IV - Fine e inizio

3263 Parole
IV - Fine e inizio Accartocciato sul banco, Luca cercava di rispondere alle ultime domande del foglio con la forza della disperazione, guardando il sole fuori dalla finestra come un carcerato che sogna la libertà. L’orario scolastico era stato faticoso tutto l’anno, con le materie più pesanti concentrate negli ultimi giorni della settimana, ma piazzare il test per la terza prova di maturità un sabato mattina di metà maggio gli era parsa davvero una violazione dei diritti umani. Quando finalmente, anche quel giorno, suonò la campanella dell’ultima ora, lui e i suoi compagni si riversarono in strada come reduci. Luca, soprattutto, cominciava ad accusare la fatica: partite, allenamenti, compiti e interrogazioni erano diventati il suo pane quotidiano, e aveva l’impressione di non riuscire mai a riposarsi. Rientrato a casa, mangiò voracemente scambiando poche parole affamate con la sua famiglia, si alzò da tavola con la fretta tipica delle ultime due settimane, accese il computer e cercò per l’ennesima volta su f*******:: Alice Era tutto quel che sapeva di lei ed era diventata la sua ossessione: aveva scorso tutte le ragazze uscite dalla casella di ricerca sperando di riconoscerla, senza trovarla. Possibile che non avesse un profilo f*******:? Niente... Sconfortato, si buttò sul letto senza puntare la sveglia, desiderando solo di rimanerci il più a lungo possibile. Normalmente, ci pensava a svegliarlo suo fratello minore, il quale aveva arbitrariamente deciso che il sabato pomeriggio – se Luca non aveva le partite alla sera – era il momento per giocare assieme alla Playstation. Si chiamava Thomas, perché ai loro genitori piacevano i nomi brevi, difficili da accorciare. Erano convinti che chiamarli col loro vero nome fosse un modo di averli presente sempre tutti interi, con le sfumature, senza riduzioni. Luca si arrabbiava quando veniva svegliato, ma non si sottraeva mai alla sfida e, a diciotto anni suonati, non si vergognava di ingaggiare battaglie memorabili contro il suo fratellino, che ne aveva solo dieci. Ogni tanto capitava che rimanevano in casa da soli, allora Thomas insisteva per giocare ad Assassin’s Creed, uno dei giochi che a lui erano proibiti. Le prime volte nemmeno Luca aveva voluto che suo fratello imparasse quel gioco sanguinoso e violento. Dopo poche resistenze, però, si era lasciato convincere, divenendo presto, come in molte altre occasioni, anche amico e complice. Fu così che stabilirono un rituale tutto loro, dove lui tornava bambino e suo fratello sentiva di avere un grande alleato: si trattava delle prime tre regole del Credo degli Assassini, da recitare come una formula magica. Thomas incominciava dicendo: “Primo credo: trattenere la lama dalla carne degli innocenti.” “Agire sempre con discrezione” rispondeva Luca. “Non compromettere mai la fraternità.” Da quando avevano comprato il gioco, era diventato una specie di codice d’onore fra loro due. Prima di mettersi a giocare, era Luca a dare il via all’ultimo passaggio: “Noi siamo tutti libri contenenti migliaia di pagine” diceva. “E in ciascuna di esse giace un’irreparabile verità” doveva rispondere Thomas, secondo quanto recita una delle frasi dell’Animus, l’oggetto misterioso che caratterizzava l’ambientazione del gioco. A quel punto il divertimento non doveva avere più fine. Nonostante il gusto di giocare ad Assassin’s Creed di nascosto, però, il loro gioco preferito rimaneva Madden NFL 2010, perché era quello dove si potevano sfidare a football. Giocavano anche durante la settimana, e i genitori non mancavano di fare da spettatori e tifosi. Era la sera il teatro degli scontri più memorabili, prima di cena o anche dopo, quando Luca non aveva allenamento. Poiché lui era bravo sul campo, ma molto meno alla Play, capitava spesso che perdesse clamorosamente. Nell’ultimo match era stato sconfitto 35-7, e Thomas era profondamente orgoglioso di poter dire che lui era più forte di suo fratello a giocare a football. Quel sabato pomeriggio, tuttavia, Luca dormiva beato. In casa regnava il silenzio, perché il resto della famiglia era in parrocchia per un pomeriggio in preparazione alla Cresima di Thomas. Qualcosa però lo richiamò improvvisamente da un sonno profondissimo e, quando finalmente capì di cosa si trattasse, la suoneria dell’iPhone si interruppe bruscamente, facendo ripiombare la camera nel silenzio e nella semioscurità. Con uno sforzo enorme si allungò per vedere chi l’avesse chiamato. Cacchio, Mike, avevo detto che chiamavo io! Piazzò il telefono sotto il cuscino e provò a dormire un altro po’… Niente da fare… La sua volontà si ribellava ad alzarsi, ma il suo corpo si stava inesorabilmente destando, tuttavia lottò vari minuti contro se stesso per decidere di attivarsi e, quando finalmente riuscì a tirarsi su dal letto, erano le cinque del pomeriggio. Fece un rapido calcolo su quello che avrebbe dovuto fare: correre il solito, farsi la doccia e prepararsi per la serata. Non c’era fretta. Prese l’iPhone e chiamò Mike. “Ciao, prima stavo dormendo. Ti avevo detto che ti avrei chiamato io, no?! (…) Sì mi hai svegliato. (…) Comunque è confermato: il Girdo c’è. (…) Possiamo andare in macchina, tanto non dobbiamo bere. Parcheggiamo al Piazzale Est della stazione. Lì si trova. Poi andiamo a piedi. (…) Tu passi a prendere il Girdo, io mi accordo con Sugo e Rusti. (…) Ok. All’Hobby One alle dieci. Ci aspettiamo fuori. Ciao.” Organizzazione perfetta. Visto che il giorno dopo avrebbe dovuto giocare e mancava meno di un mese alla fine della scuola, sarebbe riuscito a studiare almeno un’ora, il che non era male. Avrebbe preferito trovarsi da solo davanti a una difesa schierata, piuttosto che pensare all’esame di maturità, ma ormai non si poteva più fingere che fosse ancora lontano. Andò in cucina e preparò un caffè. Mentre lo sorseggiava, ebbe il tempo di leggere un paio di poesie di Hikmet. Tornato in camera, sedette sul letto a gambe incrociate e piegò il busto in avanti per stirarsi la schiena. Prese il libro che poggiava sul comodino e scorse un salmo, a caso. Sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere.2 I nemici erano dappertutto, nei salmi, come gli avversari schierati prima di un’azione d’attacco. Una frazione di secondo, palla in mano, per decidere quale traiettoria seguire, come liberarsi dai difensori. Lui è più veloce, più agile, più reattivo… Sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere. Non avendo a portata di mano un evidenziatore, mise il segnalibro a quella pagina e lasciò il libro sul letto. Me lo devo ricordare. Si alzò in un balzo, indossò un paio di pantaloncini e una maglietta qualunque e uscì a correre. Il sole e l’aria fresca lo aiutarono a riprendere contatto col mondo. Quando ti chiudi in camera al buio in una giornata di primavera, rischi di dimenticare che fuori la vita continua e ti aspetta. Corse in mezzo a una tempesta di pioppi, calpestando le margherite sul lato della strada, e un piccolo cane lo inseguì per un tratto, abbaiando, mentre i padroni cercavano invano di richiamarlo. Una bicicletta lo superò. Aveva voglia di una grigliata all’aperto con gli amici, o di fare una merenda in un parco, magari con una ragazza… I pensieri seguivano lo scorrere lento delle immagini, perdendosi tra i particolari, o gli scenari più vasti: la collina di fronte, i rumori in lontananza, i progetti per il futuro. Fu una corsa blanda, in totale tranquillità, giusto per non perdere il vizio. Quando già era di ritorno, incrociò due ragazzi che camminavano avvinghiati, come se avessero dovuto dimostrare al mondo che la loro era una vera passione. Il maschio aveva la mano infilata nel sedere della ragazza, la quale lo baciava scomposta ogni tre passi. Ogni volta che lo faceva, perdevano l’equilibrio. In quella scena sgradevole Luca rivisse, suo malgrado, la storia con Federica. L’aveva lasciata quattro mesi prima, subito dopo Capodanno, e per lui non era stato affatto doloroso. I primi tempi, però, lei era andata giù di testa e lo aveva tampinato di messaggi, chiamate nel cuore della notte e scenate fuori dalla scuola, ma era già da varie settimane che il ricordo di quei momenti non veniva più a disturbarlo. Federica era una delle cheerleader; si erano messi insieme perché si sentivano assegnati dal destino: lei, di una bellezza appariscente e sensuale; lui, il leader della squadra. All’inizio, lui era preso dal fatto di stare con una di quelle ragazze che tutti sognano di ostentare come trofeo e a lei andava benissimo così: le piaceva farsi vedere con lui, anche perché Luca per molti aspetti sembrava già un uomo, e si era convinta di esserne veramente innamorata. Poi era diventata sempre più ambiziosa ed egocentrica, al punto che le parti si erano invertite, e lei aveva cominciato a stare con lui più che altro per sfoggiarlo con orgoglio alle amiche. Non se n’era reso subito conto: era stato a lungo condiscendente di fronte alle smodatezze della sua ragazza, ma dopo un anno che stavano insieme, aveva cominciato quasi impercettibilmente a desiderare qualcosa di diverso. Tutto era iniziato con un nuovo interesse per le lezioni di filosofia. Quelle riflessioni, talvolta eccessivamente complesse, lo portavano in luoghi dove non si aspettava di ritrovare se stesso. Poi erano arrivati il Romanticismo inglese, l’Esistenzialismo e la letteratura del Novecento. I turbamenti del nuovo secolo, le Avanguardie e i dipinti di Jackson Pollock. La professoressa di storia dell’arte aveva mostrato alla classe una galleria di quadri degli Impressionisti. Poi aveva presentato alcune opere di Picasso – tra le quali, ovviamente, Guernica – e una di Pollock, esposta all’Art Institute di Chicago. Poco prima di mostrarla, aveva detto semplicemente: “Ora un altro quadro. È stato dipinto dopo la Seconda Guerra Mondiale: senz’altro coglierete la differenza dai precedenti.” Di fronte a quell’immagine, Luca aveva sentito un principio di paralisi. Gli era sembrato quasi di sentire le urla delle vittime, e di vedere il caos disordinato e prepotente che contorceva corpi e anime nel dolore. Si chiamava Greyed Rainbow, ed era stato dipinto nel 1953. Il quadro di Pollock era semplicemente più aspro e radicale di Guernica… Definitivo. Dopo le esperienze del XX secolo, i colori dell’arcobaleno erano diventati grigi, le sue linee contorte. Il mondo era così. Lui non poteva certo dire di averlo sperimentato, ma era stato come uno strappo nel suo modo di percepire le cose. Aveva avvertito una chiarificazione che aveva lasciato dentro di sé una pacifica consapevolezza e, contemporaneamente, l’inquietudine di una nuova ricerca. Il ragazzo che correva come un dio greco era diventato anche un uomo sensibile. Beh, alla fine non è uscito solo dello schifo dalla storia con la Fede… pensò Luca concludendo la corsa. Quando rientrò in casa, i suoi erano già tornati. “Ha chiamato l’assistente del coach, quello nuovo…” disse Agnese, sua madre. “Giovanni?” “Ma non si chiama Joe?” “Giovanni, ma si fa chiamare Gio, che è diventato Joe, all’americana: è un invasato… Cosa voleva?” “Voleva raccomandarsi di non ubriacarvi, perché domani giocate e dovete essere in forma.” “Ancora?! Non ci posso credere che me lo debba dire tutte le volte! Non sa neanche se usciamo...” “Immagino lo supponga: è sabato… Porta pazienza, non hai detto che è arrivato da poco? Forse non riesce ancora a fidarsi.” “Non si fiderà mai. Come è andata oggi pomeriggio?” “Bene, è stato abbastanza interessante.” “Thomas?” “Mi sembrava contento. Adesso è in camera che fa i compiti… Almeno spero!” Suo fratello spuntò fuori dalla camera: “Ehi Luca, giochiamo?” “Non ti sei divertito abbastanza? Adesso non posso: devo farmi una doccia e poi vorrei studiare un po’ anch’io, prima di uscire. E tu devi finire i compiti!” “Uff…” disse Thomas, chiudendosi la porta alle spalle. Se stesse studiando, oppure no, nessuno avrebbe potuto dirlo. “Cosa fai stasera?” chiese Agnese. “Vado all’Hobby One con i soliti. Prenderei la macchina, tanto non devo bere!” disse Luca a sua madre. “Va bene, se non fate tardissimo...” “Tranquilla ma’… massimo alle 2:00 torniamo. Però non aspettatemi… Se non vi sveglia la polizia vuol dire che è tutto a posto!” scherzò. “È meglio per te che non ci chiami!” replicò Federico, suo padre, dallo studio. Luca si lavò velocemente e si rivestì da casa, scelse una playlist dal telefonino – qualcosa di acustico, per il resto ci sarebbe stato spazio la sera – e si posizionò alla scrivania pieno di risolutezza. Il ricordo di Federica, però, aveva attivato una reazione a catena che non fu capace di arrestare in alcun modo. Era turbato. Per un paio di mesi si era tenuto alla larga dagli ambienti come l’Hobby One, perché era il tipico luogo dove avrebbe potuto incontrarla di nuovo, ma quella volta Mike aveva talmente insistito che alla fine aveva ceduto. Il suo tempo di studio finì senza che avesse letto una sola riga. Chiuse i libri e si preparò. A quell’ora, in casa, si consumavano riti famigliari tipici di chi ha un figlio ancora troppo piccolo per uscire da solo, ma abbastanza grande da rompersi in una serata con gli amici dei genitori. Il sabato sera, quando percorreva il corridoio, a Luca piaceva indugiare un momento e osservare quello spazio di vita domestica incontaminato rispetto alle ansie e alla fretta della settimana. Tutte le volte si stupiva che ci fosse qualcuno che non si preparava a uscire: la mamma cucinava, papà apparecchiava, Thomas chiacchierava con loro, cenavano e poi decidevano quale film guardare insieme. Luca si affacciò in cucina per salutarli. “La macchina è dietro” disse Federico. “Grazie! Se alle quattro non sono ancora a casa… chiamateli voi i carabinieri!” “Vedi di esserci, va’...” La porta di casa si aprì e si richiuse. Agnese servì piatti fumanti di tagliatelle al ragù, Federico volle ringraziare per il loro legame e – finalmente, pensò Thomas – mangiarono. Mike e il Girdo erano arrivati puntuali davanti all’Hobby One e stavano aspettando Luca e gli altri due da più di venti minuti. Mike tradiva una certa insofferenza e, mentre si muoveva su e giù per la strada cercando di scorgere gli amici in ritardo, si perse a leggere la didascalia sul muro del palazzo accanto al portico. Gli ambienti della discoteca occupavano le scuderie dell’antico Palazzo Bentivoglio, i signori di Bologna, distrutto nel 1506 durante la ribellione del popolo contro i tiranni. La vita del XXI secolo si sposava con le pietre del centro storico e le strade erano piene di studenti e di giovani, per i quali il fatto di studiare nell’università più antica del mondo era un pretesto per ben altre esperienze di vita. Varcare la soglia di quel locale, dunque, significava compiere un passaggio fra due mondi, distanti cinquecento anni, vivendo la contaminazione tra antico e modernità. Il Girdo, invece, non pensava certo ai corsi della storia, ma ingannava il tempo passando in rassegna tutte le ragazze ancora in fila per l’ingresso, soprattutto quelle meno vestite, e commentandole con Mike ad alta voce, fino a che non arrivarono anche Luca, Sugo e Rusti, con mezz’ora di ritardo: “Scusate, ci abbiamo messo un casino a parcheggiare” si giustificò Luca. “Basta che entriamo! Non ce la facevo più con ’sto coglione…” disse Mike, precedendoli. “Ma se ti ho indicato tutte le ragazze carine!” rispose il Girdo. Ormai erano rimaste solo una ventina di persone davanti a loro in fila, e in pochi minuti dal rosso notturno della città entrarono nell’atrio di marmi lucidi e scuri e poterono scendere le scale fino alle stanze sotterranee dove si trovavano il ristorante, il bar e la pista da ballo, circondata da una zona rialzata con tavoli e divanetti. Le volte a botte erano illuminate da un’alternanza di luci calde e riverberi blu, provenienti da fari e neon sapientemente posizionati. Il locale era stipato come al solito, ma trovarono comunque un tavolino dove, stringendosi, riuscirono a sistemarsi per cenare. Mike ordinò anche una bottiglia di vino, con disappunto di Luca. Per mettere a tacere le proteste, disse che l’avrebbe pagata lui e gli altri furono ben lieti di accettare il favore: “Dai, solo un brindisi, ok? Stai tranquillo, non mi ubriaco. E domani sarò in perfetta forma per lanciarti come sempre!” “Va bene… Ma non diciamolo a Joe!” scherzò Luca. “Non glielo dirà nessuno, vero ragazzi?” replicò Mike rivolto agli altri tre. “Tranquilli! Non ce ne può fregare di meno dei vostri affari di squadra…” rispose il Girdo a nome di tutti. “Allora brindiamo al miglior running back che Bologna abbia mai avuto! Alla faccia di Joe!” disse Mike alzando il bicchiere. “No no…” si schermì Luca. “Al quarterback! È lui che trascina la squadra!” “Oh, scusate se noi siamo dei poveri pezzenti che giocano a calcio…” l’interruppe il Girdo. “D’altra parte siamo in Italia, sapete com’è, è leggermente più difficile sfondare nel nostro sport...” Calcò la parola nostro per sfotterli. “E comunque, vi ricordo che io faccio judo” disse Rusti. Fecero incontrare i calici ridendo. Cosa ci sarà poi da ridere?! Era Mike che stava ridendo solo per finta. Da qualche mese c’era un elefante nella stanza dei suoi pensieri, che in quel momento divenne troppo ingombrante. Il quarterback è come il capitano nel calcio e molto di più: è il primo ad alzare la coppa, è quello che chiama gli schemi della squadra, che riceve gli ordini dagli allenatori e li trasmette ai compagni. È un sommo sacerdote la cui autorità non viene messa in discussione. Tutte le azioni passano da lui ed egli porta con onore il peso di questa responsabilità. Lui avrebbe dovuto essere il leader, ma non era nessuno: nei Rockets, soprattutto nell’ultimo anno, le cose funzionavano in maniera diversa. Tutta la squadra, gli schemi e le azioni ruotavano attorno a Luca, il quale poteva giocare sia da running back che da ricevitore, e correva per centinaia di yard in ogni partita, mentre nessuno sembrava notare che quelle corse avevano senso perché c’era qualcuno che metteva in gioco con precisione la palla. A un certo punto, si era cominciato persino a dire che anche quando i passaggi erano sporchi, Luca riusciva a rimediare la situazione e Mike era diventato sempre meno presente nelle parole dei coach, come nei commenti dei tifosi. Mille lanci, un sacco di botte prese quando i difensori non sapevano fare il loro lavoro, ed essere considerato uno qualunque, come uno che gioca a calcio in Italia, come i loro amici… L’elefante, quella sera, aveva cominciato a rompere tutta la cristalleria quando Luca aveva proposto il brindisi per lui. Mike si era sentito un oggetto di compassione o più esattamente di pietà, e ne era rimasto umiliato. Lui era stato sincero, invece era sicuro che Luca lo avesse detto solo per non fargli pesare la cosa. È bravo e fa anche il modesto. Improvvisamente, si sentì invadere dalla rabbia. “Mike, tutto bene?” lo richiamò Luca. “Cosa?!” “Sembrava che non ci ascoltassi più. Noi andiamo a ballare, tu vieni?” Mike si accorse che gli altri avevano finito di mangiare, mentre nel suo piatto era avanzata ancora parecchia roba. “Arrivo, arrivo… Finisco in un attimo e vi raggiungo!” “Ti aspettiamo?” “Non ho mica bisogno della balia! La trovo la strada.” “Ok, andiamo a vedere se c’è da far bene!” intervenne il Girdo, con quel suo stile ibrido fra un paninaro fuori moda e il protagonista di un video degli 883. “Non finitemele tutte, eh?!” provò a scherzare Mike, attenuando i toni. “Ti lasceremo le racchie!” Il Girdo si allontanò facendogli il dito medio e si spostarono nell’altra sala. Mike trangugiò ciò che era rimasto nel piatto. Prima di alzarsi si rese conto che il vino era finito e non c’era più acqua in tavola. Fanculo! L’elefante stava spaccando tutto, cercando di uscire. Andò al bar, chiese un bicchiere d’acqua frizzante e si fece fare un mojito. La barista lo guardò un paio di volte mentre lo preparava, sorridendogli maliziosamente nel servirlo. Mike ricambiò l’approccio facendole l’occhiolino, ma immediatamente un’altra ragazza gli si piazzò di fianco. “Ciao.” “Ciao… ci conosciamo?” Era truccata in maniera eccessiva, ma nel complesso appariva bella. Il trucco impediva di darle qualsiasi età; dai lineamenti sembrava piuttosto giovane, anche se il fisico era formato. Aveva una scollatura pronunciata e non la nascondeva. “Sono la sorella di Stefano. Tu sei Mike, vero? Quello dei Rockets!” “Stefano... il defensive tackle?” “Un difensore… sì, quello è il suo ruolo.” “Ma pensa te! Quel ciccione non mi aveva mai detto che aveva una sorella così carina!” “Grazie. Sono venuta spesso a vedervi, sai? È per questo che ti ho riconosciuto. Cioè… non ero sicura che fossi tu… nella vita normale siete abbastanza irriconoscibili rispetto alle partite!” “Sono proprio io. Piacere…?” “Oh, già, scusa. Marika.” “Marika con la kappa, come Mike?” “Esatto! Marika, con la kappa...” “Bene, abbiamo già qualcosa in comune...” “Però tu ti chiami Michele, di nome, giusto?” “Giusto. Ma tutti mi chiamano Mike. Fa più americano.” “È molto più bello Mike...” “Bevi qualcosa? Puoi bere, vero?” “Certo!” “Quanti anni hai?” “Diciotto. E tu?” “Venti.” “Sei da solo?” “Sono con amici, ma non è una gran serata. Tu invece?” “C’è una festa di compleanno. Una mia compagna di classe fa i diciotto proprio oggi. Perché non è una gran serata?” “Mah, mi sento trasparente...” “Cioè?” “Lascia perdere. Cosa prendi?” “Caipiroska alla fragola, grazie.” “Una caipiroska alla fragola per la ragazza!” La barista non si degnò nemmeno di ascoltarlo, fu il suo collega a preparare il drink. “Allora brindiamo a… come si chiama la tua amica?” “Allyson” rispose lei.
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