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Ego te absolvo

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Il commissario Simona Ottonello indaga su due omicidi e un prezioso cofanetto scomparso; ad aiutarla nelle indagini il suo amico giornalista Giulio Leonardi.

Due omicidi sulle alture di Pegli; un vecchio cofanetto di legno levigato che fa gola a molti, a troppi. A Camillo Ardeani, per esempio, un trafficante di oggetti antichi venuto apposta da Roma. Ma anche a Batti, lo sfaccendato “filosofo” amante della cuoca dello “Chez Maxime”, una vecchia trattoria di Borgo Incrociati da dove la vicenda si dipana. Chi ha ucciso? Che fine ha fatto il cofanetto? L’inchiesta è affidata al commissario Simona Ottonello, capo della squadra omicidi genovese. La aiuta nelle indagini il suo amico giornalista Giulio Leonardi. E con lui, in una città in cui sale la febbre per l’imminente apertura del Salone Nautico, si addentra alla scoperta di un mondo a lei sconosciuto che affonda le radici in una pagina oscura di Genova. Una pagina che tutti vorrebbero dimenticare e di cui nessuno parla volentieri. Ma è proprio lì la soluzione del mistero.

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Prefazione
Prefazione La prendo alla lontana ma la cosa, come si vedrà, ha un senso. Da tempo, proprio nei giorni in cui Andrea Casazza mi sottoponeva, via e-mail, il testo di questo romanzo, mi stavo chiedendo – ancora una volta – perché in Italia, ci siano ormai tanti giallisti e, ancor più, perché il giallo italiano sia circondato da tanto interesse. Poi ho finito col darmi una attendibile riposta. In effetti non v’è città, per piccola che sia (anzi, soprattutto se piccola: gli assessori delle città piccole sono spesso cupamente combattivi, quasi rabbiosi nel rivendicare spazi e nell’agitare premi e targhe con forsennata vocazione al sacrificio) la quale non rivendichi il suo concorso, la sua rassegna, la sua tavola rotonda, il suo catalogo ragionato, il suo premio, il suo giallista prediletto, il suo appuntamento specialistico. Per anni ho continuato a nutrire di fronte ai gialli italiani quel vago e saltuario senso di incredulità che avvertivo già da ragazzo, negli ultimi mesi di guerra. Quando, sfollato in campagna vicino a Novi Ligure, giorno per giorno mi inoltravo, grazie alla biblioteca di mio padre ed al contributo di un amico – ne ho fatto cenno esplicito in un volumetto a tre mani su Simenon, scritto con Goffredo Fofi e Gianni Da Campo e pubblicato dalla napoletana Ancora del Mediterraneo – nella giungla fascinosa del mystery d’epoca. Che era prevalentemente anglofono, (inglese o americano secondo una divaricazione da sempre netta) e, in misura molto minore, francese (appunto: ma per me quindicenne l’era simenoniana non era ancora iniziata). Naturalmente c’erano anche gli italiani. Ma nei loro confronti, diciamolo pure, provavo – e per anni fummo in tanti – una sorta di imbarazzo, di complicità ingoffita e colpevole, così istintivi che non avevamo neppur voglia di analizzarli a fondo. Mi ricordo, per fare un solo esempio, il senso di bonaria stupefazione che destarono allora in me – la brossura mondadoriana era bella e quasi elegante – Il settebello e Le scarpette rosse del provinciale ma raffinato ventimigliese Alessandro Varaldo. Con quell’investigatore baffuto, Ascanio Bonichi, che mi faceva pensare più ad Aldo Fabrizi che a Philo Vance: aveva grandi baffi, una connotazione romanesca, pittoresca ma nel fondo estranea – era perfino commendatore¸ come gli ometti buffi disegnati da Barbara sul “Marc’Aurelio” – mentre più accettabile e in certo modo volonteroso appariva l’ex-sergente Gino Arrighi divenuto detective privato giusto per orecchiare costumi lontani e invoglianti. In realtà a intrigarci erano l’uso stesso del “fondale” Italia, per non parlare della lingua madre, dunque non filtrata e inamidata dalla traduzione, ma autentica, primigenia, raccolta, per così dire, in prima battuta ma anche furbescamente pomposa, così come era spesso all’epoca l’italiano scritto e apparentemente estranea al tema. A imbarazzarci profondamente era, quindi, una sensazione confusa eppur recisa che pressappoco intorno a noi aleggiava nel mondo e che giusto negli anni ‘30 venne così magistralmente riassunta da un dilettante professionista di genio, musicista, pittore, scrittore, e cioè Alberto Savinio. Tolgo la citazione – peraltro la si ritrova di frequente in molte fonti che si occupano del poliziesco all’italiana – dall’ottimo Tutti i colori del giallo di Luca Crovi, dedicato appunto al “giallo italiano da De Marchi a Scerbanenco a Camilleri”, aggiornata fonte di consultazione perchè risale al 2002. Scriveva Savinio : “...il giallo italiano è assurdo per ipotesi. Prima di tutto è una imitazione e porta addosso tutte le pene di questa condizione infelicissima. Oltre a ciò manca al giallo italiano, et pour cause, il romanticismo criminalesco del giallo anglosassone. Le nostre città tutt’altro che tentacolari e rinettate dal sole ‘non fanno quadro’ al giallo né può ‘fargli ambiente’ la nostra brava borghesia. Dove sono i mostri della criminalità, dove i re del delitto?” Ecco qui la fondata radice di un successo inatteso. In pochi decenni le “mancanze”, i vuoti, gli eccessi di perbenismo e di bontà lamentati da Savinio sono stati dolorosamente colmati da una ventata criminale che ha sconvolto e sconvolge l’Italia. E che di converso ha subitamente reso attendibili i tralicci mortali di fatti e di accadimenti e quindi i delitti e gli investigatori di casa nostra. Anche senza i coroner, Scotland Yard, Harlem, il NYPD, la P.J, la Sûreté e il Quai des Orfèvres e l’immensa mitologia poliziesca anglo-americo-francese stratificata per decenni nella nostra memoria, un mondo autenticamente giallo si è di­schiuso nelle nostre città. Rendendo improvvisamente autentici centinaia di narratori di talento. Quel che il povero commissario De Vincenzi di Augusto De Angelis non era riuscito a fare (un altro narratore di talento, Ezio D’Errico, aveva dovuto collocare addirittura sulla Senna il commissario Richard per farlo apparire credibile) è via via balzato all’onor del mondo nelle righe di tanti e tanti cultori nostrani, divenuti via via noti se non celebri. Si pensi non solo ai geni saltuariamente giallisti (Gadda, Sciascia, eccetera) ma a Scerbanenco, Camilleri, Fruttero e Lucentini, e sulle loro orme a tanti e tanti franchi narratori specializzati, da Felisatti e Pittorru a Loriano Macchiavelli a Carlo Lucarelli, e via citando quasi all’infinito. Il logico corollario di questa rinascita italiana (così ferocemente legata ad indubbio peggioramento dal contesto sociologico e sociale) ha come risvolto successivo ma altrettanto creativo la connotazione regionale di tanti nuovi e meno nuovi giallisti, ovvia conseguenza in una nazione ancora largamente “localistica” anche se molto più integrata di un tempo. E per quel che concerne propriamente noi liguri l’alto numero di genovesi che sorgono da ogni parte. Un posto decorosissimo ricoprono di sicuro, fra questi “giallisti al pesto”, Casazza e Mauceri. Che son redattori al “Secolo” e perciò conoscono bene risvolti criminali e scadenze giornalistiche della città. Ritroviamo qui la seducente commissaria Ottonello (cognome tipicamente ligure, anche se giudiziosamente non fra i primi 10 delle statistiche per non renderla troppo grigia), le strade e i luoghi di una città che ben conosciamo ed uno sfondo principale, Borgo Incrociati, romanzesco per sua natura, nel quale è stato scaltramente introdotto un “errore” topografico per doverosa prudenza (lo scopra il lettore). Con l’andar degli anni (si ricordi che son nato nel 1929, proprio quando Mondadori pubblicava i primi 4 fondamentali gialli di una serie praticamente infinita) con i libri e con i film tendo sempre di più ad annoiarmi. Qui non mi è capitato quasi mai, il che rende profondamente giustificata questa prefazione. In linea di massima tutte le prefazioni sono inutili, e qualcuna spesso è dannosa. Se questa sarà anche minimamente utile, ne sarò più che soddisfatto. Claudio G. Fava

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