Capitolo 2

2359 Words
2 PENNY Non sapevo che i balli di gruppo potessero essere tanto divertenti. Non riuscivo a smettere di sorridere o di sentirmi così... bene. Ora capivo perché la gente parlasse di alzare i tacchi e divertirsi. Un divertimento che io mi ero persa, dal momento che mi ero dedicata completamente per mesi alla ricerca e alla stesura della mia tesi per il Master, delineandone la dissertazione. Oh, ne era valsa la pena; mi era perfino arrivata tramite e-mail un’offerta di lavoro per un’azien si occupava di gas e petrolio. Anche altre compagnie più piccole mi avevano fatto qualche proposta, ma quella internazionale era davvero interessata e seria circa la propria offerta. Tuttavia, tutto quel lavoro e quelle noiose – sebbene altamente remunerative – opportunità non facevano che confermare ciò che già sapevo. Non volevo lavorare nel settore del gas e del petrolio. Non stavo vivendo la mia vita. Certo, non che mi fosse mai stata offerta davvero un’opportunità per dedicarmi al semplice divertimento. I miei genitori – mia madre e l’uomo che avevo pensato fosse mio padre – sarebbero morti stecchiti se fossero stati visti in un bar country-western. Risi mentre muovevo i piedi a tempo con il ritmo sostenuto della canzone, imparando i passi nel seguire quelli della fila di fronte a me. Ero un po’ impacciata, ma non mi importava. Nessuno stava notando i miei errori, né li segnalava o mi prendeva in giro. Nessuno sapeva chi fossi. Cosa ancora più importante, nessuno sapeva chi fossero i miei genitori. Grazie al cielo. Tutti battevano i piedi, le mani, ondeggiavano e si giravano insieme. L’aria densa di fumo era un po’ umida per via della folla. Shamus incrociò il mio sguardo mentre facevo una giravolta, e mi fece l’occhiolino rivolgendomi un bel sorriso. Non potei fare a meno di rispondere tendendo a mia volta le labbra e agitando la mano, per poi ritrovarmi leggermente in ritardo sulla battuta di tacco successiva. Quando la canzone finì, tutti applaudirono e gridarono; qualcuno fischiò perfino in quella maniera spaccatimpani in cui la governante dei miei genitori richiamava di solito i cani. Non avevo mai imparato a farlo e mia madre trovava quel gesto rozzo e diceva che era uno dei motivi per cui la Signora Beauford non sarebbe mai avanzata sulla scala sociale. Dio, mia madre. Perché pensavo sempre a lei, alla famiglia, tutto...il...tempo? Non ero a scuola, né in Islanda per il mio viaggio di ricerca/lavoro. Mi trovavo nel Montana e fuori dalle loro grinfie opprimenti, per il completo disappunto di mia madre. Non c’era verso che sarebbero giunti fin lì, nemmeno se fosse stato per trascinarmi fuori da quel bar. No. Ero al sicuro da loro. Al sicuro non era esattamente il termine giusto. Non erano pericolosi. Non mi avrebbero mai fatto del male fisicamente. Emotivamente? Sì, avevo già delle cicatrici non indifferenti. L’unica cosa che rischiavo con i Vandervelk era di perdere me stessa. E Aiden Steele, sia lodato il suo defunto cuore, mi aveva salvata. Avrei voluto che fosse ancora vivo per poterlo ringraziare, abbracciare e baciare in una dimostrazione d’affetto pubblica e svergognata. Ora sapevo perché non mi ero mai sentita al mio posto nella mia famiglia. Avevo preso da mio padre, un padre che non avevo mai saputo esistesse fino a due settimane fa. Si spiegavano così tante cose, perfino il motivo per cui probabilmente mi piacessero i balli di gruppo. A lui erano piaciuti? Se si era fatto strada in tutto il paese concependo cinque figlie illegittime, dovevo pensare che se non altro li avesse provati. Mi restava solamente da chiedermi come un tipo così avesse avuto il permesso di infilarsi nel letto di mia madre per una notte. Mi asciugai la fronte e mi leccai le labbra secche mentre tornavo dagli altri, cercando di cancellare dalla mente l’immagine di mia madre che faceva sesso con qualcuno. «Ti stai divertendo?» mi chiese Patrick. Si trovava ad un tavolino rialzato a cui si appoggiava con gli avambracci in attesa della mia risposta. «Assolutamente.» Mi strattonai la camicia, cercando di rinfrescarmi. Il bar era affollato e il ballo mi aveva fatto venire caldo. «Tu ti sei guadagnato un appuntamento?» Sogghignò, e perfino in quella luce fioca riuscii a vedere che stava arrossendo. Un attimo dopo essere arrivati, aveva adocchiato una donna per la quale aveva un debole – parole sue, non mia – e le si era avvicinato. «Domani sera. Pronta per una birra?» Io annuii e lui me ne versò un bicchiere dalla caraffa in plastica al centro del tavolo mentre mi parlava di lei. Decisamente gli piaceva. Patrick, Shamus e gli altri ragazzi erano tutti molto bravi. E non erano nemmeno poi così male a vedersi. Nessuno allo Steele Ranch era niente meno che bellissimo. Doveva esserci qualcosa nell’acqua, da quelle parti. O magari era il duro lavoro al ranch che abbronzava la pelle e faceva crescere i loro muscoli. Ma non era a nessuno di loro che pensavo io. Né ai loro fantastici fisici. Erano bellissimi, ok, ma più dei fratelli per me che ragazzi con i quali sarei uscita... o sarei andata a letto. Erano Jamison e Boone a farmi davvero effetto. Sì, Jamison e Boone. Avevo trovato la lettera di Riley Townsend, l’avvocato della tenuta, riguardante la mia eredità dopo il ritorno dall’Islanda. Era rimasta all’ufficio postale assieme all’enorme pila di altre comunicazioni che avevo fatto trattenere in sospeso. Per mesi. Riley era stata l’unica persona a cui avessi raccontato la mia idea di venire nel Montana, ma non gli avevo dato una data o un momento precisi. Avevo attraversato lo stato in macchina dal North Carolina da sola e all’epoca non avevo avuto idea di quanto mi ci sarebbe voluto. Quando finalmente avevo accostato di fronte alla casa principale del ranch, ero stata accolta da un intero stuolo di ragazzi. Dovevano avermi sentita arrivare o aver visto il polverone sollevato dalla mia auto sul lungo vialetto sterrato. Qualunque fosse stato il motivo, il mio primo pensiero quando mi si erano avvicinati era stato che fossero nel mezzo di una sessione fotografica per un calendario di cowboy, perché erano tutti dei fighi vestiti di jeans, camicie con bottoni a scatto e cappelli Stetson. Uno dopo l’altro e dopo l’altro ancora. Ma due in particolare avevano attirato la mia attenzione e mi avevano fermato il cuore. Jamison e Boone. Sì, erano più che bellissimi, ma il modo in cui mi guardavano, con quell’intensità e quegli occhi freddi come se riuscissero a vedere quanto fossi nervosa, quanto stanca, emozionata, speranzosa... sembravano riuscire a vedere me. Gli altri, a confronto, sembravano dei cuccioli impazienti. Jamison era il caposquadra dello Steele Ranch, l’uomo al comando. Boone aveva detto di non vivere al ranch come gli altri, ma di trovarsi lì per dare un’occhiata ad uno degli uomini che si stava riprendendo da una commozione cerebrale. Mi ero sentita piccola accanto a loro. Essendo minuta, praticamente chiunque sopra i dodici anni di età era più alto di me, ma Jamison doveva superarmi di almeno trenta centimetri e Boone qualcosina in più. Avrei dovuto sentirmi nervosa; avrebbero potuto facilmente sopraffarmi o farmi del male. Non mi sentivo così. No, io mi sentivo... protetta. E un po’ sconvolta perché mi eccitavano. Un sacco. Mi sentii eccitata nello stringere loro la mano, nel trovarmi sotto il loro sguardo indagatore. Mi si bagnarono le mutandine con una semplice e breve presentazione, grazie al modo in cui i loro occhi si mossero su ogni singolo centrimetro del mio corpo. E non avevo pensato ad altro che a loro sin da quel momento. Due cowboy più grandi ed esperti di me che senza dubbio sapevano esattamente cosa fare con le loro mani e... ogni altra grande parte dei loro corpi. «Mi spiace che Kady non sia riuscita a venire,» disse Shamus, alzando la voce per coprire la musica. Era un laureando al college statale e studiava scienze animali, e sarebbe tornato a casa per l’ultimo anno un paio di settimane più tardi. «Cord e Riley l’hanno riportata ad est. Una specie di festa di addio. So che non vede l’ora di conoscerti.» Trassi un sorso dalla mia birra fredda, cercando di immaginarmi Kady. Non sapevo quasi nulla di lei, solamente che era un’insegnante e che aveva una relazione seria con l’avvocato, Riley, e un altro uomo. Una relazione a tre. Avrei dovuto esserne sorpresa, e magari lo ero, ma solamente perché anch’io avevo una cotta per due uomini. Li avevo conosciuti solamente per una decina di minuti, ma era successo comunque. Ero... attratta da Jamison e Boone. Folle? Sì. Volevo rivederli, scoprire se quei sentimenti fossero una coincidenza o qualcosa di più. Jamison non sembrava uscire molto con gli altri ragazzi – dal momento che non c’era quella sera – magari perché era più grande di loro, o perché non gli piacevano i balli di gruppo. Immaginai che si avvicinasse più ai quarant’anni che ai trenta. Lo stesso valeva per Boone. Non mi infastidiva, il fatto che fossero tanto più grandi di me. Niente di ciò che sapevo – o avevo visto – mi infastidiva affatto. Per quanto riguardava Kady, se lei riusciva a far funzionare una relazione con due uomini e a nessuno sembrava importare, allora forse potevo farlo anche io. Dio, stavo pensando ad una relazione e a malapena avevo avuto una conversazione sia con Jamison che con Boone. Ero ridicola. Il fatto che non li avessi più rivisti dacché ero arrivata dimostrava solo che molto probabilmente loro nemmeno pensavano a me. Avevano solo fatto i gentiluomini nell’accogliermi. Nulla più. Mandai giù un gran sorso di birra. «Non importa. Tornerà presto ed io non vado da nessuna parte.» Era così. Avevo intenzione di restare a Barlow. Dovevo solamente occuparmi di mia madre. Prima o poi. Solo, non in quel momento. Mi stavo divertendo troppo. Il Montana mi si addiceva alla grande. «Hai altri fratelli o sorelle?» mi chiese Shamus, quando la musica si placò un attimo tra una canzone e l’altra. «A parte Kady, mi è stato detto di avere altre tre sorellastre che non ho ancora conosciuto. Poi ce ne sono altri tre. Una sorella e due fratelli adottivi. Tutti più grandi.» Erano figli di mio padre – no, del mio patrigno – avuti dal precedente matrimonio e non eravamo poi così legati, per dirla nel migliore dei modi. A quanto pareva, non eravamo nemmeno imparentati. Non scorreva alcun sangue in comune nelle nostre vene. Essendo per metà sorelle, speravo che Kady ed io saremmo riuscite se non altro ad essere amiche. «È stato bello da parte vostra chiedermi di uscire con voi,» dissi, cambiando discorso. «I balli di gruppo sono divertenti.» Quando avevo chiesto loro cosa si indossasse per un’attività del genere, loro si erano semplicemente guardati dalla testa ai piedi con indosso i loro jeans e le camicie, poi mi avevano detto del negozio di abiti western in paese. Betty, la proprietaria, era stata di grande aiuto nel trovare qualcosa che mi avrebbe permesso di inserirmi nel gruppo, inclusi gli stivali da cowboy e una bella gonnellina di jeans. «Non li hai mai fatti prima?» chiese Patrick, prendendo posto su uno degli sgabelli alti e afferrando la caraffa per riempirsi il bicchiere. Scossi la testa. «No. Non erano una cosa a cui mi dedicassi quando ero al college e da allora sono stata in Islanda.» Come se ciò spiegasse tutto. Non era così. Avevo completato di corsa gli studi nella stessa associazione studentesca femminile di mia madre e i balli di gruppo di certo non si addicevano a quella gente. A lei non sarebbe piaciuta nemmeno l’Islanda – troppo selvaggia – ma era lì che dovevo andare per effettuare le mie ricerche per la laurea, per cui era accettabile. Cercai di immaginarmi mia madre in un bar country e sorrisi. Poi mi tornarono in mente i pensieri di lei che si portava a letto Aiden Steele. Gah. Posai la mia pinta e mi ravviai una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Faccio una corsa in bagno. Arrivo subito.» Loro annuirono prima che io me ne andassi, facendomi strada tra la folla fino al corridoio sul retro. Avrei dovuto passare al negozio a ringraziare Betty per il suo aiuto. I miei abiti si adattavano alla perfezione al modo di vestire di tutti gli altri e gli stivali erano divertenti e totalmente non da me. No, magari erano da nuova me. Un tizio mi si parò di fronte, posandomi una mano in vita. «Ma ciao,» mi disse. Doveva avere circa venticinque anni, era robusto. Il suo sorriso però non era gentile e il suo tocco troppo brusco. Cercai di scostarmi, ma le sue dita strinsero la presa. «Ciao,» dissi, senza incrociare il suo sguardo. «Sto andando in bagno.» Feci un passo a destra cercando di aggirarlo. Lui allungò un braccio e appoggiò la mano al muro, bloccandomi. «Ti ho vista ballare. Mi piace come ti muovi.» Il suo respiro caldo mi soffiò sul collo e rabbrividii. «Grazie. Guarda, devo fare pipì.» Mi abbassai rapidamente per passargli sotto il braccio – uno dei vantaggi dell’essere così bassa – e corsi in bagno. Esalai. Vi restai più tempo del dovuto, per una volta felice che ci fosse la coda, sperando che avrebbe rinunciato o che si fosse trovato qualcun altro con cui attaccare bottone. Qualcuno che fosse interessato. Io di certo non lo ero. Ma quando tornai di là, era ancora lì, appoggiato al muro, con le braccia incrociate. «Ci hai messo un bel po’.» Mi accigliai, cominciai a incamminarmi lungo il corridoio decidendo di ignorarlo, ma lui mi si mise davanti. «Forza, piccola.» «Non mi chiamo piccola.» Mi spostai a sinistra. Lui mi si parò di fronte. «Allora come ti chiami? Devo saperlo, perché così posso gridare il nome giusto mentre ti scopo.» Come no. «Col cavolo.» Scossi la testa, feci un passo verso destra, poi di nuovo a sinistra, cercando di aggirarlo. Non era il primo stronzo col quale avevo a che fare e di sicuro lui era insistente. Ma quando mi venne addosso, facendoci voltare così da farmi fare un passo indietro sbattendo contro il muro, con ogni singolo centimetro del suo corpo robusto a tenermici intrappolata contro, cominciai ad andare nel panico. Puzzava di birra stantia e sudore. E quando la sua manaccia mi si posò dietro la coscia, cominciai ad agitarmi. Sarebbe stata solamente questione di tempo prima che si fosse spinta più in su. «Lasciami.» Gli misi le mani sul petto per spingerlo via, ma era troppo grande. Troppo forte. «Non finché non avrò ottenuto almeno una palpatina.»
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