01 – CENERE E MACERIE

2875 Words
01 – CENERE E MACERIE(Loris) Il problema, con Gaia, è che sa essere maledettamente velo­ce. Se esistesse una disciplina olimpionica come la corsa cam­pestre per mutaforma, lei ne sarebbe la campionessa indiscussa. Forse, se Diego e io non ci fossimo impegnati tanto a persegui­tarla, comportandoci da terribili fratelli maggiori, non avrebbe avuto motivo di coltivare questo talento. Invece abbiamo tra­scorso l’infanzia a rincorrerla per sottoporla ai peggiori scherzi possibili e immaginabili, giocando con lei come il gatto con il topo e spingendola, con il passare del tempo, a maturare il pro­posito di diventare rapida abbastanza da non lasciarsi acchiap­pare mai più. Accidenti a noi. Quando è stata l’ultima volta che siamo riusciti ad acciuffar­la? Fatico a ricordarlo. Avevamo forse nove e dodici anni. Devo ammettere però che, nonostante le seccature comporta­te dal pericoloso connubio tra il suo talento e l’abilità da velo­cista, la maggior parte delle volte mi sento orgo­glioso della ca­pacità della piccola di casa di far mangiare la polvere al resto del branco. Oggi, tuttavia, sono perlopiù irri­tato al pensiero di non potermela semplicemente caricare in spalla e ignorare i suoi capricci. Ormai ha acquistato sufficiente distacco da rendermi diffici­le persino vederla. Nell’oscurità della notte, tra le ombre del sottobosco, anche potendo contare su una vista soprannatural­mente acuta, scorgo a malapena un indizio di movimento nel buio, parecchi metri più avanti. La verità è che, fino a quando non avrà deciso di fermarsi, nostro fratello e io possiamo giusto continuare a correrle dietro, imprecando a mez­za voce. Come se condividesse le mie riflessioni, Die sbuffa, quasi ringhiando, e guidato da un’insensata ostinazione ac­celera sfor­zando sino al limite i muscoli delle zampe. Non può farne a meno: la sua personalità alfa gli impedisce di gettare la spugna. Probabilmente considera la disobbedienza di Gaia alla stregua di una sfida e questo scatena con prepotenza l’istinto di riven­dicare una posizione di predo­minio, di sottomettere chi osa op­porsi al suo volere. Un bel pro­blema considerando che, contra­riamente a quanto si sarebbe portati a dedurre basandosi sul suo comportamento, non è il si­gnore e padrone di niente e nessuno. Perlomeno non ancora. Mantengo un’andatura regolare per evitare di stancarmi trop­po e inutilmente. Non potendo contare sulla velocità, non mi resta che fare affidamento sulla resistenza. I miei cuscinetti me­tacarpali sfiorano il suolo senza emettere il minimo rumore. La traccia olfattiva lasciata dalla lupa, familiare al punto che sarei in grado di individuarla tra mille, mi mantiene sul giusto sen­tiero. Il ritmico ansimare di Diego mi fa compagnia infrangen­do il silenzio. Tengo a quei due più della mia stessa vita, per me sono im­portanti come nient’altro al mondo. Sono loro il mio branco, più di quello ufficiale, più del resto della famiglia. Un legame indissolubile ci rende l’uno parte degli altri. Eppure il destino sembra avere in progetto di separarci. A mio fratello mancano solo tre anni al raggiungimento della maggiore età, che per i membri della nostra specie corrisponde a un quarto di secolo. Purtroppo risulta sin d’ora evidente che, quando sarà giunto il momento, verrà allontanato dai territori dei Cometa. È troppo forte e soprattutto troppo do­minante perché qualsiasi capobranco sano di mente ne accetti la presen­za tra le proprie file. È nato per regnare e, non appena avrà ab­bandonato lo status di cucciolo, dovrà andarsene e crea­re un proprio impero. Lontano da qui. Lontano da noi. Cosa dire invece di nostra sorella? Con la sua cocciutaggi­ne e l’atteggiamento ribelle che tutti speravano sarebbe scom­parso allo sfumare dell’adolescenza, è una continua fonte di grattaca­pi e preoccupazioni. Ultimamente sembra sempre insoddisfatta. Percepisco in lei una sorta di tensione vi­brante, come se non riuscisse a stare ferma e sentisse il bisogno di fare qualcosa. Ma cosa? Anche lei si sta allontanando, non solo adesso, non solo fisicamente. Io, il fratello di mezzo, da sempre un mediatore, resto immo­bile a osservare senza sapere come intervenire per impedire al nostro trio di andare in pezzi, come trovare le parole per espri­mere la profonda convinzione che niente abbia importanza finché noi stiamo insieme. Cosa posso farci? Sono un dannato sentimentale. «Si è fermata, finalmente», mi avverte Diego. La sua voce roca e profonda è un sussurro nella mia mente. Tiro un sospiro di sollievo e mi affretto a raggiungerlo. Pro­seguiamo fianco a fianco e osserviamo la foresta diradarsi leg­germente, suggerendo la presenza di uno spazio aperto poco più avanti. Alle narici mi arriva il dolce profumo dell’acqua. Gaia ci attende accucciata sulle sponde del lago, la cui superfi­cie brilla argentea sotto la luce delle stelle. «Allora, hai finito di comportarti da mocciosa viziata?» chie­de nostro fratello, ringhiandole contro. La diplomazia non è mai stata il suo forte. Lei increspa il muso e mostra le zanne, met­tendo bene in chiaro che, pur avendoci concesso una tregua, non si è affatto arresa. Il suo pelo arruffato, color grigio cenere, emana un aspro odore di stizza. Scuoto la testa, desolato. Se non inter­vengo finiranno per sbranarsi a vicenda. «Lascia fare a me, Die», bisbiglio. «Tu pensa ad avvertire mamma e papà che l’abbiamo raggiunta.» «E poi? A quest’ora l’incontro sarà già iniziato. Non arrive­remmo per tempo nemmeno se la bamboccia decidesse di col­laborare e ci mettessimo subito in marcia.» «So che tenevi molto all’idea di presenziare», comincio a dire. «Infatti», sbraita lui, interrompendomi. «Non era nei miei piani vagare a zonzo per la foresta e vestire i panni della baby sitter. Avrei di meglio da fare.» «Nessuno te lo ha chiesto», interviene Gaia con rabbia. «Sì, invece: lo hanno fatto i nostri genitori. Hai presente? Le persone che ti hanno messa al mondo e alle quali non porti il minimo rispetto.» «Ora basta», li interrompo alzando la voce, stanco di sentirli battibeccare come ragazzini. Per sottolineare il concetto mi frappongo fisicamente tra loro, a fare da barriera. «Contatta un qualsiasi membro della famiglia e informalo che stiamo bene e arriveremo al più presto. Se la riunione do­vesse essere finita quando raggiungeremo la Casa Madre, ci fa­remo aggiornare su ciò di cui si è discusso e nel caso esprimeremo la nostra opinio­ne domani mattina.» Diego digrigna i denti, infastidito. Le direttive appena rice­vute somigliano un po’ troppo a un ordine per i suoi gusti ma, nonostante abbia un’indole bellicosa, in fondo non desidera li­tigare né con me né con nostra sorella, ne sono consape­vole. «Coraggio», lo incito. «Io non sono bravo abbastanza da tra­smettere un messaggio a mamma e papà da tanto lontano, lo sai.» La mia voce mentale raggiunge a stento lupi che si trova­no nell’arco di un centinaio di metri. D’altro canto, questo si­stema di comunicazione ha l’unico scopo di agevolarci in bat­taglia o durante la caccia, quando siamo un fronte compatto. Riuscire a raggiungere i pensieri del branco anche a distanza è una prerogativa di pochi. Una qualità indispensabile per un leader. Finalmente convinto, Die si allontana fiancheggiando le rive del lago. Si ferma in un punto tranquillo a sufficienza da per­mettergli di fare quel che deve, lasciandoci un po’ di privacy, ma al tempo stesso abbastanza vicino da poterci controllare. Mi volto verso Gaia. Lei abbassa il capo e, abbandonata l’aggressività simulata fino a un attimo prima, tipica di quando si sente minacciata, mi permette di leggerle negli occhi tutta la stanchezza che prova. Ha uno sguardo sconfortato. «Cosa c’è, piccola?» Mi avvicino e le strofino il muso contro il collo. «Non ne posso più, Loris, tutto qui. Cerco di essere forte, ma voi non mi lasciate spazio e sento di non poter più nemmeno respirare. Mi state sempre addosso e siete così opprimenti da rischiare di farmi impazzire. Non potevate lasciarmi in pace e andare al raduno senza di me?» «Ci hai fatti preoccupare.» «Bugiardo. A papà non importa niente di cosa faccio o non faccio, mamma ha dato di matto soltanto perché non sopporta di non avere sempre tutto sotto controllo, i nostri cugini mi tro­vano irritante e basta, e Diego mi ha seguita perché gli piace sbraitare ordini a destra e a manca. Vuole solamente che tutti si prostrino ai suoi piedi e gli lecchino il culo.» «Da un punto di vista pratico mi sembra com­plicato leccare il culo di qualcuno da prostrati a terra.» Lei alza gli occhi al cielo, un’espressione a dir poco ridicola poiché al momento, al posto del suo volto umano, indossa quel­lo della sua controparte animale. «Nemmeno un sorriso?» la incalzo. «Ma dai, sono il re dei comici.» «Idiota», mi apostrofa. Le mordicchio giocosamente un orecchio. «Io ero preoccu­pato per te, va bene?» «Non è vero. Tu pensi sia una seccatura.» «Infatti al momento sono seccato e preoccupato. Uno stato d’animo non esclude l’altro. Adesso vuoi dirmi cosa succede?» «Il solo fatto che tu me lo chieda mi fa incazzare all’invero­simile. Non te ne rendi conto? Possibile che facciate tutti finta di niente?» So bene a cosa si riferisce, ma inclino il capo come se non capissi. Qualcuno prima o poi dovrebbe spiegarle le regole del gioco. Noi maschi non amiamo parlare di sentimenti, tanto più se si tratta di far riferimento a emozioni scomode. Preferiamo sorvolare, non ci piace rigirare il coltello nella piaga. «Pensi sul serio che non ci siano problemi in casa nostra? Che tra mamma e papà le cose vadano bene?» Mi scruta minacciosa, come sfidandomi a mentire negando l’evidenza. Una scintilla di rabbia le si accende negli occhi, complice il riflesso della luna, la cui luminescenza le scivola sulle pupille in sincronia con il lieve movimento compiuto dal muso verso l’alto. Lo stesso soffuso pallore ci circonda, ba­gnando le rocce in riva al lago e contribuendo a gettare, poco più in là, lunghe ombre provenienti dalla foresta fino allo spiazzo da noi occupato. Lasciando vagare lo sguardo sulla liscia superficie dell’acqua e poi, oltre di essa, ai piedi della montagna, posso scorgere altre luci, questa volta artificiali, a rammentarmi la presenza di esseri umani nella valle. Tossicchio. Perlomeno per quanto me lo permet­te la mia at­tuale conformazione fisica. «Tutte le coppie hanno i loro alti e bassi. È normale, ogni tanto, entrare un po’ in crisi», affermo, tornando alla conversazione. «La crisi dei nostri genitori ha un nome e un cognome.» Non voglio pensarci. Non voglio pensare a lei. «È storia vec­chia, Gaia. Sono passati anni. Mettici una pietra sopra come hanno fatto tutti.» «A forza di metterci pietre sopra finiremo per restare sepolti. Non essere stupido, Loris. Anzi, smettila di voltarti dall’altra parte e affronta la realtà. Nostro padre non ha mai smesso di pensarci, rimane a casa con noi solo per senso del dovere, ma non è più veramente presente. Ha perduto ogni legame profon­do con il resto della famiglia, non so nemmeno se senta ancora di esserne parte integrante. I suoi pensieri, il suo cuore e il suo spirito sono altrove. E dove non è certo un miste­ro.» Emette un uggiolio addolorato. «Ha fatto un enorme sacrificio per restarci vicino, piccola. Ci ha scelti. Dovresti riconoscerglielo e, quando lo vedi triste, pensare a quanto ha rinunciato per noi.» Le do un colpetto sotto il mento con la testa, lei scuote il capo. «Si è rovinato la vita e ha rovinato quella della mamma, ha spezzato il cuore di entrambi. Vorrei soltanto che la smettessi­mo di recitare il ruolo della famiglia perfetta. Preferirei veder­li separati piuttosto di assistere impotente mentre con­tinuano a farsi del male.» «Non dire così.» «È la verità.» «Sei cresciuta ormai, sorellina. Comportati da persona matu­ra e rispetta le loro decisioni. Con il tuo atteggiamento stai sol­tanto gettando benzina sul fuoco.» So come è fatta. I problemi li prende di petto e detesta le si­tuazioni irrisolte. È testarda e decisa, sempre pronta a lottare per ottenere cosa vuole, incapace di tacere le proprie idee, so­prattutto quando ha un’opinione fuori dal coro. Ma questa fac­cenda non ci riguarda e per di più siamo un po’ troppo grandi per ostinarci a cullare l’illusione che i nostri genitori siano in­fallibili e abbiano un rapporto idilliaco. «A cosa pensi possa servire restare tutta la notte qui fuori al freddo?» le chiedo. «Quale risultato ti aspetti?» «Avevo soltanto intenzione di fare una corsetta per schiarir­mi le idee. Volevo appunto evitare di perdere il controllo ed esibirmi in una sceneggiata. Non sono stata io ad agire in ma­niera immatura, ma tu e Diego standomi con il fiato sul collo come se non mi fosse concesso di muovere un passo senza il vostro permesso.» Quasi lo avessimo interpellato, nostro fratello si mette in moto per tornare indietro, trotterellando verso di noi. Il suo manto, leggermente più scuro rispetto al pelo di Gaia e decisa­mente più folto e lungo di quello di entrambi, contribuisce a dargli un aspetto regale, da creatura leggendaria, fiera e indo­mita. Accanto a lui, noi due potremmo quasi essere scambiati per comuni animali, nonostante le dimensioni. Pesiamo all’incirca un’ottantina di chili ciascuno, più del doppio rispetto a un lupo normale, mentre Die supera di poco il centinaio. Che mi faccia apparire ordinario, persino mingherlino talvolta, è ir­ritante. Fortunatamente, in quanto beta nato, non ho mai avuto né problemi di autostima né particolari sogni di glo­ria, altri­menti dubito sarei in grado di andare tanto d’accordo con lui. «Non riesco a contattare nessuno dei membri del branco», ci informa Diego. Benché lo faccia in tono tranquillo, una punta di nervosismo trapela dal modo in cui i muscoli gli guizzano sotto la pelliccia, facendola muovere a scatti, e la coda frusta inquieta l’aria. «Sono parecchio lontani, sicuramente in forma umana», ra­giono. «Se l’argomento della conversazione è interessan­te, è probabile che stiano discutendo animatamente nella Sala Grande. Staranno facendo una confusione tale da assordarsi a vicenda. Non è poi così strano che non ti abbiano sentito.» Lui borbotta un assenso poco convinto, ma gli presto scarsa atten­zione e mi rivolgo a Gaia. «Che ne dici, sei pronta ad an­dare?» Mi risponde con un verso a metà tra un mugugno e un bron­tolio. Normalmente ci metteremmo in cammino punzecchian­doci a vicenda, ma è ancora troppo arrabbiata, offesa o decisa a tenere il muso per scherzare con me. Perciò si limita a replica­re: «Non sono impaziente di arrivare a destinazione e non ho voglia di fare la strada di fretta. Potremmo limitarci a passeg­giare fino alla Casa Madre, godendoci il paesaggio, cosa ne pensate?» Nostro fratello non pare d’accordo. «Stai scherzando, vero? A causa tua abbiamo interi chilometri da percorrere a piedi. Come minimo potresti cercare di darti una mossa.» «Se preferisci fare il prepotente, posso anche rifiutarmi di collaborare.» Annuisce convinta, con un sorriso sornione e l’aria dispettosa, poi torna a sedersi. «Ti trascinerò per i boschi a peso morto, se non alzi imme­diatamente il culo.» «Ma certo, perfetto. Procedi pure, faremo molto prima in questo modo, ne sono sicura», lo stuzzica lei. La voce gronda sarcasmo, lo sguardo sprigiona scintille provocatorie. Se non avessimo sembianze animali, sono convinto potrei vedere la vena sul collo di Diego, quella che gli passa proprio dietro l’orecchio, pulsare e il viso arrossarsi di rabbia. «Basta con i litigi, ragazzi», intervengo. «Fate i bravi.» Alla fine li convinco a scendere a compromessi e a dirigersi a passo sostenuto verso sud. Il territorio del branco Cometa si trova nella parte nord-occi­dentale del Piemonte, appena sotto il Parco Nazionale del Gran Paradiso, in cui spesso sconfiniamo per una battuta di caccia o una cerimonia rituale sotto la luna piena. Non che certe scioc­che superstizioni mortali sull’influenza delle fasi lunari siano vere. Le leggende, se hanno un fondo di verità, non si riferisco­no alla mia specie, capace di cambiare pelle a proprio piaci­mento. Solo i poppanti si trasformano in maniera incontrolla­ta, ma per colpa degli ormoni in subbuglio, non certo di un inu­tile satellite. Per quanto ne sappia, non esiste niente di simile a un lupo mannaro. Anche se non si può mai dire mai. I possedimenti del branco sono delimitati a set­tentrione dall’autostrada SP460 e a meridione dalla SP33. A est si esten­dono sino a un’ipotetica retta passante per le città di Lo­cana e Cantoira, a ovest la linea di demarcazione è costituita dalle sponde del lago di Ceresole, dal confine del parco e dalla fron­tiera francese. Le abitazioni delle famiglie facenti parte della nostra comu­nità sono sparpagliate all’interno di questa zona, suddivise in minuscoli agglomerati. Genitori e figli convivono sotto lo stes­so tetto e hanno zii e cugini come vicini. Il punto di riferimento collettivo è però la Casa Madre, una struttura costruita apposi­tamente per ospitare il gruppo di mutaforma capitanato da alfa Melis al completo. Contiamo cinquantatré membri: diciassette Martin, undici di noi Villa, dieci Silvestri, nove Doria, cinque Melis e quattro Ascanio. A ciascun capofamiglia sono affidate la gestione e la sorveglianza di una specifica porzione di terri­torio e ogni due settimane viene indetta una riunione per discu­tere di eventuali problemi. I raduni hanno anche lo scopo di in­contrarci e socializzare in forma umana, visto che la maggior parte del tempo passato insieme lo trascorriamo a quattro zampe. I miei fratelli e io ci troviamo all’incirca a un chilometro di distanza dalla destinazione quando Diego si immobilizza, teso come la corda di un arco pronto a scoccare. Gaia e io lo imitia­mo, abituati nostro malgrado ad affidarci a lui senza pensare. «Cosa succede?» chiedo, allerta. «Non lo sentite?» brontola Die. Gaia inspira rumorosamente. «È un odore leggero, appena percepibile», commenta. Annuso a mia volta e, proprio mentre lei domanda «Cosa pensate che sia?», io stabilisco: «Fumo.» Diego annuisce. «Puzza di incendio appena spento, di braci che covano sotto la cenere.» Acceleriamo il passo, inquieti, senza azzar­dare supposizioni. Ma più ci avviciniamo e più il sentore si in­tensifica: proviene dal luogo verso cui siamo diretti. L’ansia cresce e con essa la fretta. Corriamo a perdifiato. Il fumo ora ci circonda come una fitta nebbia, immergendo la foresta in un’atmosfera tetra e spettrale, e ci fa lacrimare gli occhi, ci graffia la gola. Abbandoniamo la protezione degli al­beri e con un ultimo balzo raggiungiamo il piazzale di fronte alla Casa Madre. Solo che la Casa Madre non c’è più. Ci sono invece macerie fumanti e frammenti di vetro, i resti carbonizza­ti di alcune travi, cocci di tegole infrante, monconi di quelli che fino a poco fa erano muri e adesso paiono ossa di arti spezzati. L’edificio è bruciato e crollato su se stesso, anche se non saprei dire in quale ordine o perché. Le automobili, ancora allineate in giardino, sono quasi intatte, eccezion fatta per qualche ammaccatura causata dall’impatto di pezzi di into­naco sulla carrozzeria. Mi incammino tremando in mezzo alla devastazione. Le zampe quasi mi vanno a fuoco tanto è il calore ancora sprigio­nato dalle rovine. So bene quale sia il significato di un simile spettacolo eppure, forse in preda allo shock, una parte di me ri­fiuta di farsene una ragione. Mi aggiro tra i calcinacci come un’ombra, un fantasma. Poi l’urlo di Gaia squarcia il silenzio e mi risveglia dal tor­pore. Diego e io le corriamo incontro, allarmati. Uggiolando, lei scava forsennatamente tra i pezzi anneriti di una credenza e ne estrae un cadavere così sfigurato da essere irri­conoscibile. È solo il primo di una lunga serie.
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