I-2

2029 Parole
Mi salutò in un tremolio di voce, e io mi ritrovai fuori dall’alimentare a meditare che il signor Ilario, suo marito, era morto. Salii in macchina con la testa che ancora mi girava. Billy si inserì con un balzo tra il mio sedile e quello del passeggero. Lo salutai e lo accarezzai, con la mente altrove. La sua attenzione fu però subito rapita da quello strano oggetto circolare di colore viola che tenevo ancora in mano. Lo premetti e questo starnazzò come un’anatra, poi glielo lanciai sul sedile dietro. Billy gli si avventò contro. Misi in moto la macchina ma rimasi dov’ero. Quello è per il tuo bambino? No, no, è solo per il mio cane. Rimasi lì ancora qualche istante, a guardare Billy che rosicchiava quel nuovo passatempo, senza però realmente vederlo. Dopodiché misi in moto il motore e mi avviai verso casa. Non abitavo propriamente in paese, ma in una frazione vicina, la Moglia, un complesso di una decina di case per altrettanti abitanti. Da via Roma si svoltava bruscamente a sinistra e quindi si tirava dritti, con la strada che si impennava sempre più. Percorremmo circa un chilometro prima di giungere a un pianoro circondato da vigne e alberi da frutto e laggiù c’era casa mia. Era ribasso alla strada, sulla sinistra, e la si raggiungeva tramite una stretta stradina sterrata. “Eccoci arrivati,” dissi a voce alta e provai un’ondata di nostalgia. Questa volta veramente prorompente. Dovetti scendere a sciogliere una catena arrugginita che delimitava il passaggio, quindi guidai in prima il tratto in leggera discesa che conduceva alla casa. La vedevo, tra un mucchio di grossi alberi, spuntare con il suo muro di stucco bianco sporco, le persiane chiuse e il tetto di tegole schiarite dal sole. Il sentiero era accidentato e disseminato da buche e piccoli dossi. Mi fermai solo una volta per dare un’occhiata al mio vecchio stagno (buffo che ora lo definissi mio e non più nostro), una piccola pozza paludosa, ma che da bambino era perfetta per rinfrescarsi le gambe. Per il resto, il vecchio orto era sepolto sotto metri di erbacce, piante di ginepro e rampicanti. Riuscivo a malapena scorgere la fetta di terra che un tempo utilizzavamo come serra. Ripartii e poco dopo mi rifermai, questa volta perché eravamo arrivati. La mia vecchia casa d’infanzia. Sorgeva incassata e appoggiata contro un alto muro di roccia ora venato dalle crepe, a ridosso di alcuni alberi. La strada e le altre case stavano sopra, un po’ isolate dalla mia. Ero affezionato soprattutto all’immenso lauro che occupava per estensione metà cortile, coprendo d’ombra l’altra metà con i suoi lunghi rami. La casa era intonacata di bianco, su due piani, con porte e persiane pitturate di verde scuro. Da un ingresso sul retro si accedeva alla legnaia mentre poco più in là c’era il vecchio capanno degli attrezzi, una costruzione bassa e dal tetto piatto. Vi era annessa persino una latrina, usata da mio padre decenni prima alla mia nascita quando ancora non si possedeva il bagno in casa. Guardavo tutto con gli occhi attuali attraverso il ricordo degli anni passati e trascorsi in quel posto. Come se confrontassi due foto scattate nello stesso punto ma a decenni di distanza l’una dall’altra: il pollaio disposto in una nicchia naturale della roccia, il tavolo della cucina che mia madre in estate si faceva aiutare a trasportare in giardino per pranzare e cenare all’aria aperta. E che dire del profumo del pane caldo che ogni domenica i miei sfornavano dopo averlo impastato con le proprie mani? Sorridevo emozionato. Di quei ricordi resisteva più solo una panchina in legno, appoggiata contro il muro della casa e quasi totalmente mangiucchiata dai tarli. Mi ci sedetti sopra respirando l’aria di casa. Ero commosso. Felice. Ero tornato. Nell’ora successiva lasciai che Billy gironzolasse a piacimento nel cortile, mentre io passai a setaccio tutte le stanze, aprendo finestre e persiane e lasciando entrare aria nuova. Rimettere di nuovo piede in casa mi fece piovere contro una burrasca di ricordi, fortissimi e tutti insieme. Di tanto in tanto, mi affacciavo, chiamavo Billy ed ecco che nel giro di una manciata di secondo lo sentivo arrivare, rumoroso, fermarsi nel mezzo del giardino e guardarmi con la lingua penzoloni e il testone inclinato di lato. In cucina provai per prima cosa a verificare il funzionamento della vecchia televisione. Attaccai la spina del televisore nel buco della corrente e accesi. Le immagini del digitale arrivarono dopo un tempo lunghissimo. Ma la qualità era accettabile e il suono più che discreto. Diedi una spolverata sommaria alla stanza prima di uscire nell’aia. Il capanno degli attrezzi e la legnaia erano chiusi a chiave, ma mi riservai di entrarci solo nel pomeriggio. Giocai un po’ con Billy, sudando, sudando di nuovo come un bambino, poi pensai al pranzo. Prima di partire mi ero preparato in fretta e furia un paio di panini farciti, mentre per il mio cane avevo fatto scorta di sacchi di crocchette al supermercato. Portai tutto l’occorrente fuori e trascinai la panchina di legno sotto l’ombra del lauro. Chiamai Billy e mangiammo uno vicino all’altro, mentre rimiravo la mia casa a pochi metri di distanza. “Sei felice, Bill?” gli domandai senza staccare lo sguardo da davanti a me. Addentai il panino e presi fiato. “Io credo di esserlo. Sì, lo sono. Spero anche tu.” Guardandolo ripulire la ciotola pure lui mi sembrava felice. Credo che lo fosse davvero. E mi piace pensare che lo sia stato fino alla fine. Nonostante ciò che sarebbe accaduto dopo. La mia prima visita la ricevetti quello stesso pomeriggio, quando il sole aveva cominciato ad allungare la mia ombra sull’erba dell’aia. Dopo pranzo avevo indossato comodi pantaloncini corti e senza perdere tempo mi ero messo a cercare la chiave del capanno degli attrezzi. L’avevo trovata dopo una faticosa ricerca in un cassetto della cucina. Spinsi la porta di legno e varcai la soglia polverosa di terriccio e aria viziata. Era tutto come era stato lasciato anni addietro e la polvere ricopriva ogni superficie come uno strato di zucchero a velo marcio su una torta. Sacchi di concime, cavagne per la vendemmia, un tosaerba rotto, ceste di legna ormai ammuffita, preistoriche credenze e nell’angolo persino un vecchio motorino. Uscii in cortile ed entrai in casa, salendo al piano di sopra. Entrai nella camera che era stata mia e di mio fratello e rimasi immobile. A destra c’era il mio letto, sotto la finestra che dava sul cortile, a sinistra quello di Andrea. La tappezzeria era quella di sempre (a righe e fiorellini) e notavo degli spazi rettangolari più chiari rispetto al resto, dove erano stati affissi i nostri poster da ragazzi. Li avevano rimossi mamma e papà solo pochi anni prima. I miei li avevo ancora scolpiti nella memoria: Madonna, Michael Jackson, qualche famoso giocatore di calcio. Quelli di mio fratello invece li ignoravo del tutto. Caso del destino o no, di lui non avevo quasi più ricordi. Me ne rimanevano pochissimi, che conservavo gelosamente quasi fossi consapevole che prima o poi mi si sarebbero scivolati di dosso come tutti gli altri. Non so perché, davvero. Forse la nozione di morte agli occhi di un bambino di sette anni è ancora un concetto troppo forte e quasi infinito per comprenderla del tutto, e si finisce per dimenticare, per cancellare. Non lo so. So solo che da un giorno all’altro mi ritrovai a essere figlio unico, a giocare da solo, a confidarmi in me stesso, a chiudermi in me stesso. Se ne andò quando aveva quindici anni. Presto, troppo presto. All’improvviso. Il suo corpo fu trovato nel bosco, in una notte di estate del 1982, dopo essere uscito con i suoi amici. Non sapevo di più, i miei non avevano voluto dirmi altro. Come spiegare d’altronde a un bambino di sette anni che da domani tu sarai l’unico nostro figlio? Non si può, non è possibile. Ricordo che quel giorno, mentre guardavo la nostra vecchia cameretta, gli spazi vuoti dei poster sul muro, i due letti e tutto il resto, il quel momento Andrea mi mancò come non mai. Sentii una sensazione di bagnato alla mano, poi un uggiolio alla mia sinistra. Aprii gli occhi e guardavo da coricato il soffitto della mia camera. Mi ero addormentato sul letto. Girai la testa di lato e il musetto di Billy fece irruzione davanti ai miei occhi. Mi stava leccando il dorso della mano sinistra che penzolava come inerme dal letto. Da quanto mi ero addormentato? Mi sedetti e tirai un lungo sbadiglio. “Lo sai che è maleducazione svegliare chi dorme?” Gli scrollai il musone tra le mani e lui scodinzolò soddisfatto. Scendevamo da basso quando sentimmo il rumore di una macchina che si avvicinava. Non feci in tempo ad allungare la mano per afferrargli il collarino che Billy era già sfrecciato fuori, latrando. Lo inseguii correndo giù dalle scale. La macchina, un vecchio modello di Golf parcheggiò di fianco alla mia. Riconobbi chi era solo quando, dopo essere sceso dalla macchina e aver fatto qualche passo esitante verso di me, si passò una mano tra i folti capelli castani. Allora capii. Quel gesto era inequivocabile. Acchiappai Billy per il collare, che continuava ad abbaiare ma senza avvicinarsi allo sconosciuto, e riuscii a infilargli il guinzaglio. Ho detto sconosciuto, ma mi devo correggere. Davanti a me c’era il mio vecchio migliore amico. Stefano Bennati. Quante ne avevamo passate insieme. Ci abbracciammo come un tempo, forse inizialmente trattenuti da un reciproco imbarazzo, ma poi tutto scivolò via, spontaneamente. Perché è così che funziona e deve andare; amici lo si è per sempre. Ci sedemmo intorno al tavolo e Billy, dopo un attimo di diffidenza, si accostò a Steve (dovete sapere che ci chiamavamo tutti con abbreviativi inglesi noi ragazzi orsaresi della mia leva), e prese ad annusargli ogni centimetro di jeans, poi si accovacciò sotto il tavolo e continuò a osservarlo attentamente, incuriosito e come se non avesse mai visto prima un altro essere umano. Servii al mio ospite il poco che il mio frigo offriva, cioè le birre che avevo comprato in paese quel mattino. Brindammo alla nostra salute e dopo i soliti convenevoli su lavoro, sport e soldi, gli domandai come faceva a sapere così presto che ero tornato. In risposta ebbi una strizzata d’occhi. “Edda, chi sennò?” “Già, dovevo immaginarlo… A proposito, oggi ho saputo di suo marito. Che peccato. Com’è successo?” “Sarà stato due anni fa, all’incirca. Un colpo inaspettato: ictus e addio. Ha sconvolto il paese. Ma la conosci anche tu, Edda. È una donna forte. Il giorno dopo il funerale era di nuovo dietro al bancone, come nulla fosse. Ma Dio solo sa quanto deve aver sofferto.” Annuii abbassando lo sguardo e per un attimo pensai a mamma e papà. Anche loro non c’erano più. Forse ora sono davvero con Ilario, da qualche parte, lassù. “Riguardo a prima,” riattaccò Stefano cambiando discorso, “ho fatto un salto a prendere il pane, verso mezzogiorno, e non ero neanche entrato che già mi chiedeva se sapevo. ‘Sapere cosa?’, le ho chiesto e lei in dialetto mi ha urlato: ‘Del tuo amico, no, plandron!’” Ridacchiammo e Steve si portò la birra alle labbra e ne trangugiò un buon quarto. Era alto una buona spanna più di me (non che ci volesse molto, io non arrivavo al metro e ottanta nemmeno con scarponi coi tacchi) e portava come sempre folti capelli castani, molto spesso scarmigliati, il più delle volte aggiustati con un solo colpo di pettine. Il viso era contrappuntato da grappoli di efelidi, una caratteristica che, avevo scoperto sorprendendomi, attirava non poco le donne. Si era molto sviluppato dall’ultima volta che ci eravamo visti, ingrossandosi soprattutto nella parte superiore del tronco. Lo deducevo per via del lavoro che svolgeva da quando aveva preso il diploma superiore, ovvero come falegname nell’impresa di famiglia. Con lui avevo vissuto e condiviso gli anni delle elementari e delle medie e lo avevo da sempre considerato il mio più stretto amico. Provai una piccola fitta di nostalgia al pensiero di tutti quegli anni trascorsi da un’altra parte.
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