Lola_Suarez_E-BOOK-4

2007 Parole
Il volto dell’attrice si modella nel dolore e nella gioia come una maschera di cera. Ha occhi felini, capelli nerissimi e enormi tette strizzate in una maglia gialla attillata. Parla con una mano sul ventre, lo sguardo penetra ciascuno dei presenti, come se recitasse per ognuno di loro singolarmente. La sua voce tuona alta, poi si abbassa in un sussurro, si schiaccia in una risata e finisce in un canto appena accennato. Il monologo termina con una battuta sarcastica, amaramente comica, che porta a riflettere sul rapporto tra la donna e la famiglia; tutti ridono, alcuni bevono l’ultimo sorso e posano i bicchieri per terra, altri si accendono un’altra sigaretta, Lola, invece, piange. Le lacrime scendono e bruciano, gli occhi sono fissi sull’attrice ma non la guardano, rincorrono le scene che Camille sta narrando e vanno al ricordo di Matilde. Ernesto le tiene la mano e la porta alle labbra. Quanto ama la sua Lola! La sua donna fiera e forte, adesso, è uno scricciolo che gli si stringe addosso. Vorrebbe chiuderla nel suo petto, tirare fuori un sorriso da quel viso così teso, asciugare quegli occhioni imploranti, vorrebbe oscurare tutte le immagini più brutte del passato, lavarne via la sofferenza, soffocarne gli incubi. L’assaggio dello spettacolo finisce tra gli applausi e le grida di approvazione. Lola guarda il suo uomo, ne fissa il volto con intensità, gli sfiora le labbra con le dita, prende il suo viso tra le mani e riversa la sua vita in quel bacio. Stringe Ernesto come se volesse contenerlo tutto, gli aderisce addosso perché possa sentire le forme del suo corpo, poi si alza per versarsi ancora da bere. Sceglie la musica giusta che tolga di dosso quell’inquietudine soffocante. Le note del Bolero di Ravél irrompono nella sala come un temporale e Lola inizia a ballare; è scalza, scosta la lunga gonna gitana che le impedisce i movimenti e lascia intravedere le gambe nervose e abbronzate, fissa Ernesto negli occhi, butta indietro la testa e i lunghi capelli e danza, danza per lui. Qualcuno fuma vicino alla finestra, altri amoreggiano sul divano, Jorge disegna una bozza che ritrae l’argentina mentre balla, Francisco sniffa una pista di coca che scintilla sul tavolo di vetro, Maria gli va dietro. Alla fine della serata, la padrona di casa improvvisa al pianoforte Arabesque di Schumann. Lola, stremata dalla danza, si butta per terra con le gambe incrociate e si solleva i capelli con una mano, continua a fissare le mani di Sandra che scivolano, fremono, si irrigidiscono, per poi tornare carezzevoli sulla tastiera. Quando tutta quella gente se ne va, l’appartamento sembra enorme, le vetrate e tutto quel bianco fanno sembrare immensi gli spazi. Dalla strada giungono le voci di un gruppo di giovani usciti dall’ultimo bar, discutono e gesticolano, qualcuno ride, una coppia corre verso la macchina per la fretta di amarsi subito, un ubriaco prosegue a zig zag sulla sua bicicletta. “Ernesto va con gli altri a un concerto jazz in un locale a La Ribera. Ci vai anche tu?” chiede la padrona di casa mentre si accende una sigaretta senza guardarla. Sandra Cardillo è una splendida donna che ha superato la quarantina: ha occhi neri con ciglia lunghissime, un impeccabile caschetto biondo e mani ben curate. Indossa i jeans e una camicia di lino bianca come farebbe una ragazzina ma con l’eleganza di una signora di classe. “No, sono molto stanca e poi non voglio aggiungere altro a questa serata perfetta,” dice Lola col suo solito sorriso e lo sguardo assorto sulla città. “Vuoi dormire qui?” le chiede Sandra osservando il panorama dalla finestra. “Volentieri, grazie!” risponde lei, felice come una bambina a cui la mamma ha dato il permesso di fermarsi a dormire dall’amichetta. È una notte blu cobalto. Lola fonde il suo sguardo sulla città che a quell’ora è un brulichio di luci. La luna lascia un barlume acceso per accompagnare il sonno e si posa come un lenzuolo sui tetti; sulle guglie gotiche dei palazzi; sulle sue linee barocche; sulle piazze da dove arriva il rumore sommesso dell’acqua delle fontane; sull’architettura moderna carica di colore; sul porto che dondola i velieri e le barche dei pescherecci. La statua di Cristoforo Colombo dai suoi sessanta metri di altezza osserva tutto come una silenziosa sentinella. Barcellona ha smesso di agitarsi e sedurre, chiude gli occhi e si addormenta. La grande onda del giorno, gonfiata da un incessante movimento di cose e persone, ha formato un’orma profonda che la notte assorbirà. La mattina seguente Lola si alza per farsi un caffè, cammina scalza, apre la finestra ma la invade il rumore del traffico come uno schiaffo, la richiude e mette su un cd di musica classica a tutto volume. Si stiracchia come una gatta, ha i capelli arruffati e gli occhi ancora pieni di sogno. Quando si sente finalmente sveglia nota la presenza di Pablo, un pittore amico di Ernesto. L’artista sta ritraendo una modella completamente nuda sul divano. La giovane, magrissima e pallida, fissa un orizzonte immaginario con sguardo perso; mostra seni acerbi e gambe da gazzella. I rossi capelli cotonati e la pelle di perla impressionano Lola, sembra una bambola di porcellana. “Sandra è uscita?” chiede Lola dopo un lungo sbadiglio. “Sì, doveva vedersi con un collezionista, tornerà stasera,” risponde l’uomo mentre con il carboncino termina di disegnare le braccia. “Ha detto di fermarti quanto vuoi.” Ha lo sguardo posseduto mentre traccia linee dense di nero. “Grazie, ma scappo, il tempo di un caffè e vado da Ernesto, stasera c’è l’inaugurazione della mostra e devo definire gli ultimi dettagli, cose tipo la stampa, il buffet…” Pablo ha forti tic nervosi e si gratta continuamente la testa. Lola nota le strisce di coca sul tavolo e la bottiglia di vino ormai svuotata. “Stavo per proporti dei biscotti al cioccolato, ma temo di rovinare il tuo rito dello ‘sballo artistico’ e poi non so se il frollino si abbina bene agli stupefacenti,” sogghigna Lola. Pablo non coglie l’ironia e anzi la fissa con una certa eccitazione. “Ti dona quella canottiera extra-large,” dice posando il gessetto. Il pittore cocainomane indossa una maglia dai mille colori e un paio di buffi calzoni blu che gli arrivano fino ai polpacci scarni e pieni di tatuaggi. “L’ho trovata in uno dei cassetti, deve essere di un uomo. Se mi guardi così sbagli il ritratto e le fai le tette grandi, e poi… cosa fai? Ci provi con la donna del tuo amico?” “Mai,” mente spudoratamente e la spoglia con occhi avidi. “Vi preparo un caffè e poi me ne vado. Meglio fare sparire quelle strisce, non voglio casini per Sandra.” Un’ala del Centro di Cultura Contemporanea è stata preparata per ospitare Mi Argentina. La Barcellona che conta è tutta lì: i critici, la stampa, gli intellettuali noti e quelli improvvisati, gli attori di teatro e qualche volto della televisione e del cinema d’autore. Lola sorride ma dentro si agita l’emozione, ha lo sguardo attento a tutto e i movimenti un po’ irrigiditi. Si comporta come una perfetta padrona di casa, accoglie gli ospiti con grazia e cortesia, li accompagna da Ernesto e si mette in ombra. La camicia con il lungo colletto inamidato è insopportabile, ma, nonostante il disagio, Ernesto è disinvolto, gesticola animatamente e alza la voce quando va incontro ai vecchi amici dell’Accademia. Sfoggia con soddisfazione la sua chioma castana scomposta sulle spalle e il viso rasato e abbronzato. Gli occhi scuri marcati da folti sopraccigli sono umidi di emozione. Fuma nervosamente mentre parla con Paul McBride. Appena riesce a superare quell’ingorgo di persone, raggiunge Lola, le cinge la vita e la trascina in un angolo per parlarle. “Amore, non voglio che tu veda il film,” dice marcando quel voglio. “Non dire cazzate, Ernesto.” E gli sistema i capelli. “Avevo sei anni quando sono venuta via dall’Argentina, di mia madre ho vaghi ricordi e Diego è stato talmente bravo a preservarmi da… da tutto questo,” ribatte mostrando le gigantografie sull’Argentina al tempo del golpe affisse all’ingresso principale. Mente, conosce perfettamente l’effetto devastante che le farà quel film. Quella parata di intellettuali pronti a rilasciare interviste sul loro impegno politico e sociale per farsi pubblicità, la fa sorridere. Li osserva divertita dall’angolo del buffet allestito nella sala adiacente all’entrata. Sorseggia un bicchiere di vino bianco che doveva essere offerto solo al termine dell’evento e prende una tartina sotto lo sguardo contrariato del cameriere. Ernesto la guarda con orgoglio in tutta la sua selvaggia bellezza. Lola indossa dei pantaloni neri scampanati e una camicia bianca di sangallo a maniche ampie con intriganti laccetti. Il trucco è quasi inesistente, tranne per le labbra rosso fuoco. I capelli sono raccolti in uno chignon su cui è puntata una rosa rossa. Si muove con la sua grazia vivace lasciando una scia di profumo d’ambra. Diego arriva mentre parte la proiezione. È stato indeciso fino all’ultimo se essere presente oppure evitare. Affrontare l’incubo che continua a sbranarlo è atroce, ma sarebbe impensabile non essere lì, con la sua gente, vicino a Lola che diventa ogni giorno di più Matilde. III Desaparecidos Nunca Mas ripercorre l’ultima parte della storia argentina sfociata nel crudele e immondo genocidio che ebbe inizio il 24 marzo 1976. Quel giorno furono sospesi i poteri politici, sparirono i sindacati e il governo passò in mano ai militari, i quali fecero sapere che si trattava di una situazione transitoria e che, una volta restaurato l’ordine dopo gli eccessi di pensieri e azioni libertine contro il governo, tutto sarebbe tornato come prima. Non ci furono spari, non vi furono morti né rappresaglie armate, solo il potere della giunta militare che imponeva autorità, terrore e assolutismo. I ribelli sarebbero stati caricati su mezzi senza targa da squadriglie non identificate e fatti sparire. Il film-documentario inizia proprio con l’immagine delle donne di Plaza de Mayo che marciano sulle strade di Buenos Aires fino al Palazzo Presidenziale: è il 1977. Le donne, custodi della memoria di quegli anni, affrontarono la giunta militare con una marcia silenziosa intorno al monumento della piazza, sventolando con rabbia un foulard bianco con sopra scritto il nome del figlio scomparso. Matilde Gonzáles le accompagna nella marcia, è al quinto mese di gravidanza, aspetta il suo secondo figlio. Lola si sforza di non entrare in quelle immagini taglienti che le avrebbero sfregiato l’anima. Fissa con occhi immobili lo schermo, ogni muscolo del suo corpo è contratto e a tratti le manca l’aria, stringe forte la mano di suo padre, ma non ha il coraggio di guardare la sua espressione di pietra. Le immagini che ritraggono l’Argentina di quegli anni sono in bianco e nero, il volto dei Perón riempie lo schermo, ma sono i primi piani del popolo a fare rabbrividire, sono la dignità, la fierezza, la forza di quelle facce a commuovere. La musica aumenta e non è uno scontato Don’t cry for me Argentina che si espande, ma le note di vecchi bandoneón che vibrano di vita e di morte. Inizia a narrare la voce fuori campo del documentario: Queste pagine della storia argentina hanno inizio col governo di Juan Domingo Perón. Ex ministro del lavoro nella Junta militare che, già nel 1943, aveva preso il potere con un colpo di Stato. Perón mirava al consenso della gente e di quei lavoratori che, senza rappresentanze sindacali, aspettavano qualcuno che si occupasse di loro. Carismatico e egocentrico amava la folla e, dopo l’insuccesso del generale Justo che lo aveva preceduto, per ottenere appieno il rispetto del popolo, appoggiò i sindacati, limitò il potere imprenditoriale e fece una serie di importanti riforme entrando, però, in conflitto col governo. Le condizioni della classe operaia e bracciantile argentina furono da lui rivoluzionate, ma lo Stato cominciava a temere la popolarità di Perón, che nel frattempo era diventato vicepresidente della Repubblica, Ministro della Difesa, Segretario del Lavoro e mostrava idee troppo socialiste. Nell’ottobre del 1945 venne così arrestato.
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