“Suona molto bene,” risponde divertito Diego di fronte alla solita insolenza della figlia.
“Suonerebbe bene anche senza quella divisa ridicola da artista anarchico o, se non parlasse per citazioni letterarie,” risponde Lola porgendo al padre la bottiglia di rum.
“Che cosa vuole Paul, lo yankee?” È curioso, fa parte del suo carattere, anche se non vuole darlo a vedere.
“Vuole a tutti i costi comprare Tierra de mi alma. Quel quadro non lo vendo. Anche se mi vuole dare tutti quei soldi, non lo vendo, me ne fotto!” dice col fuoco nello sguardo. Poi: “Dimmelo, pa’, citami Shakespeare, ti prego!” Gli mette le braccia al collo e fa la voce da bambina.
Diego le chiude gli occhi con la mano, come quando era piccola e le sussurra in un orecchio: “Amore non è amore che muta quando scopre i mutamenti o a separarsi incline quando altri si separano. Oh no! È un faro irremovibile che mira la tempesta e mai ne viene scosso…” recita a memoria, poi la bacia sulla fronte. “Siediti con me sul divano, ho scovato la prima versione in vinile di Gracias a la vida, è del Sessantacinque. La ascoltiamo insieme e ci beviamo ancora un poco di rum?”
Il suo sguardo consumato e stanco si posa su quella giovane donna che nella vita ha visto troppi orrori, eppure impersona come nessun altro la gioia di vivere.
La voce delicata e graffiata di Violeta Parra si libera nella stanza e tutto prenda forma: i quadri, le foto di sua madre, i disegni, la città che si affaccia dalla finestra, tutto vive.
Gracias a la vida que me ha dado tanto, me dio el corazón que agita su marco cuando miro el fruto del cerebro humano, cuando miro el bueno tan lejos del malo...
Lola respira l’anima dei versi che le cantava sempre sua madre. Gli occhi si fanno lucidi, stringe le mani di Diego, poi canta con tutta la voce che ha. La canzone entra lentamente in circolo, prima risveglia immagini del passato molto facili da sollevare, poi tocca le corde della nostalgia e infine filtra nel presente, lo illumina, lo irrora di nuova passione, di altri colori.
Certe canzoni hanno questo potere!
Quando non dipinge o insegna disegno in una scuola di periferia, Lola aiuta il padre al piccolo ristorante nelle Ramblas dels Flors.
In questa zona si concentra lo spirito della città, una marea di turisti e popolani attraversano continuamente quei celebri viali dove ogni giorno si svolge qualche mercato, da quello dei fiori a quello dei quadri. Ristoranti, caffè con i tavolini all’aperto (troppi!), alberghi costosi e locande da quattro soldi, locali notturni e tablao flamenco di dubbia originalità, sono disseminati in ogni angolo.
Il ristorante dei Suárez si chiama Volver, come il titolo del famoso tango del cantante argentino Carlos Gardel.
Diego ricorda che, quando abitava a Buenos Aires, un cantore lunfardo, (lingua degli immigrati parlata dagli abitanti di Buenos Aires che univa dialetti e idiomi da tutta Europa, specialmente dall’Italia, e veniva utilizzato nei testi del tango) basso e con gli occhi sporgenti, si esibiva tutte le sere all’angolo del quartiere La Boca cantando strazianti milonghe in re minore. Non si capiva se cantasse per se stesso o per la gente, ma ognuno faceva sue quelle parole. La voce potente si levava tra i vicoli stretti e umidi illuminati d’argento, tra le case basse e colorate del porto, tra i lampioni che spargevano una luce tenue e tremolante. In quell’angolo miserevole della città, tutte le sere si ballava, anzi, si viveva il tango.
Il Volver apre per gli aperitivi e chiude a notte tarda. Le pareti sono di mattoni rossi a vista, un balcone interno dà l’idea di trovarsi in un cortile di qualche angolo di Buenos Aires e le note del tango raggiungono la strada. Di giorno è un punto di ristoro per i turisti e i clienti affezionati, la sera è un viavai di incredibili ‘personaggi’: dall’uomo in carriera, al playboy ormai coi capelli bianchi e la pancetta, al viaggiatore del tipo hovistocose.
Qui si parla di poesia, si discute alzandosi in piedi – la voce sale – si brinda, si canta, si citano i versi di Federico García Lorca e del grande maestro Neruda. C’è sempre qualcuno che ha conosciuto il vecchio giardiniere, l’idraulico o il sarto del poeta e racconta storie al limite della realtà. Dopo qualche bicchiere di troppo si passa a sparlare degli abitanti del quartiere, si continua con la politica e, alla fine della serata, Lola abbraccia la fisarmonica e suona con gli occhi chiusi lasciando che tutti cantino fino a quando Diego non li sbatte fuori uno per uno, ormai ubriachi.
Quel giovedì sera c’è poca gente al Volver, forse per il tempo così uggioso che non invoglia a uscire da casa, forse in autunno i colori sono più sbiaditi e così pure l’umore delle persone.
Fregandosene della pioggia, Ernesto arriva in bicicletta, la lega a un palo con la catena (è la terza che gli rubano in una stagione) e corre a grandi balzi verso l’entrata del locale per evitare le pozzanghere.
“Ciao Diego,” dice chiudendosi la porta alle spalle.
“Ernesto, che fine hai fatto? Non ti si vede da settimane.” Diego è sempre felice di vederlo, porta una bella energia con quel sorriso aperto al mondo e lo sguardo beffardo.
“Ho terminato una scultura e, non ci crederai, ma c’è un pazzo che la vuole acquistare.” Si toglie il basco bagnato di pioggia, si sistema i capelli umidi e si siede su un tavolo.
Diego ride e gli versa un po’ di Jerez, il suo vino preferito, vuol bene a quel ragazzo.
“Lola invece si è messa in testa che parteciperà alla mostra di Valencia, quella in sostegno del popolo del Tibet, ha disertato Parigi per esserci,” dice Diego passando lo strofinaccio sul bancone.
“Che ti aspettavi? Che mettesse le sue opere insieme a quelle stronzate sul sensismo policromatico? Così l’hanno chiamata, quella mostra di tele imbrattate: sensismo policromatico. La mia Lola non c’entra con quelli, non appartiene a quell’astrattismo da esaltati. Quella è merda!” Parla con nervosismo stringendo le mascelle squadrate, ha uno sguardo di brace luminoso e intenso.
“L’ho già sentita questa frase,” dice Diego con ironia.
“Dov’è?” La sta già abbracciando.
“È su che ti aspetta. Oggi sente il tempo, ti avverto.”
Ridono con complicità. Ernesto ha la barba di qualche giorno e quando ride le labbra fini e screpolate scoprono denti bianchissimi.
Sale di corsa la scala a chiocciola.
“Allora?” Lola lo blocca subito con uno sguardo che punge e la voce un po’ roca. Ha un gonnellone blu di stoffa leggera e scarponi con la suola di gomma pesante.
“Sono sulle sue tracce, sembra che abiti a Buenos Aires, ma mancano ancora troppi tasselli per dire che Julio sia tuo fratello,” dice fingendo tranquillità.
“Non è possibile Ernesto! Sono mesi che vanno avanti con le indagini,” dice con le mani sui fianchi, poi si volta di scatto: la lunga gonna ondeggia, ha la testa alta e lo sguardo fiero, il seno morbido sobbalza nella profonda scollatura, sembra una popolana di inizio secolo.
“Abbassa la voce, vuoi che tuo padre ci senta? Lascia che Luis Ferreira faccia il suo lavoro, vedrai che presto sapremo se si tratta di tuo fratello. Hai aspettato così tanti anni, pazienta ancora un po’, amore. Sono in contatto continuo con il cejil,1 con l’associazione delle madri di Plaza de Mayo e poi Luis ha scomodato la Curia di Buenos Aires!”
1 Centro para la Justicia y el Derecho International.
“Sono proprio loro ad aver fatto sparire il mio Julio!” dice Lola portandosi i capelli dietro le orecchie. “Domani chiamo Ferreira e, se non mi fornisce delle risposte, gli tolgo l’incarico, cazzo!”
Si chiudono nel silenzio, per disfarsi di tutte le parole che vorrebbero solo uscire, o forse perché non ci sono più parole da dire.
L’abbraccio in cui si stringono è ingordo, si rifugia sotto la pelle e li invade. È il corpo a parlare, sono gli occhi chiusi di Lola e il battito del cuore di Ernesto a esprimersi.
Ernesto affonda il viso tra i capelli di lei, respira il profumo di ambra, le sfiora il viso con le dita, disegna il contorno del suo volto da india e si ferma sulla bocca socchiusa, morde quelle labbra carnose, le assaggia lentamente mentre i sensi si sciolgono in bocca e scendono a piccoli sorsi.
II
Lola e Ernesto
Ernesto e Lola si conoscono alla Escuela de Arte de Barcelona e insieme proseguono la specializzazione di disegno e pittura dal vero al laboratorio Fine Art Boter Santaló.
Impossibile non innamorarsi perdutamente l’uno dell’altra: poco più che ventenni sono due cavalli che scalciano senza briglie, affascinanti, ribelli, ingordi di vita. È bello guardarli insieme mentre si lanciano sguardi d’intesa e di passione, tra impeto e leggerezza; la loro allegria è contagiosa, usano lo stesso umorismo, la solita ironia brutale. Impossibile riuscire a immaginare Lola senza Ernesto, né Ernesto senza Lola!
Dopo un anno di quel tango, Ernesto abbandona l’Accademia per specializzarsi in arte contemporanea presso la scuola di arti visive Final Cut Pro di New York. Insieme ad alcuni compagni espone le sue sculture nella suggestiva cornice del Botanical Garden di New York.
Tra tutti i visitatori, Lola è sicuramente la più emozionata. Soggiorna per breve tempo a New York col fidanzato nel tentativo di affascinare il mercato americano con le sue opere e la sua creatività, ma non ha successo.
Torna in Spagna senza aver venduto una tela, si porta dietro un’opinione di sdegno verso la critica e il pubblico americano alla ricerca di continuo stupore e innovazione verso un’arte fatta di eccessi ed esuberanze, senza radici. Il suo attacco nei confronti degli American Abstract Artists fu motivo di scontro con Ernesto, il giorno in cui le fece notare quanto anche alcuni suoi stessi quadri contenessero una semplificazione delle forme e una carica di suggestione irrazionale, proprio come il gruppo di pittori newyorkesi.
Lola si era infuriata, rifiutava ogni etichetta di stile.
Trascorrono molti anni prima che Lola ed Ernesto si incontrino nuovamente. L’occasione è il compleanno di Paul McBride: lo yankee.
McBride è un famoso agente d’arte, oggi proprietario di una catena di gallerie sparse in tutto il mondo. Di statura media e fisico robusto, l’uomo ostenta una sicurezza boriosa che sfocia nell’arroganza. Ha un viso rotondo e occhi azzurri sempre in movimento. Baffi fini e ben curati; folti riccioli bianchi e la pelle abbronzata da continue lampade completano la sua figura eccentrica.
È in gamba, McBride, un ottimo professionista del settore, sa bene che il mercato dell’arte in questo secolo è legato soprattutto al collezionismo. Lo yankee è una personalità conosciuta alle note fiere di Colonia, Basilea, Parigi e ha sempre dimostrato di essere un innovatore sul piano di scelte artistiche e strategie commerciali. Scopre talenti e tendenze in anticipo sulle richieste di mercato, come quando aveva previsto che i quadri di un eccentrico pittore belga, morto di overdose, sarebbero saliti di quotazione, o quando seppe ‘convincere’ il più celebre critico letterario, Alexander Steiner, a recensire alcune opere di un artista emergente che presto sarebbe diventato noto nell’ambiente dell’arte povera.
L’agente dice di credere molto nel talento di Lola e di volerla lanciare nell’ambiente dei pittori quotati. In realtà non gliene frega niente dei soggetti che la donna dipinge, non bada troppo al loro significato, è il ‘prodotto’ Lola Suárez a interessargli. Quella femmina avrebbe affascinato più della sua arte: la passionalità, l’impeto, il fuego dell’Argentina sarebbero arrivati dritti alla gente. Per McBride vince il personaggio, e Lola ed Ernesto sono due personaggi su cui puntare alto.
Ernesto è un discreto scultore e un esteta eccezionale, capace di sottile sensualismo e raffinato gusto. Utilizza per lo più il marmo, anche se le sue ultime creazioni consistono in una serie di statuette lignee raffiguranti i sette vizi capitali. Lola è letteralmente impazzita quando le ha viste e le è dispiaciuto saperle vendute a una galleria di Milano senza l’opportunità di poterle guardare ogni tanto.