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Matefinder - Il Dono

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Blurb

Quando Aurora perde il controllo della sua auto, sulla strada verso Monte Hood, non sa che la sua vita sta

per essere stravolta. Sarebbe morta se Kai, l’Alpha del branco locale, non l"avesse salvata, trasformandola.

Sopravvissuta al cambiamento, la giovane donna, prima così lontana dal mondo soprannaturale, scopre di

essere il Matefinder. Il suo dono è così raro da essere considerato una leggenda, preziosissimo per la

sopravvivenza della sua specie.

E non solo della sua specie… Un dono che è anche una condanna, perché altre creature, più pericolose, le

daranno la caccia.

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1-1
1 Trasformata I fari della mia Jetta nera illuminavano la notte mentre guidavo sulla strada tortuosa che portava al Monte Hood. La mia coinquilina mi aveva convinto a concedermi una pausa dalla mia vita frenetica e ad andare in montagna, a casa dei suoi genitori. L’orologio sul cruscotto segnava quasi la mezzanotte e io iniziavo a sentire il peso di tutte le ore di viaggio da Portland, quando decisi di fermarmi a prendere un caffè in una stazione di servizio. Scendendo dall’auto, imprecai in silenzio contro la pioggia leggera. Indossavo ancora i pantaloni da yoga e il top aderente che portavo durante la lezione del mio corso di autodifesa per donne. La giacca antipioggia era sepolta sul fondo del borsone, nel bagagliaio. Attraversando il parcheggio, tenevo strette in mano le chiavi e la carta di credito, che mi caddero quando inciampai saltando sul marciapiede. Per fortuna, riuscii a ritrovare l’equilibrio prima di finire anche con la faccia per terra. Che classe, Aurora. Mi chinai per raccogliere le chiavi proprio mentre la porta a vetri si apriva, mi rialzai in fretta per paura di essere calpestata, e mi trovai faccia a faccia con uno splendido ragazzo poco oltre la ventina. Ehilà. Era a un soffio da me e mi fissava con intensità. Aveva la pelle ambrata, delle tonalità indiane, con lunghi capelli color cioccolato che scendevano intorno alla mascella forte. Alto oltre un metro e ottanta, era fatto di muscoli duri come la roccia. I miei occhi scivolarono lungo il suo corpo mentre coglievo il suo torso nudo e gli addominali scolpiti. Indossava dei pantaloni di tuta ed era a piedi nudi. Che strano. Feci del mio meglio per non squadrarlo completamente, ma quella era una tartaruga? Arrossii quando lui mi sorprese a guardarlo. «Ciao.» Mi rivolse un sorriso pieno di denti bianchi e fossette. La sua voce baritonale mi riscaldò lo stomaco. Deglutii forte. «Ciao.» L’aria era carica di una chimica tangibile. Mi sembrava di averlo già incontrato prima, anche se ero certa che avrei ricordato un ragazzo come lui. Un giovane dai capelli biondo scuro, altrettanto attraente, si avvicinò e gli diede una pacca sulla spalla. «Torniamo alla nostra corsa?» gli chiese. Risvegliata dalla mia trance, sorrisi debolmente e passai accanto all’uomo alto, scuro e meraviglioso. Mentre il suo braccio sfiorava il mio, sentii di nuovo scaldarsi lo stomaco. Dannazione, da quanto non avevo un appuntamento? I miei ormoni stavano impazzendo. Calmati, ragazza. Quel tipo poteva essere un serial killer, per quel che ne sapevo. La porta si chiuse alle mie spalle e ordinai da bere, godendo dell’odore di una bella tazza di caffè appena fatto che mi riportava alla mente le due cose che amo di più al mattino: il caffè, appunto, unito al rumore dei miei pugni che colpiscono un sacco da boxe. Il primo mi sveglia, l’altro mi fa sentire al sicuro, entrambi ugualmente importanti per affrontare la giornata. Dopo aver pagato, tornai alla macchina giusto in tempo per vedere i due ragazzi entrare nel bosco. Non molte persone vagano per la montagna dopo mezzanotte… scalze. Mhhh, decisamente serial killer. I ragazzi sexy sono sempre i più contorti. Sorseggiando il mio caffè caldo, sospirai. Altri trenta minuti e mi sarei rannicchiata nel mio rifugio di montagna, magari bevendo del buon vino. Avevo davvero bisogno di questo fine settimana di relax. Imboccai di nuovo la strada principale, una corsia unica e tortuosa. Una fitta nebbia si era depositata sul terreno, permettendo una scarsa visibilità. Il classico meteo dell’Oregon. La mia mente vagò verso il ragazzo alla stazione di servizio; sembrava diverso. Battuta sul serial killer a parte, non riuscivo a liberarmi dalla sensazione di averlo già conosciuto, come fosse un déjà vu. Forse sarei dovuta restare e parlargli. Guardai l’orologio sul cruscotto per una frazione di secondo proprio mentre stavo arrivando in prossimità di una curva, e quando tornai con lo sguardo sulla strada, notai di fronte a me una mamma cervo con i suoi due cuccioli. Merda! Non pensai… Spinsi col piede sul freno, sterzai con forza verso sinistra sfondando il fragile guardrail arrugginito e, in un attimo, la mia macchina era in volo giù dalla montagna. Gli incidenti sono così strani. Da spettatore, durano in tutto un paio di secondi, ma quando ci sei dentro sembrano trascinarsi per un tempo molto più lungo. Sapevo che non era un buon segno che la mia macchina stesse sfrecciando nell’aria e che sarebbe stato un incidente orribile, ma non c’era nulla che potessi fare. Oh Dio, perché cavolo dovevo essere vegetariana? Un carnivoro avrebbe investito quei cervi senza farsi problemi. Mentre passavo oltre le cime degli alberi e volavo giù dall’argine, le uniche cose che riuscivo a fare erano trattenere il respiro e prepararmi all’impatto. La mia macchina colpì il terreno sottostante con una tale forza che la mia testa ruppe il cruscotto, e tutto divenne nero. * * * Quando mi ripresi, mi resi conto che il mio corpo pendeva per metà fuori dallo sportello aperto della macchina. Oh, merda… L’incidente. Provai a muovermi, ma un lamento mi sfuggì dalla gola quando una fitta di dolore mi accese il corpo. Pur non volendo, abbassai lo sguardo, cercando di capire da dove provenisse la sensazione calda e umida che sentivo all’altezza dell’addome. Urlai quando vidi il grosso ramo di un albero che mi sporgeva dalla pancia. Oh, Dio. No. L’adrenalina pulsava nel mio corpo mentre il panico dilagava in me. Stavo per morire. Attirata da un rumore di passi, mi guardai intorno e vidi qualcuno in lontananza. La mia vista però era offuscata e riconobbi il ragazzo della stazione di servizio solo quando fu molto vicino. I suoi occhi erano grandi e… gialli? Il ronzio nella mia testa si era fatto più forte e iniziavo a sentirmi debole e fredda. Tremavo e non riuscivo a parlare mentre la paura mi attanagliava. Stavo per morire qui, nei boschi, di fronte al serial killer. Non c’era nulla che potessi fare. Che sensazione orribile, l’impotenza. All’improvviso, quel tipo si tolse i pantaloni, rimanendo completamente nudo davanti a me. Ma che cavolo? Prima che potessi elaborare la cosa, vidi i peli sulle sue braccia incresparsi e infoltirsi e sentii il rumore delle sue ossa che si spezzavano, prima che si piegasse a quattro zampe mentre i muscoli dei suoi arti si gonfiavano facendogli assumere le sembianze di un animale. Tutto ad un tratto, a fissarmi con occhi penetranti e ramati c’era un enorme lupo nero. Allucinazioni, ecco cosa succedeva prima di morire. Troppo sangue perso ti faceva vedere esseri umani come lupi mostruosi. Entravi in un folle mondo dei sogni. Sì, era questa la spiegazione. Il lupo che stavo immaginando si avvicinò a me con quegli occhi gialli e scoprì i denti affilati come rasoi. Oh merda, pessimo sogno. «No, ti prego,» piagnucolai perché, mentre si avvicinava, la saliva luccicante sui suoi denti sembrava troppo reale, e riuscivo a sentire la puzza di animale su di lui. Pensai a tutte le cose che avevo ancora da fare nella vita; erano così tante. Non ero pronta a morire. Quando mi balzò addosso, mi sfuggì un urlo spaventato e, mentre i suoi denti affondavano nella mia carne, il dolore esplose in tutto il mio corpo. «Sei mia.» La sua voce echeggiò nella mia mente e ne assunse il controllo, prima che crollassi in uno stato onirico in cui non riuscivo a distinguere la realtà dalle visioni. * * * Dolore ovunque. Ogni cellula del mio corpo soffriva ed ero sul punto di perdere di nuovo coscienza. «Resta con me. Ti prego, sopravvivi» disse la voce dell’uomo della stazione di servizio, e sentii una mano accarezzarmi il viso. L’ultima immagine a cui pensai prima di perdere i sensi fu quella del mio corpo disteso sulla strada che portava al Monte Hood e l’uomo alto e scuro, che trasformatosi in un lupo, mi mordeva. * * * Qualche tempo dopo mi svegliai di soprassalto e mi misi a sedere, aspettandomi di essere indolenzita o di avere cuciture in tutto il corpo, di ritrovarmi fasciata, ingessata, invece niente. Guardando le mie braccia lisce e pallide, non vidi ferite. Che cavolo? Il ricordo del mio recente incubo mi girava ancora per la mente e avevo difficoltà a distinguere cosa fosse vero. Indossavo una T-shirt extralarge che aveva il suo stesso odore. Freneticamente, la alzai e percorsi con le dita la piccola cicatrice a forma di denti che mi segnava il ventre. Oh, mio Dio, mi aveva morso, proprio in quel punto. I ricordi riaffioravano e, per la violenza con cui piombarono su di me, mi sembrò di essere colpita da una mazza da baseball. Tranne che per quella cicatrice, la mia pelle era intatta, il che era impossibile. Mi guardai intorno. Ero in una normalissima stanza: pavimento di legno, un letto e un cassettone. Cercai di controllare la respirazione per evitare di iperventilare. La mia mente ritornò alla notte precedente. L’uomo dalla pelle ambrata si era trasformato in un… lupo, e mi aveva attaccata. Be’, non era proprio corretto. Avevo avuto un incidente. Oh Dio, era stato terribile. Mi afferrai la testa e cercai di non pensare al dolore che avevo provato. La mia gamba piegata in una strana angolatura - il sangue che colava dal mio addome - io che aspettavo di morire. Se non avessi provato a sterzare per non investire quei dannati cervi, la mia Jetta non si sarebbe schiantata. Cos’è che ti insegnano? Sterza sulla montagna? Allontanati? Non sterzare? Colpisci il cervo? Non lo ricordavo. Ero vegetariana, quindi avevo agito d’istinto. Ma l’istinto che mi aveva impedito di colpire il cucciolo di cervo, poteva ammazzarmi. Be’… Sarei morta, ma lui mi aveva aggredita… e mi aveva cambiata. Non importava quanto cercassi di negarlo, lo sapevo… Riuscivo a sentirlo. Era una sensazione terribile che strisciava sotto la mia pelle, il cuore che batteva contro il petto come un tamburo, un attacco d’ansia pronto a colpirmi e mettermi in ginocchio. Ero… Ero… Un mutaforma? «Sei un licantropo» disse una voce nella mia mente, e io sobbalzai, guardandomi intorno nella stanza. Oh, Dio. Non stava succedendo. La sua voce… era dentro la mia testa. Quella parola… aveva detto… Licantropo. Il panico ruggì nel mio corpo così forte che all’improvviso la nausea mi attanagliò e afferrai un vaso di fiori vuoto vicino al letto per vomitarci dentro. Non avevo un vero attacco di panico da molti anni ma, considerate le circostanze, non ne fui sorpresa. Il mio cuore correva ancora veloce mentre osservavo di nuovo il mio corpo. Com’era possibile? Ero guarita, come nei film con i licantropi di Hollywood. No, mi dissi ancora, non stava succedendo, non poteva essere reale. Volevo con tutta me stessa credere che fosse un’allucinazione, ma non potevo negare i fatti. Ero stata a un passo dalla morte, gravemente ferita e sanguinante, e poi… mi aveva morso. E ora mi ritrovavo qui, completamente guarita e nel mezzo di una crisi esistenziale, con un uomo che parlava nella mia testa. Mi morsi il labbro mentre le lacrime mi scorrevano sulle guance. Sentii un leggero bussare provenire dalla porta. Posai il vaso sul pavimento, balzai a letto coprendomi le gambe nude e mi allungai ad afferrare una penna dal comodino da tenere sotto le coperte. «Avanti?» dissi, incerta. Non che quella fosse la mia stanza. La porta si spalancò e una giovane donna di circa vent’anni fece capolino. Aveva i capelli rosso acceso tagliati in stile pixie con le punte sparate e una lunga frangetta sul davanti. Il viso a forma di cuore e gli occhi verdi le davano un’aria innocente da ragazza della porta accanto. Branco, pensai e rabbrividii a quella sensazione. Quella voce era la mia, ma era diversa. Oh merda, stavo di sicuro perdendo la testa. Ero in piena psicosi. «Ciao» disse timidamente, mentre entrava e chiudeva piano la porta alle sue spalle. Aveva un sacchetto di plastica nella sua mano delicata. «Ciao» gracchiai in risposta, incerta su cosa dire e rendendomi improvvisamente conto di avere molta sete. Dove diavolo sono e cosa cavolo mi è successo? Ecco cosa avrei voluto dire davvero. Il mio sguardo corse alla finestra, che non sembrava essere sbarrata. Ero stata rapita? La ragazza gettò il sacchetto sul letto e i suoi occhi guizzarono al vaso in cui avevo vomitato, ma distolse in fretta lo sguardo e non ne fece cenno. «Sembra che abbiamo la stessa taglia, spero che ti vadano bene.» Aprii il sacchetto e vidi dei vestiti puliti e un paio di infradito.

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