CAPITOLO V
Roma, Santo Stefano Rotondo
Si ritrovarono davanti alla basilica dei martiri che erano ormai le dieci. Don Ciocci scostò la porta dopo aver allontanato alcune vecchie del Celio che volevano entrare. Entrarono invece i cardinali Neumann e Rosas Burgos con il suo segretario, la donna delle pulizie, il sagrestano e l’assistente del porporato tedesco.
“Fra un po’ comenzarà a apestar, a spussare” commentò in italo-spagnolo Rosas. La donna delle pulizie si segnò per l’ennesima volta.
“Chiamiamo la polizia?” propose don Pardo rivolgendosi soprattutto a Neumann.
“Non vedo alternative, anche se forse sarebbe bene informare dell’accaduto il Santo Padre. Questa strana morte a pochi giorni dalla sua elezione è imbarazzante…”.
“Embarasante por chi?” ribatté Rosas.
“Per la Chiesa” rispose il vescovo tedesco. “Una morte violenta in una casa di Nostro Signore la contamina di materiali terreni….”
“Esto don Bolpinos – proseguì lo spagnolo – era una excepcional mo-lestia…”
“Per voi magari, per i poveretti che aiutava semmai era l’opposto” replicò duro il germanico.
“Pero mi amigo Binni se era stufato de esto cabròn. A Jenoba lo ha tormentado, un vero martirio!” insistette Rosas Burgos.
“Schweig!” sibilò Neumann con il tono tagliente di un serpente infuriato. Ma lo udì solo padre Franz.
“Sarà opportuno informare anche Sua Eminenza il cardinal Binni” suggerì padre Pardo.
Tutti furono d’accordo. Anche nel non chiamare la polizia, ma il questore Canfori. Lo fece Pardo che lo conosceva bene: il questore, infatti, era uno dei commensali ammessi alla paella.
Seduto in sagrestia il cardinale Neumann telefonò all’arcivescovo di Genova.
Genova, Arcivescovado
Alle 11 l’arcivescovo era nel suo studio davanti alla cattedrale di San Lorenzo e aveva ripreso in mano il fascicolo che riguardava la grana della parrocchia di San Nervino.
In quel quartiere sopra il porto, si era formata una comunità di fedeli, tutti o quasi intellettuali, per lo più insegnanti, ma anche un avvocato e due consiglieri comunali della Democrazia cristiana, qualche impiegato e operaio che aveva avviato un dialogo tra cattolici e comunisti. I giornali raccontavano incuriositi e avidi di scandaletti le serate di confronti, anche aspri, in questa “comunità cristiana di base”, molto vivace, guidata dal parroco, il frate francescano, Ercole Rho che si era messo in contrapposizione alla gerarchia ecclesiastica, chiedendo un rinnovamento, come sosteneva il religioso “in piena adesione al Vangelo”. Vangelo che, evidentemente, era diverso da quello che leggeva tutti i giorni Sua Eminenza.
Binni provò a richiamarli all’obbedienza. Era appena riuscito a sistemare don Volpini a Roma, dopo anni di rogne, e questa nuova grana gli stava creando seri problemi in una diocesi che di problemi ne aveva già abbastanza, con il Pci che cresceva con lo sviluppo dei grandi stabilimenti siderurgici, delle Partecipazioni statali, del porto e che ormai aspirava a condizionare l’amministrazione, con i socialisti mangiapreti che erano a un passo dal fare accordi con la Democrazia cristiana, e persino il Teatro Stabile che metteva su uno dei palcoscenici più raffinati d’Italia testi internazionali e opere che turbavano le coscienze e scatenavano dibattiti in città. La città, secondo Sua Eminenza, avrebbe dovuto scegliere una vita tranquilla, compassata, invece…
Dall’altra parte la potente famiglia dei Martinozzi, armatori e immobiliaristi, alcuni costruttori che stavano comperando a pezzi la vecchia città dei vicoli, ancora schiacciata sotto le macerie della guerra, una generazione di professionisti rampanti che voleva conquistare i posti di potere nelle banche e nei consigli d’amministrazione, i due grandi ospedali, quello laico di San Martino, l’altro quella della Duchessa, proprietà della Curia che proprio il Cardinale presiedeva con amore e pugno di ferro. Tutti a sollecitare il porporato a far sentire di più la sua voce per una linea ferma e intransigente verso le istanze della sinistra e dei pericolosi modernisti. Avanti, ma senza cambiare, senza toccare alcunché, era il motto preferito da questa oligarchia. Che aveva anche alcuni momenti di cristiana misericordia, prodigandosi fisicamente ed economi-camente in opere di bene sempre benedette e attentamente controllate dalla Curia arcivescovile e dai Gesuiti della scuola che sfornava l’élite fu-tura: l’Istituto Arecco.
In Binni avevano trovato un alleato sicuro.
Tutto questo aveva fatto dell’arcivescovo un baluardo nazionale contro le avanzate marxiste. Con queste carte un mese prima era giunto a Roma per partecipare ai funerali del suo protettore, Pio XII e poco dopo per entrare in conclave. Senza frequentare se non gli ultimi giorni i novendiali e respingendo ogni accenno o tentativo di candidatura.
“Io sono del popolo e sto dalla parte del popolo” assicurava il cardinale in privato, ricordando la sua origine: figlio di una portinaia di un palazzo del centro. E ai cardinali che, ubbidendo alle volontà di Pacelli gli chiedevano di rendersi “disponibile” per il papato, rispondeva di no, che lui, fra l’altro, aveva seri problemi di salute. Balle.
Alle 11 o poco dopo entrò nello studio don Settimio e gli comunicò la tremenda notizia.
Il cardinale scattò in piedi, poi vacillò portandosi le magre mani alla gola. “Gesù… Gesù proteggilo, povero don Miro… Punisci me… L’ho mandato io a morire così?”.
Il segretario lo vide piangere per la prima volta. Poi il cardinale si ricompose e decise che sarebbe andato subito a Roma, anche se non amava stare a lungo nella capitale e tanto più subito dopo il conclave, quando erano ancora vive le polemiche tra le fazioni che si erano formate nei segreti della Cappella Sistina.
“Gli hanno tagliato la testa?” ripeté a don Magioncalda ben sapendo quale era la tremenda risposta.
“Ahimé pare proprio così, Eminenza. Ora stanno attendendo il signor questore di Roma e faranno le prime indagini.”.
“Chi c’è a Santo Stefano in questo momento?”. “Le eminenze reverendissime Neumann e Rosas Burgos… poi la custode che ha trovato il corpo”.
“Facciamo un’intercomunale al cardinale Aloisi Masella per favore” domandò al suo segretario. “Poi al cardinale Marcotulli… Gesù perché l’ho mandato là a morire?”. E scese nella cappella a pregare.
Benedetto Aloisi Masella era stato eletto Camerlengo di Santa Romana Chiesa alla prima congregazione generale, all’indomani della morte del Papa e titolare della chiesa di Santa Maria in Vallicella. Al momento, dunque, era il numero due della Santa Sede, in attesa che il papa appena eletto facesse la nomina. Tutti sapevano che entro la fine dell’anno il posto più importante del governo d’Oltretevere sarebbe toccato a monsignor Paolo Masini e qualcuno lo invidiava. Si diceva anche che il giovane Binni sarebbe andato presto a guidare la Conferenza episcopale italiana, la potentissima Cei. La macchina decisionale dei vescovi.
Aloisi Masella ebbe la stessa reazione sgomenta dei suoi colleghi: “Flectamur facile, ne frangamur… fiat volutas Dei!”. Ma questo don Volpini non lo aveva mai conosciuto di persona. Solo di fama. Una cattiva fama, stando a quanto gli avevano raccontato il cardinale Rosas Burgos e il prefetto del Sant’Uffizio, il cardinale tarantino, Amerigo Cirrincione. Ne conosceva per sommi capi la vicenda, ma non ne aveva mai parlato con l’amico Binni sapendo che la punizione inflitta era stata una liberazione insieme a una sofferenza per il prelato genovese.
Ascoltò e raccomandò la massima discrezione e altrettanta massima disponibilità nei confronti delle autorità di polizia italiane.
“Bene avete fatto a chiedere l’appoggio del signor questore di Roma che so essere persona di buon senso. Informatemi di modo che io possa rendere edotto della tragica vicenda Sua Santità che ne sarà certamente scossa e pregherà per la misera anima del defunto…”.
Il guaio è che la misera anima al momento non possedeva più neanche la sua misera testa. E quando gli agenti aprirono con un trincetto il sacco di iuta che era stato trasportato alla luce, vicino alla porta di ingresso della basilica, ne uscì un piccolo corpo mutilato in più parti: non c’era la testa, ma i carnefici avevano tagliato a don Casimiro Volpini anche una mano, la sinistra e alla destra era stato mozzato il dito medio. Uno squarcio nel costato rivelava nello scempio delle carni e delle ossa, che era stato asportato anche il cuore.
I due cardinali, sconvolti, uscirono all’aria aperta, raggiunsero don Ciocci nella sagrestia di Santa Maria Domnica e sprofondati in due poltrone buttarono in gola d’un fiato due bicchierini di Fernet Branca.