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Il giglio rosso

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Blurb

«Noi vogliamo essere amate e, quando ci amano, o ci tormentano o ci annoiano.» Cinica e disincantata, la bella e capricciosa contessa parigina Thérèse vive un matrimonio ormai spento con un uomo «ingiallito dagli affari e dalla politica » e da tre anni intreccia una relazione clandestina con un giovane e fascinoso rampollo dell’alta società. Ma non è felice né soddisfatta; l’amore per lei è una parola vuota, ormai carica di retorica. È desiderata e corteggiata nei più bei salotti della città, eppure si annoia, tremendamente. Tutto cambierà, però. Invitata a trascorrere la primavera a Firenze, la città del «giglio rosso», l’incontro con un animo puro e sognatore, un uomo tanto lontano dal suo mondo, quanto capace di penetrare il segreto del suo cuore come nessun altro prima, la sconvolgerà completamente. Sul palcoscenico della città toscana, incarnazione della Bellezza assoluta, i due vivono il loro amore totale, che nutre al suo interno, tra menzogne e incomprensioni, il germe che ne minaccerà la sopravvivenza. Quel giglio rosso, simbolo di una passione frenetica, è capace di ferire. E la sua ferita sanguina senza potersi più rimarginare, per quanti sforzi faccia Thérèse per salvare l’unico vero amore della sua vita.

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1 Diede uno sguardo alle poltrone riunite davanti al camino, al tavolinetto da the che brillava nell’ombra, ai grandi mazzi di fiori pallidi che s’innalzavano dai vasi cinesi. Tuffò la mano nei rami fioriti dell’oppio perché le loro bacche argentate tremolassero. A un tratto si guardò da lontano, in uno specchio, con rapita attenzione. Si osservava di profilo, con la guancia piegata sulla spalla, seguendo con gli occhi le ondulazioni della sua forma flessuosa nella guaina di raso nero, intorno alla quale fluttuava una tunica leggera coperta di perle, nelle quali brillavano fiamme scure. Poi si avvicinò allo specchio, curiosa di osservare bene il suo viso di quel giorno. Lo specchio riflesse uno sguardo tranquillo, come se quell’amabile donna, che andava esaminando e che non le dispiaceva, vivesse senza grande gioia e senza profonda tristezza. Sulle pareti del grande salotto vuoto le figure degli arazzi, incerte come ombre, impallidivano fra i loro giochi antichi nelle loro grazie morenti. Come loro, le statuette di terracotta sulle colonnette, i vecchi ninnoli di Sassonia e le pitture di Sèvres, allineate nelle vetrine, raccontavano cose passate. Sopra un piedistallo guarnito di bronzi preziosi il busto di marmo di qualche principessa reale, travestita da Diana, con il volto capriccioso e il seno provocante, pareva sfuggire ai suoi panneggi complicati, mentre sul soffitto una Notte, incipriata come una marchesa e circondata da Amorini, spargeva dei fiori. Tutto sonnecchiava; si sentiva soltanto lo scoppiettio del fuoco e il tintinnare impercettibile delle perle sui veli. Distolto lo sguardo dallo specchio andò a sollevare l’angolo d’una tendina e, dalla finestra, vide, attraverso gli alberi neri dell’argine, la Senna scorrere con le sue onde gialle e vellutate in una luce pallida. La noia del cielo e dell’acqua si riflettevano nelle sue pupille di un delicato colore grigio. Uno dei battelli Hirondelle stava spuntando da un arco del ponte dell’Alma, portando gli umili viaggiatori verso Grenelle e Billancourt. Lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava dalla riva nella corrente fangosa; poi lasciò ricadere la tendina e, sedutasi nel solito angolo del divano sotto i fasci di fiori, prese un libro che si trovava sul tavolo, a portata di mano. Sulla copertina di tela paglierina brillava in oro questo titolo: Isotta la bionda, di Vivian Bell. Era una raccolta di versi francesi scritti da un’inglese e stampati a Londra. L’aprì e lesse a caso: Quando la campana, come la gente pia, canta nel cielo commosso: «Ave, Maria», la vergine, vedendo gli alberi del giardino, ha un brivido come all’annuncio dell’ignoto messaggero, che reca un giglio rosso e risveglia un desiderio: morir di profumo nel suo dolce respiro. Nel giardino chiuso la vergine, nella tranquilla sera, sente alle labbra l’anima salirle, e sembra che osservi trascorrere la vita come un ruscello in primavera che scorra nel suo petto, tra deboli sospiri. Leggeva indifferente, distratta, aspettando le sue visite e pensando più alla poetessa che alla poesia, a quella miss Bell che era forse la sua più piacevole amica e che non vedeva quasi mai; che, a ciascuno dei loro incontri così rari, la baciava chiamandola «darling», le batteva bruscamente il naso sulla guancia, e gorgheggiava; che, brutta e seducente, leggermente ridicola e veramente squisita, viveva a Fiesole da esteta e da filosofa, mentre l’Inghilterra la celebrava come la sua poetessa prediletta. Come Vernon Lee e Mary Robinson, s’era innamorata della vita e dell’arte toscana, e senza nemmeno terminare il suo Tristano, la cui prima parte aveva ispirato a Burne-Jones dei suggestivi acquarelli, scriveva dei versi provenzali e dei versi francesi su pensieri italiani. Aveva mandato la sua Isotta la bionda a darling con una lettera in cui la invitava a trascorrere un mese a Fiesole da lei. Aveva scritto: «Venite: vedrete le più belle cose del mondo, e le renderete ancora più mirabili con la vostra presenza». E darling pensava che non sarebbe andata, dovendosi trattenere a Parigi. Ma l’idea di rivedere miss Bell e l’Italia le dava piacere. Sfogliando il libro, si fermò per caso su questo verso: Amore e ’l cor gentil sono una cosa. Si chiese, con un’ironia leggera e dolcissima, se miss Bell avesse mai amato e quali potessero essere i suoi amori. La poetessa aveva a Fiesole un cicisbeo, il principe Albertinelli. Era bellissimo, ma sembrava troppo grossolano e volgare per piacere a un’esteta che metteva nel desiderio d’amare il misticismo di un’Annunciazione. «Buongiorno, Thérèse! Sono stanca morta.» Era la principessa Seniavine, flessuosa nella pelliccia che avvolgeva la sua pelle bruna e selvaggia. Si sedette bruscamente e, con la sua voce rude ma carezzevole dalle modulazioni virili e garrule, disse: «Stamattina, ho attraversato a piedi tutto il Bois con il generale Larivière. L’ho incontrato nell’Allée des Potins e l’ho accompagnato fino al ponte d’Argenteuil, dove voleva assolutamente comprare dal guardiano del Bois, per regalarmela, una gazza ammaestrata che fa gli esercizi con un piccolo fucile. Sono distrutta». «Ma perché allora avete trascinato il generale fino al ponte d’Argenteuil?» «Perché aveva la gotta a un dito del piede.» Thérèse alzò le spalle sorridendo: «Voi sprecate la vostra malignità. Siete una scialacquatrice». «E voi vorreste, cara, che risparmiassi la mia bontà e la mia cattiveria, nella speranza di collocarle seriamente?» Bevve un po’ di Tokaj. Preceduto dal rumore affannoso del suo respiro, il generale Larivière si fece avanti con passo pesante, baciò la mano alle due signore e si sedette fra loro, con aria dura e soddisfatta, gli occhi rivolti al cielo, ridendo con tutte le piccole rughe delle tempie. «Come sta il signor Martin-Bellème? È sempre occupato?» Thérèse rispose che credeva fosse alla Camera, e che, anzi, vi stava facendo un discorso. La principessa Seniavine, che mangiava delle tartine al caviale, domandò alla signora Martin perché non fosse venuta ieri dalla signora Meillan, dove avevano rappresentato una commedia. «Un dramma scandinavo? È piaciuto?» «Sì… non so… ero nel salottino verde, sotto il ritratto del duca d’Orléans. Il signor Le Ménil mi è venuto incontro e mi ha reso un servizio prezioso: mi ha liberato dal signor Garain.» Il generale, che era pratico degli annuari e immagazzinava nella sua grossa testa tutte le informazioni utili, tese l’orecchio a questo nome. «Garain» domandò «il ministro che faceva parte del Gabinetto, all’epoca dell’esilio dei principi?» «Proprio lui. Io gli piacevo molto. Mi parlava dei bisogni del suo cuore e mi guardava con una tenerezza spaventosa. E ogni tanto contemplava sospirando il ritratto del duca d’Orléans. Gli ho detto: “Signor Garain, voi confondete. È mia cognata che è orleanista io non lo sono affatto”. In quel momento, il signor Le Ménil è arrivato per condurmi al buffet. Mi ha fatto dei grandi complimenti… sui miei cavalli. Mi ha detto anche che non c’era niente di più bello dei boschi, d’inverno. Mi ha parlato di lupi e lupacchiotti. Tutto questo mi ha distratto.» Il generale, che non amava i giovani, disse che aveva incontrato Le Ménil il giorno prima, al Bois, che galoppava furiosamente. Aggiunse che soltanto i vecchi cavalieri conservavano la buona tradizione, mentre i giovani della buona società cavalcavano come fantini. «Così pure è per la scherma. Ai miei tempi…» La principessa Seniavine lo interruppe bruscamente: «Generale, guardate un po’ com’è bella la signora Martin. È sempre graziosa, ma in questo momento più che mai, perché si annoia. Niente le si addice meglio della noia. Da quando siamo arrivati qui, la stiamo annoiando stupendamente. Guardatela: la fronte corrugata, lo sguardo vago, la bocca dolorosa: una vera vittima!». Scattò in piedi, baciò tumultuosamente Thérèse, e se ne andò, lasciando il generale meravigliato. La signora Martin-Bellème lo supplicò di non dar retta a quella pazza. Allora lui si riprese e domandò: «E i vostri poeti, signora?». Perdonava a malincuore alla signora Martin il suo gusto per la gente che scriveva e che non apparteneva al suo mondo. «Sì, i vostri poeti? Che ne è stato di quel signor Choulette, che si presentava da voi con una sciarpa rossa?» «I miei poeti mi dimenticano, mi abbandonano. Non bisogna fare affidamento su nessuno. Gli uomini, le cose; non c’è niente di sicuro. La vita è un tradimento continuo. Non c’è che quella povera miss Bell che non mi dimentica. Mi ha scritto da Firenze, e mi ha mandato il suo libro.» «Miss Bell… non è quella giovane signora che ha l’aria, con i suoi capelli gialli arricciati, di un cagnolino da salotto?» Fece un calcolo mentale e commentò che adesso doveva avere almeno trent’anni. Una vecchia signora, che portava con modesta dignità la sua corona di capelli bianchi, e un omino vivace, dallo sguardo acuto, entrarono uno dietro l’altra: la signora Marmet e Paul Vence. Poi, tutto impettito, con il monocolo, apparve Daniel Salomon, l’arbitro dell’eleganza. Il generale se la svignò. Si parlò del romanzo della settimana. La signora Marmet aveva parecchie volte pranzato con l’autore, un giovane amabilissimo. Paul Vence trovava il libro noioso. «Oh» sospirò la signora Martin «tutti i libri sono noiosi… ma gli uomini sono più noiosi dei libri. E sono più esigenti.» La signora Marmet fece sapere che suo marito, che aveva un notevole gusto letterario, aveva conservato fino alla morte un sacro orrore per il naturalismo. Vedova di un membro dell’Accademia delle Iscrizioni, metteva in mostra, nei salotti, la sua illustre vedovanza; era dolce e modesta, nella sua veste nera e sotto i suoi bei capelli bianchi. La signora Martin disse a Daniel Salomon che voleva consultarlo su un gruppo di bambini in porcellana. «Viene da Saint-Cloud. Mi direte se vi piace. Anche voi, signor Vence, mi darete il vostro parere, a meno che non disprezziate queste piccolezze.» Daniel Salomon guardò Paul Vence attraverso il monocolo, con sgarbata alterigia. Paul Vence passava in rassegna, con lo sguardo, il salotto: «Avete delle belle cose, signora. Questo non sarebbe nulla: ma tutte queste belle cose sono una degna cornice per voi». Lei non nascose la sua gioia nel sentirlo parlare così. Stimava Paul Vence come l’unico uomo veramente intelligente che frequentasse il suo salotto. Lo aveva apprezzato prima ancora che i suoi libri gli avessero dato grande notorietà. La sua salute delicata, il suo umor nero, il suo lavoro assiduo, lo tenevano lontano dalla vita di società. Quel piccolo uomo bilioso non era molto piacevole. Eppure lei lo vedeva volentieri: stimava molto la sua profonda ironia, la sua selvaggia fierezza, il suo ingegno maturato nella solitudine, e lo ammirava, a ragione, come eccellente scrittore, autore di magnifici saggi sulle arti e i costumi. A poco a poco, il salotto si era riempito di una folla brillante. C’erano adesso, nel gran cerchio delle poltrone, la signora de Vresson, della quale si raccontavano storie spaventose, e che conservava, dopo vent’anni di scandali malamante nascosti, degli occhi infantili e delle guance virginali; la vecchia signora de Morlaine, che gridava con voce stridula i suoi motti di spirito, vivace, stordita, agitava le sue forme mostruose come una nuotatrice circondata da meduse; la signora Raymond, moglie dell’Accademico, la signora Garain, moglie dell’ex ministro, tre altre signore ancora; e, in piedi contro il camino, Berthier d’Eyzelles, redattore del Journal des débats, deputato, che si accarezzava le basette bianche e si pavoneggiava, mentre la signora de Morlaine gli strillava: «Il vostro articolo sul bimetallismo è una perla, un gioiello! Specialmente la fine, una delizia!». In piedi, in fondo al salotto, alcuni giovanotti eleganti, molto seri, bisbigliavano fra loro: «Che cosa ha fatto, per avere il posto d’onore alle cacce del principe?». «Lui? Niente. Sua moglie, tutto.» Avevano la loro filosofia. Uno di essi non credeva alle promesse degli uomini: «C’è un altro tipo d’uomo che non mi piace affatto. Quello che dice, con un’aria di sincera lealtà: “Volete iscrivervi al Circolo? Vi prometto di votare pallina bianca”. Pallina bianca? Non c’è dubbio: un globo d’alabastro, una palla di neve! Si vota: crac! Una truffa! La vita, a pensarci bene, è una brutta cosa». «E allora non pensarci» disse un terzo. Daniel Salomon, che si era aggiunto a loro, mormorava all’orecchio, con la sua voce casta, dei segreti d’alcova. E a ogni rivelazione strana sulla signora Raymond, sulla signora d’Eyzelles e sulla principessa Seniavine, aggiungeva con indifferenza: «Lo sanno tutti».

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