Capitolo uno: Sulla strada-2

2010 Palabras
Il freddo attirò tutta l’attenzione di Patrick. «Santo sgombro.» Era stata Susanne a convincerlo a imprecare con gli eufemismi una volta avuti i bambini. Immerse il contenitore nell’apertura. L’acqua sgorgò nell’imboccatura mentre il ghiaccio zampillava in piccole increspature, battendo contro la plastica. Quando la caraffa sembrò piena, la inclinò e avvitò il tappo integrato, poi la sollevò. Il peso, il vento, la neve, le rocce: era tutto troppo. Patrick inciampò nel lago fino alle ginocchia. Il contenitore diventò un salvagente portatile che lo teneva in piedi. L’acqua gelida fu come un migliaio di aghi di cactus che lo infilzavano ai piedi e alle gambe, una sensazione che conosceva molto bene da quando il suo cavallo, Reno, aveva spaventato un serpente a sonagli l’estate prima, lanciandolo col sedere su un appezzamento di cactus. «Dio benedica l’America.» Ma in quel momento gli eufemismi non erano abbastanza. Aveva bisogno di altro e urlò, «Figlio di puttana!» Patrick si girò, con l’intenzione di inerpicarsi rapidamente, ma le rocce scivolose gli resero il compito difficile. Aggrappandosi al contenitore per fare leva, uscì a fatica, poi se lo strinse all’addome per stabilizzare il suo centro di gravità. Maledisse la tempesta, Gussie, l’acqua e la grande tanica problematica. Avanzando lentamente, vacillando e scivolando, raggiunse la sponda nevosa. Quando uscì fuori, il vento gli sferzò le gambe e i piedi, raffreddandolo ancora di più. Patrick cercò di misurare la distanza dal veicolo e riuscì a malapena a vedere le luci di Gussie. Un getto d’aria gli sfuggì dalle labbra, come la risata di un cavallo. Patrick non si sarebbe lasciato morire a nove metri dalla salvezza, ma era esattamente quello che sarebbe successo se fosse rimasto fuori troppo a lungo. Gambe in spalla. Guadò in salita nella neve che si attaccava ai jeans bagnati formando delle croste gelide. Quella che era stata una breve camminata sembrò un’escursione sul monte Everest, e ciò che prima era scivoloso e traballante, a quel punto lo era diventato il doppio. Patrick cadde in ginocchio tre volte prima di raggiungere Wes al cofano di Gussie, dove i denti gli batterono così forte che temeva si sarebbero rotti. Wes prese l’acqua da lui, con un sopracciglio alzato. «Sembra che tu abbia fatto un tuffo da orso polare. Hai delle calze e dei guanti in più?» «C-c-c-calze.» Patrick sapeva di doversi allontanare dal vento, così annuì verso Wes e corse via. L’interno del Travelall era beatamente caldo. Si tolse i guanti, e dopo averli messi ad asciugare sulla brezza calda dello sbrinatore, allungò il braccio dietro e trascinò il borsone al centro dei sedili. Aprì la zip. I vestiti caddero a terra mentre scavava alla ricerca di calze di lana, scarpe da ginnastica e due paia di mutande pulite. Accatastò la pila in grembo mentre armeggiava con gli scarponi da trekking. Le dita fredde non volevano cooperare con i lacci, ma con tanta fatica li slacciò abbastanza da togliere prima gli scarponi e poi le calze fradicie. Li divise tutti sul retro, attento a evitare i vestiti bagnati. Poi, per un momento, appoggiò i piedi gelidi sul cruscotto, grugnendo. L’aria calda era così piacevole. Facendo un respiro profondo, si sforzò di togliere i piedi dall’aria calda e si mise le calze. La pelle bagnata afferrò la lana asciutta, e quando ebbe infilato i piedi a forza, era senza fiato. Fece i risvolti ai jeans e li arrotolò sopra gli stinchi per allontanare il bagnato dalle gambe, poi tirò su le calze e si infilò le scarpe. I suoi piedi formicolavano e bruciavano ogni secondo di più, il che era un buon segno. Nessun gelone. Alla fine, avvolse le dita rigide e rosse nelle mutande asciutte. Quello che era sembrato un dolore eterno passò. Patrick si chiese perché Wes ci stesse mettendo così tanto. Qualche minuto dopo lo sentì dietro il Travelall, che metteva via gli strumenti e i materiali. Poi i portelloni posteriori si chiusero, e qualche attimo dopo Wes saltò sul sedile del conducente. Anche lui si tolse i guanti e li mise sul cruscotto, poi si sfregò velocemente le mani, e rivolse un ghigno a Patrick. «E io che pensavo di essere bagnato.» «Perché ti c-c-ci è voluto tanto?» «Ho preso un altro contenitore d’acqua, in caso ne avessimo bisogno più in là.» Patrick era grato che Wes infierisse del fatto che anche lui aveva fatto un tuffo. «Buona idea.» «Andiamo.» Wes mise la retromarcia, lasciando un piede sul freno e accelerando delicatamente con l’altro. Gli pneumatici girarono per un secondo terrificante, poi prese il via, e il Travelall fece retromarcia sul pendio. «Grazie a Dio esistono i 4X4.» Patrick pensava ancora all’immersione nel lago d’acqua ghiacciata. Che stupido. Non era stato abbastanza attento. Sarebbe potuto affogare o morire di ipotermia. «Ma che dici, Doc?» Patrick serrò le labbra. A prescindere da quanto ci provasse, non riusciva a evitare di muovere le labbra quando parlava con se stesso, cosa che, secondo gli amici, familiari e colleghi, faceva molto spesso. «Ha-ha.» Di ritorno sulla statale, ebbero fortuna. Mentre loro si erano presi cura di Gussie, uno spazzaneve aveva creato un passaggio sul loro lato della strada. Almeno per il momento il nuovo radiatore non sarebbe stato sommerso. Il Travelall si impennò sulla neve bassa come un cutter della Guardia Costiera, e le cittadine sui puntini della mappa passavano lentamente ma con regolarità. Shoshoni. A destra invece c’era Pavilion. A sinistra Kinnear. Nel frattempo, la neve continuava a cadere, e il sole si rifiutava di splendere. Al chilometro 132, oltre Johnstown e a metà strada da Ethete, Wes schiacciò il freno. Patrick si mise dritto di scatto. Si era assopito. Davanti vide un vecchio pick-up Dodge a doppia cabina sul fianco della strada con il muso su un bordo e i lampeggianti accesi. Un uomo, vestito dalla testa ai piedi con un vaporosa tuta invernale nera, oscillò entrambe le braccia sopra la testa. Wes fermò Gussie mentre si avvicinavano al pick-up. I due amici si guardarono. «E se tu rimanessi al volante», disse Patrick, «e io andassi a vedere cosa succede?» Voleva avere fiducia nel collega, ma non voleva neanche arrivare a Fort Washakie a piedi se si trattava di una rapina a mano armata. «Hai la pistola?» Patrick prese il fodero dalla borsa da medico e se la allacciò al fianco. Controllò la Magnum .357, poi la rimise nel fodero. «Carica.» Si diede un colpetto sul fianco, sentendo la solidità rassicurante dell’arma di sostegno. Al suo ultimo compleanno, Wes gli aveva regalato un coltellino da tasca da quindici centimetri, con incisa la scritta SEGAOSSA sul manico. Quello che aveva spinto nella gola di Chester, l’uomo che aveva rapito e violentato la figlia. Patrick tremò. In quanto dottore, la sua missione era di salvare vite, non toglierle, e sperava di non trovarsi mai più nella situazione di dover scegliere di porre fine a una vita umana. Aprì la portiera, e la piena forza del vento del nord lo colpì in viso. «Non ti srotoli i pantaloni, Doc?» Patrick si guardò le gambe. Aveva le calze di lana grigie e rosse alzate fino alle ginocchia, le scarpe da corsa Adidas e i jeans alla pescatora. Era il tipo di look che attirava le botte. «Grazie.» Patrick sogghignò e li srotolò. «Se non torno tra cinque minuti, manda la cavalleria.» Poi ci ripensò. «Non è il massimo dato il posto in cui ci troviamo.» «Non ti preoccupare. Ti copro io.» Patrick sbatté la porta e chinò la testa nel vento, abbottonandosi la giacca mentre si avvicinava al pick-up. Il Wyoming non è per pappemolli, pensò. Una delle caratteristiche che amava di più. L’uomo in nero lo raggiunse alla portiera posteriore del pick-up. Con il cappuccio stretto attorno al viso, Patrick vide una pelle scura e liscia, delle pupille dilatate in occhi marroni, e labbra bianche e screpolate. «Mia moglie è in travaglio. La stavo portando all’ospedale a Buffalo.» L’espressione dell’uomo si fece quasi dispiaciuta. «L’assistenza medica alla riserva non è il massimo, ma la neve si è fatta troppo profonda. Stavo cercando di girarmi e ci siamo bloccati. Ora dice che il bambino sta arrivando.» Come a comando, dai sedili posteriori arrivò un lungo urlo agghiacciante. L’uomo trasalì, unendo le pesanti sopracciglia. «Non so cosa fare per aiutarla. Mia madre ha fatto partorire tutti in famiglia, ma è morta tre anni fa.» Patrick gli diede una pacca sulla spalla. «Buffalo è venuta da lei. Faccio il medico lì. Stavo proprio per andare alla clinica a Fort Washakie per dare una mano. Le dispiace se le do un’occhiata? Se può viaggiare, potremmo almeno accompagnarla lì dove starebbe più al caldo e più comoda. Magari lei e il mio amico potreste sbloccare il pick-up mentre io mi occupo di sua moglie.» Gli occhi dell’uomo si riempirono di lacrime. «Grazie. Sì, sì, sarebbe fantastico.» Patrick prese la mano guantata dell’uomo e la strinse. «Io sono il dottor Flint. Qual è il nome di sua moglie?» «Eleanor. Eleanor Manning, e io sono Junior.» «È il primo figlio?» Junior annuì. «Va bene, allora perché non le dice chi sono prima che entri lì dentro con lei?» Patrick gli sorrise. Junior rise, di una risata nervosa e acuta. «Va bene.» Aprì la portiera, rilasciando un dolce profumo speziato che ricordò a Patrick l’odore delle bacche. Si inginocchiò in terra, sussurrando all’orecchio di una donna dai capelli neri il cui corpo era coperto da un ammasso di coperte colorate. La baciò in fronte mentre urlava di nuovo, poi si fece indietro e annuì verso Patrick. Patrick si spostò nel punto liberato da Junior, assimilando le guance rosse e il viso teso di Eleanor. I lunghi capelli nero corvino erano appiccicati alle labbra e al collo sudato. «Eleanor? Sono il dottor Flint. Come va?» L’urlo della donna fu come un pugno al timpano. «Vado dall’altra parte del pick-up. Devo controllare il bambino. Va bene?» Eleanor aveva gli occhi sgranati e le ciglia lunghe. Si morse le labbra e annuì in piccoli e rapidi scatti. «Va bene. Mi dia solo un secondo.» Poi disse a Junior, «Perché non rimane qui per un minuto a vedere se le lascia prenderle la mano. Le parli, la distragga.» Junior si rituffò nel pick-up, si tolse un guanto e prese la mano di Eleanor. Patrick corse dall’altra parte. Odiava dover lasciare entrare quel malefico vento del nord, ma non aveva scelta. Aprì la porta con un colpo secco e si tolse i guanti, li mise in tasca e poi toccò la caviglia di Eleanor. «Sono qui, e sto per alzare le coperte per vedere come va. Sentirà freddo, e mi dispiace. Si rilassi più che può.» Dietro di lui una voce disse, «Ho portato la tua borsa di olio di serpente.» Wes. Si riferiva alla borsa da medico di Patrick. «Hai bisogno di una mano, Doc?» «Grazie. Io sono a posto, ma lui è Junior, e ha bisogno di tirare fuori il pick-up e puntarlo verso Fort Washakie.» «Nessun problema, Junior, io sono Wes.» Alzò la pala. «Ho portato anche questa, e alle spalle ho molta pratica di scavatura.» Wes sogghignò. «Grazie, Wes.» Junior sussurrò di nuovo qualcosa alla moglie, poi indietreggiò per mettersi a lavoro con Wes. Patrick mise la borsa a terra, poi ci frugò dentro. Bende. Antibiotici. Antidolorifici. Valium. Fenobarbital per le convulsioni. Miorilassanti. Siringhe. Nastro adesivo. Carbone attivo. Uno stetoscopio, che si mise attorno al collo. Un paio di guanti chirurgici e una torcia. Afferrò i guanti e la torcia, si strofinò le mani nella neve, poi alzò le coperte fino al fianco di Eleanor. Le alzò le ginocchia, dividendole, e accese la torcia. Non riusciva a vedere la testa del bambino, il che era un buon segno. Mentre si infilava il guanto, era felice di non indossare un anello. Così non avrebbe dovuto toglierlo e rischiare di perderlo. Una volta, subito dopo il matrimonio con Susanne, la fede si era incastrata in un chiodo. Si era quasi strappato via il dito, e non indossava l’anello da allora. Patrick disse a Eleanor, «Sto allungando la mano per vedere a che punto è il bambino, Eleanor.»
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