“Fra cent‘anni un‘altra“.
“Dio lo voglia!“, gli rispondeva, tirandosi la berretta sulla fronte.
E zia Annedda versava da bere. In breve la cucina fu piena di gente; zio Portolu gridava incessantemente, facendo sapere a tutti che i suoi figli erano tre colombi, e avrebbe voluto trattenere a lungo tutta quella gente; ma Pietro smaniava di far conoscere ad Elias la sua fidanzata, e insisteva per uscire e condurlo con sé.
“Andiamo a pigliar aria“, diceva. “Questo povero diavolo è stato ben rinchiuso perché lo vogliate tener qui tutta la sera.“
“Ne vedrà bene dell‘aria!“, rispose un parente.
“Quel suo volto di ragazza diventerà nero come la polvere da sparo.“
“Lo credo bene!“, gridò Elias, passandosi le mani sul volto, vergognoso della sua bianchezza.
Ma finalmente Pietro riusciva a farsi intendere, e stavano per uscire, quando sopraggiunse la futura suocera, una vedova magra, alta e rigida, col viso terreo avvolto in una benda nera: la accompagnavano i suoi due più giovani figli, una fanciulla ed un giovinetto già pieno di boria.
“Figlio mio!“, declamò con enfasi la vedova slanciandosi a braccia aperte verso Elias. “Il Signore ti mandi fra cento anni un‘altra di queste disgrazie.“
“Dio lo voglia!“
Zia Annedda andava premurosamente dietro la vedova, desiderosa di complimentarla; ma zio Portolu s‘impadronì della donna, le prese le mani, la scosse tutta.
“Lo vedi?“, le gridò sul viso, “lo vedi, Arrita Scada! Il colombo è tornato al nido. Chi ci tocca, ora? Chi ci tocca? Dillo tu. Arrita Scada...“
Ella non seppe dirlo.
“Lasciatelo dire“, esclamò Pietro, rivolto alla vedova. “È allegro oggi.“
“Perché deve essere allegro!“
“Sicuro che sono allegro. Cosa ne dici, tu? Non devo essere allegro? Non lo vedi il colombo? È ritornato al nido. È bianco come un giglio. E belle storie ne sa raccontare, ora. Arrita Scada, sentito hai? Siamo una famiglia, una casa di uomini, noi: e diglielo a tua figlia, che essa sposerà un fiore, non una immondezza.“
“Lo credo bene.“
“Lo credi? O che credi che tua figlia venga qui a far la serva? Verrà a far la signora: e troverà pane, e troverà vino, e troverà grano, orzo, fave, olio: ogni ben di Dio. Lo vedi tu quell‘uscio?“, gridò poi, facendo volger zia Arrita verso un usciolino in fondo alla cucina. “Lo vedi? Sì? Ebbene, sai cosa c‘è dietro quell‘uscio? Ci sono cento scudi in formaggio. Ed altre cose ancora.“
“Finitela, finitela“, disse Pietro, un po‘ mortificato. “Ella non sa che farsene del vostro ben di Dio.“
“Del resto“, osservò Elias, “Maria Maddalena Scada non sposerà Pietro per il nostro formaggio.“
“Figlio del mio cuore! tutto è buono nel mondo!“, declamò zia Arrita, sedendosi fra i suoi figlioli, dei quali il maschio non parlava ma sorrideva beffardo.
“Andiamo, andiamo, finitela!“, ripeteva Pietro.
Intanto zia Annedda, visto che non le lasciavano dire una parola, s‘era messa a preparare il caffè per la socronza.{3}
“Mio marito“, le disse, appena poté averla tutta a sé, “è troppo attaccato alle cose del mondo: non pensa affatto che il Signore ci ha dato i suoi beni, senza che noi li meritassimo, e che il Signore ce li può togliere da un momento all‘altro.“
“Annedda mia, gli uomini son tutti così“, disse l‘altra per confortarla. “Non pensano ad altro che alle cose del mondo. Lasciamo andare. Ma cosa stai facendo? Non pigliarti alcun disturbo. Sono venuta per un momentino, e me ne vado subito. Vedo che Elias sta bene, è bianco come una ragazza, Dio lo benedica.“
“Sì, sembra che stia bene, grazie al Signore: ha tanto sofferto, povero uccello!“
“Ah, speriamo che tutto sia finito: egli non tornerà ai cattivi compagni, certamente; perché sono stati i cattivi compagni a procurargli la disgrazia.“
“Che tu sia benedetta, le tue parole son d‘oro, Arrita Scada mia. Ma cosa stavamo dicendo? Gli uomini non pensano che alle cose del mondo: se pensassero appena appena al mondo di là, andrebbero più dritti in questo. Essi pensano che questa vita terrena non debba finir mai; invece è una novena, questa vita, una novena ed anche corta. Soffriamo in questo mondo; facciamo sì che questa pulcina qui“, si toccò il petto, “sia tranquilla e non ci rimproveri nulla; il resto vada come vuole andare. Metti dunque lo zucchero, Arrita; bada che il tuo caffè non sia amaro.“
“Va bene così; dolce non mi piace.“
“Bene, stavamo dicendo che basta aver la coscienza tranquilla. Invece gli uomini non ci badano, a questo. Basta loro che l‘annata sia buona, che facciano molto formaggio, molto frumento, molte olive. Ah, essi non sanno che la vita è così breve, che tutte le cose del mondo passano così presto. Dàlla a me la tua chicchera, non disturbarti. Ah, non è nulla, è il cucchiaino che è caduto. Le cose del mondo! Va tu, Arrita Scada, mettiti sull‘orlo del mare, e conta tutti i granelli della rena: quando li avrai contati saprai che essi sono un nulla in confronto degli anni dell‘eternità. Invece i nostri anni, gli anni da passare nel mondo, stanno dentro il pugno di un bambino. Io dico sempre queste cose a Berte Portolu e a tutti i figli miei; ma essi son troppo attaccati al mondo.“
“Essi sono giovani, Annedda mia, bisogna considerare questo, che essi sono giovani. Del resto vedrai che Elias ha messo giudizio; è serio, molto serio: la lezione non è stata piccola, e gli servirà per tutta la vita.“
“Maria di Valverde lo voglia! Ah, Elias è un giovine di cuore; quando era ragazzo sembrava una femminuccia; non diceva una imprecazione, non una cattiva parola. Chi l‘avrebbe creduto che appunto lui mi avrebbe fatto versar tante lagrime?“
“Basta, ora è tutto passato: ora i tuoi figli sembrano davvero dei colombi, come dice Berte tuo marito. Basta che fra loro regni sempre la concordia, l‘amore...“
“Ah, per questo non c‘è pericolo, che tu sia benedetta!“, disse zia Annedda sorridendo.
Dopo cena zia Annedda poté finalmente trovarsi con Elias, seduti entrambi al fresco nel cortile. Il portone aperto, il viottolo deserto: sembrava una notte d‘estate, silenziosa, col cielo diafano fiorito di stelle purissime. Dietro gli orti, dietro lo stradale, in lontananza, si sentiva uno scampanio argentino di pecore al pascolo; veniva nell‘aria un aspro profumo d‘erba fresca. Elias respirava quel profumo, quell‘aria pura, con le narici dilatate, con un istinto di voluttà selvaggia: sentiva il sangue scorrer caldo nelle vene, e il capo oppresso da un piacevole peso. Aveva bevuto e si sentiva felice.
“Siamo stati dalla fidanzata di Pietro“, disse con voce vaga, “è una ragazza assai graziosa.“
“Sì, è bruna, ma è graziosa: inoltre è assai savia.“
“Sua madre mi pare un po‘ boriosa: se ha un soldo fa vedere d‘avere uno scudo; ma la ragazza sembra modesta.“
“Che vuoi? Arrita Scada è di razza buona e ne va superba: del resto“, disse zia Annedda, entrando nel suo argomento favorito, “io non so cosa si ricavi dalla boria e dalla superbia. Dio disse: “tre cose solamente deve aver l‘uomo, amore, carità, umiltà“. Cosa si ricava dalle altre passioni? Tu ora hai sperimentato la vita, figlio mio; cosa ne dici tu?“
Elias sospirò forte; sollevò il viso al cielo.
“Voi avete ragione; io ho sperimentato la vita; non che meritassi la disgrazia che ho avuto, perché, voi lo sapete, io ero innocente, ma perché il Signore non paga il sabato. Sono stato cattivo figliolo, e Dio mi ha punito, mi ha fatto invecchiare innanzi tempo. I cattivi compagni mi avevano traviato, ed è perché praticavo con male compagnie che sono stato travolto in quella disgrazia.“
“E quei compagni, mentre tu soffrivi, non chiedevano neppure tue notizie. Prima, quando eri libero, non lasciavano in pace quel portone là: “Elias dov‘è? dov‘è Elias?“. Elias andava ed Elias veniva. E dopo? Dopo si allontanarono, o se dovevano passar per la via, calavano la berretta sulla fronte perché noi non li riconoscessimo.“
“Basta, mamma mia! Ora è tutto finito; comincio una vita nuova“, diss‘egli, sospirando ancora. “Ora per me non esiste altro che la mia famiglia: voi, mio padre, i miei fratelli: ah, credete, vi farò dimenticare tutto il passato. Starò come un servo, all‘obbedienza vostra, e mi parrà di essere rinato.“
Zia Annedda sentì lagrime di dolcezza salirle agli occhi, e poiché le sembrava che anche Elias si commovesse troppo, sviò il discorso.
“Sei stato sempre sano?“, domandò. “Sei molto dimagrito.“
“Che volete? In quei luoghi si dimagra anche senza essere ammalati: il non lavorare ammazza più di qualunque fatica.“
“Non lavoravate mai?“
“Sì, si fanno dei lavoretti manuali, da calzolaio o da donnicciuola! Così pare che il tempo non passi mai: un minuto sembra un anno: è una cosa orribile, mamma mia.“
Tacquero. La voce di Elias si era fatta profonda nel pronunciare quelle ultime parole. Durante il pomeriggio, nella prima ebbrezza della libertà, egli aveva parlato facilmente della sua prigionia e dei suoi compagni di sventura, sembrandogli una cosa già lontana, quasi piacevole a ricordarsi. Ma adesso, in quell‘oscurità silenziosa, nel sentire l‘odore fresco della campagna che gli ricordava i giorni felici della sua prima giovinezza trascorsa nell‘ovile, nella sconfinata libertà della tanca {4} paterna, davanti a sua madre, a quella vecchierella buona e pura, improvvisamente, il ricordo degli anni perduti invano nell‘angoscia del penitenziario, gli destava orrore.
“Io sono assai debole“, disse dopo qualche momento, “non ho forza per nulla: è come se mi avessero troncato la schiena. Eppure non sono mai stato ammalato; solo una volta ho avuto una colica tremenda, e mi pareva di morire, “Santu Franziscu mio“, dissi allora, “fatemi uscire da quest‘orrore, e la prima cosa che farò, tornando in libertà, sarà di venire alla vostra chiesa e portarvi un cero.““
“Santu Franziscu bellu!“, esclamò zia Annedda, giungendo le mani. “Noi ci andremo, noi ci andremo, figlio mio! Che tu sii benedetto, tu ripiglierai le tue forze, non dubitarne. Noi andremo a far la novena a San Francesco: e Pietro verrà alla festa e porterà in groppa al suo cavallo la fidanzata.“
“Quando si sposa Pietro?“
“Si sposerà dopo la raccolta, figlio mio.“
“La porterà qui la sposa?“
“Sì, la porterà qui, almeno per i primi tempi; io comincio ad esser vecchia, figlio mio, e ho bisogno d‘aiuto. Finché vivo io, voglio che restiamo tutti uniti: dopo, quando io tornerò nel seno del Signore, ognuno di voi piglierà la sua via. Anche tu ti ammoglierai...“
“Oh, e chi mi vuole?“, egli disse con amarezza.
“Perché parli così, Elias? Chi ti vuole! Una figlia di Dio. Se tu ti emenderai, se farai vita onesta, nel timor di Dio, lavorando, la fortuna non ti mancherà. Io non dico che tu debba cercare una donna ricca; ma una donna onesta non ti mancherà. Il Signore ha istituito il matrimonio perché si uniscano santamente un uomo e una donna, non già un ricco e una ricca, o un povero e una povera.“
“Ecco!“, diss‘egli ridendo. “Non parliamo di questo! Io ritorno appena oggi, e parliamo già di matrimonio. Ne parleremo un altro giorno: ho ventitré anni soltanto, e c‘è tempo. Ma voi siete stanca, mamma mia. Andate, andate a riposare. Andate.“
“Vado; ma ritirati anche tu, Elias, l‘aria ti potrebbe far male.“
“Male?“, diss‘egli spalancando la bocca e respirando forte. “Come mai può far male? Non vedete che mi ridona la vita? Andate. Rientrerò subito.“
Dopo un momento egli si trovò solo, semisdraiato per terra, col gomito appoggiato sullo scalino della porta, Sentì sua madre salire la scaletta di legno, chiuder la finestruola e levarsi le scarpe. Poi tutto fu silenzio. L‘aria si faceva fresca, quasi umida, aromatica. Egli ripensò alle cose che sua madre gli aveva detto: poi disse fra sé:
“Mio padre e i miei fratelli dormono tranquilli sulle loro stuoie: li sento di qui. Mio padre russa, Mattia dice di tratto in tratto qualche parola; sogna, di certo, e anche nel sogno egli è un po‘ semplice. Ma come dormono bene, essi! Si sono ubriacati, ma domani non sentiranno più nulla. Anch‘io mi sono un po‘ ubriacato, ma ne sentirò la traccia. Come sono debole! Non sono più un uomo, io: non sarò più buono a nulla. Ah, e mia madre vuole ammogliarmi! Ma qual donna mi vuole? Nessuna. Basta, l‘aria si fa umida; ritiriamoci“.
Ma non si mosse. Giungeva sempre il tintinnio delle greggie pascenti, che pareva or vicino, or lontano, trasportato dalla brezza umida e fragrante. Elias si sentiva stanco, col capo pesante, e non poteva muoversi, o gli pareva di non potersi muovere. Confuse visioni cominciarono a ondeggiargli davanti alla fantasia: ricordava sempre l‘ovile, la tanca coperta di fieno altissimo, e vedeva le pecore, ingrossate dal lungo vello, sparpagliate qua e là tra il verde della pastura; ma queste pecore avevano visi umani, i visi cioè dei suoi compagni di sventura. E provava un‘angoscia indefinibile. Forse era il vino che fermentandogli nel sangue gli causava un po‘ di febbre. Ricordava tutti gli avvenimenti della giornata, ma gli pareva di aver sognato, di trovarsi ancora in quel luogo e di provarne un cupo dolore.
Le immagini fantastiche del suo sogno ondeggiavano, s‘allontanavano, svanivano. Ecco, ora gli pareva che quelle strane pecore dal volto umano saltassero sul muro che chiudeva la tanca; ed egli andava lor dietro, affannosamente, saltando anche lui il muro e inoltrandosi nella tanca attigua, folta di soveri alti, verdissimi. Un uomo alto, rigido, grosso, con una barba grigio-rossastra, una specie di gigante, camminava lentamente, quasi maestosamente, sotto il bosco. Elias lo riconobbe subito: era un uomo d‘Orune, un selvaggio sapiente, che vigilava l‘immensa tanca d‘un possidente nuorese, perché non estraessero di frodo il sughero dei soveri. Elias conosceva sin da bambino quell‘uomo gigantesco, che non rideva mai e forse per ciò godeva una certa fama di saggio. Si chiamava Martin Monne, ma tutti lo chiamavano il “padre della selva“ (ssu babbu ‘e ssu padente), perché egli raccontava che, dopo la sua infanzia, non aveva dormito una sola notte in paese.
“Dove vai?“, chiese ad Elias.
“Vado dietro queste pecore matte. Ma sono così stanco, padre della selva mia! Non ne posso più; sono debole e sfatto; non valgo più a nulla.“
“Eh, se tu non vuoi aver fastidi va a farti prete!“, disse zio Martinu con la sua voce possente.
“Eh, eh, quest‘idea mi è venuta qualche volta in quel luogo!“, gridò Elias.
Si scosse, si svegliò e provò un brivido di freddo.
“Mi sono addormentato qui“, pensò sollevandosi, “coglierò qualche malanno.“
Entrò in cucina un po‘ barcollando: il padre e i fratelli dormivano pesantemente sulle loro stuoie; un lume ardeva posato sulla pietra del focolare. Per Elias, poveretto, così deboluccio, era stato preparato un letto in una cameretta terrena. Egli prese il lume, attraversò una stanzetta nella quale, sopra larghe tavole, stava una grande quantità di formaggio giallo e oleoso che esalava un odore sgradevole, ed entrò nella cameretta.
Si spogliò, si coricò, spense il lume. Si sentiva la schiena rotta, il capo pesante: eppure non gli riusciva di addormentarsi, di nuovo oppresso da un dormiveglia quasi affannoso, pieno di sogni confusi. Vedeva ancora la tanca, il fieno, le pecore grosse di lana gialla intricata, la linea verde del bosco vicino. Zio Martinu era ancora là; ma stava adesso accanto al muro, alto, rigido, sporco, maestoso.
Ritto anche lui accanto al muro, dalla parte della loro tanca, Elias gli raccontava molte cose di quel luogo. Tra l‘altro diceva:
“Ci portavano sempre a messa, ci facevano confessare e comunicare spesso. Ah, laggiù si è buoni cristiani. Il cappellano era un santo uomo. Io gli dissi una volta, in confessione, che avevo studiato fino alla seconda ginnasiale, che poi mi ero fatto pastore, ma che molte volte mi ero pentito di non aver continuato a studiare. Allora egli mi regalò un libro, scritto da una parte in latino e dall‘altra in italiano, il libro della Settimana santa. Io l‘ho letto più di cento, che dico? più di mille volte: e l‘ho portato qui, anche. Lo so leggere tanto in latino che in italiano“.
“Allora tu sei un sapientone!“
“Non quanto voi! Però ho il timore di Dio.“
“Ebbene, quando si teme Dio si è più sapienti dei re“, diceva zio Martinu.
Qui il sogno di Elias si confondeva, s‘intrecciava con altri sogni più o meno stravaganti.