Ci sono anche due fratelli, vestiti uguali, che si somigliano a pennello; e portano tutti e due un cappello alla calabrese, con una penna di fagiano. Ma il più bello di tutti, quello che ha più ingegno, che sarà il primo di sicuro anche quest’anno, è Derossi; e il maestro, che l’ha già capito, lo interroga sempre. Io però voglio bene a Precossi, il figliuolo del fabbro ferraio, quello della giacchetta lunga che pare un malatino; dicono che suo padre lo batte; è molto timido, e ogni volta che interroga o tocca qualcuno, dice: - Scusami, - e guarda con gli occhi buoni e tristi. Ma Garrone è il più grande e il più buono.
Un tratto generoso 26, mercoledì
E si diede appunto a conoscere questa mattina, Garrone. Quando entrai nella scuola, - un poco tardi, chè m’avea fermato la maestra di prima superiore per domandarmi a che ora poteva venir a casa a trovarci, - il maestro non c’era ancora, e tre o quattro ragazzi tormentavano il povero Crossi, quello dai capelli rossi; che ha un braccio morto, e sua madre vende erbaggi. Lo stuzzicavano con le righe; gli buttavano in faccia delle scorze di castagne, e gli davan dello storpio e del mostro; contraffacendolo, col suo braccio al collo. Ed egli tutto solo in fondo al banco smorto, stava a sentire, guardando ora l’uno ora l’altro con gli occhi supplichevoli, perché lo lasciassero stare. Ma gli altri sempre più lo beffavano, ed egli cominciò a tremare e a farsi rosso dalla rabbia.
A un tratto Franti, quella brutta faccia, salì sur un banco, e facendo mostra di portar due cesti sulle braccia, scimmiottò la mamma di Crossi, quando veniva ad aspettare il figliuolo alla porta; perché ora è malata. Molti si misero a ridere forte. Allora Crossi perse la testa, e afferrato un calamaio glielo scaraventò al capo di tutta forza; ma Franti fece civetta, e il calamaio andò a colpire nel petto il maestro che entrava.
Tutti scapparono al posto; e fecero silenzio impauriti.
Il maestro, pallido, salì al tavolino, e con voce alterata domandò: - Chi è stato?
Nessuno rispose.
Il maestro gridò un’altra volta, alzando ancora la voce: - Chi è?
Allora Garrone, mosso a pietà del povero Crossi, si alzò di scatto, e disse risolutamente:
- Son io!
Il maestro lo guardò, guardò gli scolari; poi disse con voce tranquilla: - Non sei tu. - E dopo un momento: - Il colpevole non sarà punito. S’alzi!
Crossi s’alzò, e disse piangendo: - Mi picchiavano e m’insultavano, io ho perso la testa, ho tirato...
- Siedi, - disse il maestro. - S’alzino quelli che lo han provocato.
Quattro s’alzarono, col capo chino.
- Voi, - disse il maestro, - avete insultato un compagno che non vi provocava, schermito un disgraziato, percosso un debole che non si può difendere. Avete commesso una delle azioni più basse, più vergognose di cui si possa macchiare una creatura umana. Vigliacchi!
Detto questo, scese tra i banchi, mise una mano sotto il mento di Garrone, che stava col viso basso, e fattogli alzare il viso, lo fissò negli occhi e gli disse: - Tu sei un’anima nobile. Garrone, colto il momento, mormorò non so che parole nell’orecchio al maestro, e questi, voltatosi verso i quattro colpevoli, disse bruscamente: - Vi perdono.
La mia maestra di prima superiore 27, giovedì
La mia maestra ha mantenuto la promessa, è venuta oggi a casa, nel momento che stavo per uscire con mia madre, per portar biancheria a una donna povera, raccomandata dalla Gazzetta. Era un anno che non l’avevamo più vista in casa nostra. Tutti le abbiamo fatto festa. È sempre quella, piccola, col suo velo verde intorno al cappello, vestita alla buona e pettinata male, chè non ha tempo di rilisciarsi; ma un poco più scolorita che l’anno passato, con qualche capello bianco, e tosse sempre. Mia madre gliel’ha detto: - E la salute, cara maestra? Lei non si riguarda abbastanza! - Eh, non importa, - ha risposto, col suo sorriso allegro, insieme e malinconico. - Lei parla troppo forte, - ha soggiunto mia madre, - si affanna troppo coi suoi ragazzi. È vero; si sente sempre la sua voce; mi ricordo di quando andavo a scuola da lei; parla sempre, parla perché i ragazzi non si distraggono, e non sta un momento seduta. - N’ero ben sicuro che sarebbe venuta, perché non si scorda mai dei suoi scolari; ne rammenta i nomi per anni; i giorni d’esame mensile, corre a domandar al Direttore che punti hanno avuto; li aspetta all’uscita, e si fa mostrar le composizioni per vedere se hanno fatto progressi; e molti vengono ancora a trovarla dal Ginnasio, che han già i calzoni lunghi e l’orologio.
Quest’oggi tornava tutta affannata dalla Pinacoteca, dove aveva condotto i suoi ragazzi, come gli anni passati, chè ogni giovedì li conduceva tutti a un museo, e spiegava ogni cosa. Povera maestra, è ancora dimagrita. Ma è sempre viva, s’accalora quando parla della sua scuola. Ha voluto rivedere il letto dove mi vide molto malato due anni fa, e che ora è di mio fratello; lo ha guardato un pezzo e non poteva parlare. Ha dovuto scappare presto per andare a visitare un ragazzo della sua classe, figliuolo d’un sellaio, malato di rosolia, e aveva per di più un pacco di pagine da correggere, tutta la serata da lavorare, e doveva ancor dare una lezione privata d’aritmetica a una bottegaia, prima di notte.
- Ebbene, Enrico, - m’ha detto andandosene, vuoi ancora bene alla tua maestra, ora che risolvi i problemi difficili e fai le composizioni lunghe? - M’ha baciato, m’ha ancora detto d’in fondo alla scala: - Non mi scordare, sai, Enrico! - O mia buona maestra, mai, mai non ti scorderò. Anche quando sarò grande, mi ricorderò ancora di te e andrò a trovarti fra i tuoi ragazzi; e ogni volta che passerò vicino a una scuola e sentirò la voce d’una maestra, mi parrà di sentir la tua voce, e ripenserò ai due anni che passai nella scuola tua; dove imparai tante cose, dove ti vidi tante volte malata e stanca, ma sempre premurosa, sempre indulgente, disperata quando uno pigliava un mal vezzo delle dita a scrivere, tremante quando gli ispettori c’interrogavano, felice quando facevamo buona figura, buona sempre e amorosa come una madre. Mai, mai non mi scorderò di te, maestra mia.
In una soffitta 28, venerdì
Ieri sera con mia madre e con mia sorella Silvia andammo a portar la biancheria alla donna povera raccomandata dal giornale; io portai il sacco, Silvia aveva il giornale, con le iniziali del nome e l’indirizzo.
Salimmo fin sotto il tetto d’una casa alta, in un corridoio lungo, dov’erano molti usci. Mia madre picchiò all’ultimo: ci aperse una donna ancora giovane, bionda e macilenta; che subito mi parve d’aver già visto altre volte, con quel medesimo fazzoletto turchino che aveva in capo. - Siete voi quella del giornale, così e così? - Domandò mia madre. - Sì, signora, son io. - Ebbene, vi abbiamo portato un poco di biancheria. - E quella a ringraziare e a benedire, che non finiva più.
Io intanto vidi in un angolo dello stanza nuda e scura un ragazzo inginocchiato davanti a una seggiola; con la schiena volta verso di noi, che parea che scrivesse: e proprio scriveva, con la carta sopra una seggiola, e aveva il calamaio sul pavimento. Come faceva a scrivere così al buio? Mentre dicevo questo tra me, ecco a un tratto che riconobbi i capelli rossi e la giacchetta di fustagno di Crossi, il figliuolo dell’erbivendola, quello dal braccio morto. Io lo dissi piano a mia madre, mentre la donna riponeva la roba. Zitto! - Rispose mia madre. - Può esser che si vergogni a vederti, che fai la carità alla sua mamma; non lo chiamare. - Ma in quel momento Crossi si voltò, io rimasi imbarazzato, egli sorrise, e allora mia madre mi diede una spinta perché corressi ad abbracciarlo. Io l’abbracciai, egli si alzò e mi prese per mano. - Eccomi qui, - diceva in quel mentre sua madre alla mia - Sola con questo ragazzo, il marito in America da sei anni, ed io, per giunta malata, che non posso più andare in giro con la verdura a guadagnar quei pochi soldi. Non ci è rimasto nemmeno un tavolino per il mio povero Luigino; da farci il lavoro.
Quando ci avevo il banco giù nel portone, almeno poteva scrivere sul banco: ora me l’han levato. Nemmeno un poco di lume da studiare senza rovinarsi gli occhi. E grazia se lo posso mandar a scuola, chè il municipio gli dà i libri e i quaderni. Povero Luigino, che studierebbe tanto volentieri! Povera donna che sono! - Mia madre le diede tutto quello che aveva nella borsa, baciò il ragazzo e quasi piangeva quando uscimmo.
E aveva ben ragione di dirmi: - Guarda quel povero ragazzo, com’è costretto a lavorare, tu che hai tutti i comodi; e pur ti par duro lo studio! Ah! Enrico mio, c’è più merito nel suo lavoro d’un giorno che nel tuo lavoro d’un anno. A quelli lì dovrebbero dare i premi!
La scuola 28, venerdì
Sì, caro Enrico, lo studio ti è duro, come ti dice tua madre: non ti vedo ancora andare a scuola con quell’animo risoluto e con quel viso ridente, ch’io vorrei. Tu fai ancora il restìo. Ma senti: pensa un po’ che misera, spregevole cosa sarebbe la tua giornata se tu non andassi a scuola! A mani giunte, in capo a una settimana, domanderesti di ritornarci; roso dalla noia e dalla vergogna; stomacato dei tuoi trastulli e della tua esistenza. Tutti, tutti studiano ora, Enrico mio. Pensa agli operai che vanno a scuola la sera dopo aver faticato tutta la giornata; alle donne, alle ragazze del popolo che vanno a scuola la domenica, dopo aver lavorato tutta la settimana; ai soldati che metton mano ai libri e ai quaderni quando tornano spossati dagli esercizi; pensa ai ragazzi muti e ciechi, che pure studiano; e fino ai prigionieri, che anch’essi imparano a leggere e a scrivere. Pensa, la mattina, quando esci, che in quello stesso momento, nella tua stessa città, altri trentamila ragazzi vanno come te a chiudersi per tre ore in una stanza a studiare. Ma che! Pensa a quegli innumerevoli ragazzi che presso a poco a quell’ora vanno a scuola in tutti i paesi; vedili con l’immaginazione, che vanno, vanno, per i vicoli dei villaggi quieti, per le strade delle città rumorose, lungo le rive dei mari e dei laghi, dove sotto un sole ardente, dove tra le nebbie, in barca nei paesi intersecati da canali, a cavallo per le grandi pianure, in slitta sopra le nevi, per valli e per colline, a traverso a boschi e a torrenti, su per sentieri solitari delle montagne, soli, a coppie, a gruppi, a lunghe file, tutti coi libri sotto il braccio, vestiti in mille modi, parlanti in mille lingue, dalle ultime scuole della Russia quasi perdute fra i ghiacci alle ultime scuole dell’Arabia ombreggiate dalle palme, milioni e milioni, tutti a imparare in cento forme diverse le medesime cose; immagina questo vastissimo formicolìo di ragazzi di cento popoli, questo movimento immenso di cui fai parte, e pensa: - Se questo movimento cessasse, l’umanità ricadrebbe nella barbarie; questo movimento è il progresso, la speranza, la gloria del mondo. - Coraggio dunque, piccolo soldato dell’immenso esercito. I tuoi libri son le tue armi, la tua classe è la tua squadra, il campo di battaglia è la terra intera, e la vittoria è la civiltà umana. Non essere un soldato codardo, Enrico mio.
Tuo padre