11 - Adriel João

1007 Parole
A ventitré anni con un anno di anticipo e dopo aver iniziato il tirocinio, mi laureai in medicina. Avevo superato la fobia degli ospedali! In che modo? Probabilmente era dovuto al fatto che ero stato a lavorare in reparti che mi avevano portato a contatto con la morte. All’inizio durante il tirocinio in chirurgia gastrointestinale e cardiaca, mi ero sentito male, vomitavo, mi girava la testa, e anche la respirazione diventava affannata. Era stato quello a farmi venire la fobia e a lungo andare capii che dovevo affrontare quella mia paura. Anche se non sarei diventato chirurgo. Successivamente ero stato nel reparto di oncologia, era stato il tirocinio più angosciante fino ad allora, avere a che fare con la morte ad ogni paziente, vedere in loro un mio coetaneo o un bambino, un anziano e una madre, mi aprì gli occhi su quel mondo. Per un malato terminale la morte era dietro l’angolo, ti alitava sul collo. Se eri fortunato scampavi il fosso, come papà che aveva avuto le cure migliori e aveva preso il tumore abbastanza in tempo da non perdere la vita. Ma c’erano altri che non avevano la sua fortuna, o anche la stessa liquidità dei miei, mamma e papà erano stati fortunati a incontrare Thomas sul loro cammino. Non potetti infatti ignorare che c’erano strutture e strutture. Le cliniche private erano quelle dove i pazienti avevano più probabilità di guarigione. Negli ospedali pubblici invece non si era così fortunati, infine c’era una realtà che non ci insegnavano ma che sapevo esisteva. Ero cresciuto al confine tra le favelas e la Rio benestante, sapevo fin troppo bene dei morti per strada, lasciati al loro destino. Ancora ricordavo che il mio compagno alle elementari era morto per una semplice febbre. Durante il mio ultimo anno di tirocinio ci furono parecchie novità, Guadalupe la ragazza con cui uscivo mi informò di essere incinta. Purtroppo lei mi conosceva quale João Suarez, il campione, e con Ezra sospettammo che si fosse fatta mettere incinta per incastrarmi. Avrei voluto chiederle di abortire, ma sempre Ezra mi disse di andarci piano. “Se i nostri sospetti sono veri, potrebbe metterti in cattiva luce con i media. Adesso che c’è in ballo la nazionale ci andrei piano. Aspettiamo le convocazioni e il primo ritiro. Poi le chiediamo l’aborto. Sono sicuro che un assegno proficuo la farà ragionare.” Mi disse. “Poi?” Chiesi. “Tranquillo, la sistemo prima del mio rientro a Parigi.” Mi disse sicuro di sé. Ezra mi spaventava molto, aveva due anni meno di me. Ma continuava ad essere scaltro ed ero sicuro ormai che fosse tossicodipendente. Ero in realtà sollevato all’ idea che tornasse in Europa, non sarei rimasto senza un agente per i mondiali. Ezra aveva assunto un paio di procuratori e spero una sua società, per cui in sua assenza ero coperto. Però se ne sarebbe andato. Gli volevo bene, ma liberarmi dal suo ambiente tossico era una gioia. “Quando tornerai?” Gli chiesi. “Fra tre anni! Voglio laurearmi in letteratura.” Rispose. “Non andavi per un sevizio fotografico di Pierre Chateau?” Chiesi. “Ne approfitto! A Parigi non avrò più l’influenza del vecchio e farò ciò che mi piace.” Disse. “Cazzo fu lui a mettermi un libro in mano a dieci anni. Se non mi avesse fatto appassionare alla letteratura, avrei deciso diversamente.” Disse. “Che dire. In bocca al lupo!” Gli dissi complice. In fondo lo adoravo, se non fosse stato per la sua dipendenza, sarebbe stato un amico perfetto. Non ebbi più modo di pensare alla sua partenza o a Guadalupe, poiché come si sa le notizie brutte arrivano sempre tutte insieme. Papà ebbe infatti una ricaduta. Questa volta gli era uscitoun tumore al testicolo destro. Appena mamma mi informò corsi a Sao Paolo. Non mi interessavase facevo la spola tra Sao Paolo e Rio per potergli stare vicino o poterlo seguire. Non mi interessava rinunciare alla squadra o alla laurea per lui. Fu in quell’occasione che compresi saremmo stati fortunati se papà fosse sopravvissuto anche a questa. Con tutto ciò che avevo visto, sapevo che già eravamo fortunati. La prima persona che vidi in ospedale fu mamma. “Cosa dicono i medici?” Chiesi. “Che è operabile. È stato complicato trovarlo, poiché hanno fatto un controllo prima sugli ultimi casi. Sono andati a ritroso e hanno temuto che avesse attaccato di nuovo la prostata.” “Ci sono metastasi?” Chiesi a mamma. “Sembrerebbe di no! Ma il dottor Morales consiglia sempre di fare la terapia.” Mi spiegò. Sospirai. “Dopo parlerò con Morales.” Avevo bisogno di capire e un confronto con lui era la scelta migliore. “Posso vederlo?” Chiesi. Mamma annuì. “Certo che puoi. Anche se temo che si arrabbierà.” “Con me o con te?” Le chiesi sorridendole. “Entrambi. Me perché ti ho avvertito. Te perché sei venuto fin qui.” Rispose rassegnata. La seguii nella sua stanza e quando lo vidi nel suo letto piccolo piccolo, lo trovai molto più fragile di quanto potessi immaginare. “Adriel!” Sussurrò papà. La sua voce era così flebile. “Vecchio!” Scherzai io. “Non ti va più di allenare i bambini vero?” Gli chiesi raggiungendolo. “Non saresti dovuto venire qui.” Mi disse papà. “Perché no! Non ho partite fino a dopodomani.” Risposi. “Sei il capocannoniere del campionato e in Coppa Libertadores. Si vocifera che sei stato convocato in nazionale, hanno occhio. Sono fiero di te.” Disse papà. Gli sorrisi. “Mi vedrai giocare con la maglia giallo verde papà.” Confermai. “L’anno prossimo giocherò ai mondiali qui in Brasile e tu verrai a vedermi.” Gli raccontai. “Giocherai ai mondiali?” Mi chiese. “Ovvio! Mese prossimo faremo il primo ritiro, è ufficializzeranno la squadra che capitano Pereira ha convocato.” Dissi fiero. “In nazionale. Mio figlio è in nazionale… hai sentito Laura.” Disse papà rivolgendosi a mamma.
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