriggio sembrava dicembre, erano soltanto le tre e mezzo e c’era scuro come all’imbrunire. “Non so se adesso riesco a raccontarle che impressione mi ha fatto questa mattina, perché anche se faccio finta di non saperle tutte queste cose su di lei, ora le so… Posso provarci. M’è sembrata, così, a pelle, una donna intelligente che sa di poter contare, o perlomeno vuole così, su doti che non siano quelle della bellezza e della seduzione: è questo che mi spinge a pensare che sia intelligente. Se si truccasse e si mettesse quelle scarpe con il tacco fino, invece di farsi la treccia, che sembra mia nonna, andasse da un parrucchiere alla moda, avrebbe la fila di spasimanti. D’accordo che non era il momento, ma neppure per un attimo ha civettato, ci sono donne che non possono farne a meno, civetterebbero perfino davanti al plotone d’esecuzione. Mi sono spiegato?”. “Benissimo, e mi trovi d’accordo su tutta la linea”. “E per finire, un’ultima cosa: non mostra i suoi stati d’animo a parte quell’accenno alla lite di sabato sera e alle scappatelle del marito, però lo ha fatto con molta calma. Ci teneva, ecco sì, ci teneva a dare un’impressione di autocontrollo, non voleva che si capisse che stava male e quanto. Ha avuto anche lei, dottore, questa sensazione?”. “Forse è solo molto riservata, magari orgogliosa e non le piace essere compatita. Sa benissimo, come lo sappiamo noi, che dietro alla sparizione del marito potrebbe esserci una faccenda di corna, e non vuole assolutamente cadere nel ridicolo. Resta il fatto che è una persona poco decifrabile.
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